giovedì 7 agosto 2014

Nuovo blog



Mosche in bottiglia si trasferisce. 


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mercoledì 30 luglio 2014

I libri che non si leggono

Tullio De Mauro interviene su Repubblica, con una lettera a Corrado Augias, in merito a una discussione sull’uso corrente della lingua italiana. Scrive tra l’altro De Mauro: “Negli ultimi decenni la vita sociale ci ha spinto ad acquistare l’uso parlato della lingua, ma non a leggere. La scuola di base ha svolto e continua a svolgere un grande lavoro, ma non così la scuola media superiore. Questa e poi l’università hanno ignorato e ignorano la pratica estesa della lettura e della scrittura come parti integranti e abituali dello studio. In queste condizioni è inevitabile che l’italiano parlato sia per molti un italiano orecchiato, ma non ben posseduto. Tale resterà finché scuola media superiore e università non cambieranno registro e finché i libri non entreranno nella nostra vita quotidiana”.
Tullio De Mauro
Tullio De Mauro
L’esperienza di insegnamento dell’italiano nella scuola superiore conferma queste affermazioni. I ragazzi di oggi parlano di solito in maniera sciolta e anche sostanzialmente corretta e precisa, ma scrivono in modo confuso, e comunque con risultati comunicativi al di sotto della loro espressione orale. Inoltre si trovano in difficoltà di fronte a un romanzo appena più complesso, linguisticamente o per costruzione narrativa.
E’ vero, a scuola si legge con estrema parsimonia. Non sono pochi gli studenti che arrivano all’esame di Stato senza conoscere integralmente nessuna delle opere sulle quali pure discorrono di fronte alla commissione. Gli insegnanti di scuola superiore, ormai irretiti dalle pastoie burocratiche e avviliti da riforme che li hanno allontanati dalla sostanza dell’insegnamento, sembrano aver dimenticato che la materia fondante della letteratura non sono le informazioni sulle opere, ma le opere stesse, i libri cioè, che spesso in aula entrano solo nella versione libro di testo.
Nella sua risposta alle “note” di De Mauro, Augias se la prende con la gara suicida tra destra e sinistra, a colpi appunto di riforme scolastiche, che “volendo dare all’istruzione maggiore ‘democrazia’ ha in realtà reso gli studi non più facili ma più faciloni”. Non so se l’affermazione di Augias risponda a verità (la questione andrebbe opportunamente approfondita: la scuola secondaria superiore offre molti più contenuti di qualche decennio fa, a scapito però dell’approfondimento), ma sicuramente non centra l’argomento. Il problema infatti non è se la scuola sia più o meno “facile”, ma se riesca, nello specifico nell’insegnamento della letteratura italiana, a generare curiosità nello studente, e se sia in grado di riportare il libro al centro del processo educativo.
Bisognerebbe che gli insegnanti trasmettessero la loro passione per la lettura (quando c’è) e che dimostrassero, prove alla mano, che il termine letteratura non comporta unicamente uno sguardo sul passato remoto. Due primi passi sono dunque possibili: leggere molto in classe insieme agli alunni e confrontarsi sui testi letti; indirizzare verso autori contemporanei lo stesso impegno destinato alle opere del passato. Che senso ha leggere Giambattista Marino e l’Alfieri, e non aver mai preso tra le mani un libro di Penna o di Caproni, nemmeno sapere che esistono Magrelli e la Cavalli? Come si fa a “possedere” la lingua se non si conoscono le opere di coloro che attualmente la nostra lingua smontano e rimontano?

lunedì 21 luglio 2014

LE POESIE di Roberto Mussapi (Ponte alle Grazie)


Gli esordi di Roberto Mussapi risalgono alla metà degli anni Settanta con la partecipazione alla rivista Niebo e successivamente con la pubblicazione nel 1979 delle poesie de I dodici mesi nei Quaderni della Fenice di Guanda, poi confluite in La gravità del cielo del 1984. A distanza di trenta anni da qual primo libro di versi, l'editore Ponte alle Grazie dedica ad una delle voci poetiche più significative e più originali degli ultimi decenni il volume Le poesie, che include tutti i versi fino a L'incoronazione degli uccelli nel giardino e a Il capitano del mio mare, i due poemetti di più recente pubblicazione destinati al pubblico dei ragazzi. La raccolta di oltre 500 pagine è introdotta dagli scritti di Wole Soyinka e di Yves Bonnefoy e si avvale di un ampio e circostanziato contributo critico di Francesco Napoli, fondamentale per sviluppare una riflessione generale sull'opera di Mussapi.
Mentre la voce dei poeti contemporanei spesso si muove all'interno di un paesaggio essenzialmente esistenziale, e a volte ripiega su un io claustrofobico, la poesia di Mussapi, anche quando si sviluppa a partire da un dato legato all'esperienza, trasforma presto l'evento in una conoscenza che trascende la sfera individuale. Il lettore è chiamato a partecipare alla ricostruzione di una sorta di memoria comune, di un archetipico sentimento del mondo e della vita, che va in qualche modo dissotterrato, liberato dalle incurie e dalla superficialità in cui l'ha costretto il nostro vivere quotidiano. La poesia in Mussapi è azione di scavo: riporta in luce qualcosa che ci appartiene nel profondo, le nostre comuni verità nascoste, come appunto in ogni tempo avviene nella poesia di carattere epico. La poesia libera gli oggetti e gli eventi dalle incrostazioni che li appesantiscono e li opprimono, e questi, una volta affrancati, non solo appaiono più leggeri, ma diventano altro da quello che erano, propongono una nuova storia, mirano a una verità che non ci aspettavamo.
La lingua di Mussapi accenna alla prosa ma sempre se ne distingue, è racconto epico che propende incessantemente verso una sponda lirica. La tensione narrativa assume spesso la forma del racconto del mito, nella duplice direzione del mito antico che si fonde e si confonde con la nostra vita abituale, offrendole senso ed arricchendo i gesti di un valore metafisico, ma può anche proporre volti e vicende del quotidiano, che assurgono alla potenza del mito. Ordinario e visionario si uniscono per dare vita a un dettato molto equilibrato, ma capace di produrre quelli che Soyinka definisce “shock improvvisi”. La lingua della concretezza e del racconto procede di pari passo con quella della rarefazione e della rivelazione. In questo senso i punti di riferimento vanno ricercati solo marginalmente nella tradizione italiana (in particolare in Foscolo), maggiormente in esempi derivanti dalla letteratura di matrice anglosassone, come i più volte dalla critica citati Coleridge e Dylan Thomas, Yeats e i romantici inglesi.
In Mussapi il mito è naturalmente strumento di conoscenza del mondo, ma anche rito iniziatico: si può conoscere insomma diventando altro da quello che si è (il bambino che diventa adulto: non è un caso che in Le poesie, con una scelta molto felice, non si distingua tra poesia rivolta agli adulti e “per l'infanzia”), assumendo altre forme, facendosi personaggio. Diventare un altro è premessa alla visionarietà, così come ad uno sviluppo drammatico della parola poetica, che costringe l'io lirico a presentarsi di frequente nelle vesti di un io monologante.
Tutto ciò è la premessa perché la poesia di Roberto Mussapi sia compassionevole e pietosa, e che dunque miri, come scrive Bonnefoy, a “levare gli occhi dagli accidenti della propria specifica condizione per abbracciare con lo sguardo l'intero orizzonte umano”. Del resto anche la percezione del tempo non è esperienza individuale in Mussapi e dunque guardare al passato significa aggiungere elementi di coscienza e consapevolezza collettiva alla durata privata della percezione temporale. Leggiamo in La canoa, tratta da La stoffa dell'ombra e delle cose: “Ricordi il buio, la grotta, la paura, / la paura che ci mutò in specie, specie abbracciata, / e il fuoco, e oltre il fuoco i primi confini? // Ricordi come piangevamo vedendo un cavallo, / sentendo nella sua corsa la forza del dio? / E come volevamo correre in lui, / e superare la vita, non morire?”.
La poesia ha anche questo compito: indicare la strada del ritorno, come scrive acutamente Napoli, che ci permetta di rifiutare e sconfiggere l'idea del nulla da cui siamo assediati. La poesia di Mussapi, suggerisce ancora Bonnefoy, possiede quel “genere di verità che perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l'amore, il semplice amore tra persone, si rivela all'ultimo momento come la sola verità”. Così l'anima del tuffatore di Paestum, protagonista del celebre dipinto funerario del V secolo a. C. può concludere in questo modo il discorso rivolto al figlio: “Ma ora che dormi come quando in una culla / sembravi cercare i segreti del mondo, / ora che hai spalle più larghe e più radi i capelli, / ascolta le parole della mia anima: / non so molto di lei – di me stessa - / (è presto, figlio, non conosco abbastanza, / ho appena iniziato, sto nuotando), / non pensare al mio corpo (è tardi, / perle, quelli che furono i miei occhi, e le mie labbra contratte in corallo), / ma ho conoscenza del loro matrimonio, / di quando vivevano all'unisono nel mondo / e io, anima di tuo padre, il tuffatore / ti consegno solo questa esperita certezza / (dal fondo dell'abisso, nel brivido del tuffo): / che anche l'uomo può amare eternamente”.


(pubblicato su succedeoggi.it)




giovedì 17 luglio 2014

La Capria e le anatre

Ho sempre apprezzato di Raffaele La Capria la fluidità dello stile. Di fronte a una sua opera letteraria di maggiore spessore, su tutte il romanzo Ferito a morte, come a uno degli articoli, con i quali puntualmente sembra sorridere del mondo offrendo una lettura apparentemente a margine, e invece così inequivocabilmente necessaria, di eventi già di per sé apparentemente marginali, sono attratto dal procedere quasi distratto, eppure così preciso e nitido, dalla capacità di mostrare la complessità in modo lieve, rappresentandola però senza mezze misure e scorciatoie. Siamo forse in un guazzabuglio, ma procediamo diritti e sicuri. Insomma, per usare un'espressione cara allo scrittore napoletano, la sua scrittura è come una Bella Giornata, una tersa mattinata di sole che fa più bello il paesaggio e sembra rendere facile adattarsi alle asprezze del mondo. La Bella Giornata è “anche un'idea di scrittura – ha scritto recentemente La Capria in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera -, quella della semplicità che arriva dopo la complessità”.
Per meglio spiegare in cosa consista questa idea di scrittura, La Capria torna su un paragone già utilizzato, mettendo a fuoco quello che lui chiama “lo stile dell'anatra”: “l'anatra che fila liscia sulla superficie dell'acqua e sembra spinta da una forza astratta, non fisica, e invece è data dal lavoro delle zampette palmate sotto il livello dell'acqua, un continuo lavorio delle zampette che però non si vede, non si deve vedere, come non si deve mai vedere lo sforzo nello stile di uno scrittore”.
E' un'idea di scrittura che trovo molto affascinante: esprimere con semplicità la complessità del mondo, operazione difficilissima e che richiede costante applicazione e grande fatica, e fare in modo che il lavoro dello scrittore non risulti visibile, che la scrittura sembri quasi spinta da una forza astratta. La teoria potrebbe classificare, senza con questo esprimere giudizi di valore, le esperienze letterarie degli ultimi decenni.
Se penso alla poesia italiana della seconda parte del Novecento mi sembrano dotate dello stile dell'anatra le poesie di Penna e di Caproni, per fare un esempio tra i più facili, sicuramente quelle di Cattafi e Valeri, meno il Pasolini poeta, molto più anatra nel romanzo Ragazzi di vita.




mercoledì 2 luglio 2014

Docenti, indocenti, indecenti

Avevo anticipato che sarei tornato sull'articolo di Alessandro D'Avenia, pubblicato il 25 maggio scorso sull'inserto domenicale del Corriere della Sera. Lo faccio con piacere, e con un po' di apprensione, perché l'autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue, riferendosi alla sua esperienza di insegnante, ma forse, vista la sua giovane età, ricordando anche gli anni vissuti da studente, riflette sugli atteggiamenti e sulla pratica didattica di chi insegna, distinguendo tre categorie.
I docenti in atto sono quelli che “pongono le condizioni dell'imparare, non lo pretendono”, ma soprattutto “svincolano il sapere dalla pur necessaria prestazione e lo orientano a diventare vita”. Sono gli insegnanti che sanno che la cultura deve essere uno strumento per leggere la realtà e sono anche quelli che “non smettono di studiare, prestano libri, offrono un caffè ad uno studente in crisi, fanno lezione fuori dal programma, dedicano tempo fuori dalla lezione...”. D'Avenia conclude che “la loro classe è convivio, hanno l'autorità di chi assapora la vita e la porge”.
Ci sono poi gli indocenti, che per vari motivi (tra i più diffusi certamente la stanchezza, l'insoddisfazione e l'inadeguatezza dello stipendio) hanno competenza, ma non riescono a trasmettere il proprio sapere. L'indocente “non insegna perché non impara dai ragazzi, la sua classe si appiattisce sulla prestazione”. In questo caso, il programma e l'esame sono “l'orizzonte di autorità”. Aggiungerei che le loro indubbie conoscenze sono l'unica luce che illumina il percorso didattico, ma è una luce che a volte abbaglia, deforma le figure e porta fuori strada. L'errore più grande, in questo caso, è far credere che sia approdo quello che è solo una tappa (il compito, l'interrogazione) per verificare se si sta procedendo correttamente in un viaggio anche piuttosto lungo e complesso. I ragazzi in questo caso credono di aver raggiunto il proprio scopo ottenendo un voto che li soddisfi, si sentono inadeguati se questo non avviene. Non è così.
Infine ci sono gli indecenti, che “non conoscono ciò che insegnano e trasformano la classe, presto connivente, in chiacchierificio e poltiglia educativa”.
Se si dà per vera la conclusione di D'Avenia che di docenti “ce n'è almeno uno nella nostra vita e gli dovremmo, se non il doppio dello stipendio, almeno un grazie” (e come non pensare che “almeno uno” nella vita è un po' poco) se ne deduce che la categoria senz'altro più numerosa è quella intermedia. Tra gli indocenti mi sembra particolarmente nutrita, o almeno in grande crescita, la sottocategoria che potremmo definire dei docenti burocrati, che ritiene che l'insegnamento possa essere risolto nella precisione con cui si aderisce alle norme e al fantomatico programma. Sono gli insegnanti, per intenderci, che credono che le prove somministrate (termine recentemente entrato prepotentemente nel gergo ministeriale; da notare che finora abbiamo creduto possibile somministrare una medicina, i sacramenti...) siano il cuore pulsante del proprio lavoro, non lo scambio quotidiano con gli alunni, che ogni uscita dall'aula, anche per il più nobile fine, sia una “perdita di tempo”, e che sia necessario attenersi rigidamente alla media dei voti ottenuti (“Fantozzi, non sei sufficiente, hai solo la media del 5,75”). Quasi sempre amati dai dirigenti, sono costantemente impauriti da possibili ricorsi e dall'atteggiamento di genitori ritenuti quasi sempre incompetenti, pronti, a loro dire, a difendere acriticamente e anche disonestamente i propri figli.
Ma cosa fare? Bisognerebbe che gli indocenti diventassero docenti. Invece la scuola premia chi si guarda dal promuovere curiosità e motivazione, se questo significa rivedere almeno in parte il ruolo di chi insegna e la propria posizione nella relazione all'interno della classe. Eppure basterebbe, per tornare alle affermazioni di D'Avenia, che la materia nelle ore di lezione venisse considerata “terreno comune di ricerca, non trincea”.



martedì 24 giugno 2014

TUTTE LE POESIE di Giovanni Giudici (Oscar Mondadori)

Nel 1953, appena pubblicata la sua prima raccolta di versi, Giovanni Giudici, che all'epoca abitava nella periferia di Roma, aveva quasi trenta anni e nell'operazione aveva impegnato 25mila lire dell'esiguo bilancio familiare, pensò di spedirne la prima copia ad Umberto Saba, che si trovava allora in una clinica romana per curarsi. Lo racconta lo stesso Giudici nel prezioso e ormai introvabile Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, spiegando anche il perché di tanta sollecitudine: “Già da diversi anni egli era il poeta che più amavo e leggevo e, forse, il primo fra i contemporanei del quale avessi letto qualche poesia”, che è un modo anche per mettere in evidenza una filiazione, per mostrare un grado di parentela. Saba, per la cronaca, rispose al giovane allievo, dando così inizio ad una frequentazione che sarebbe durata negli anni successivi, i pochi anni che separavano il vecchio poeta triestino dalla morte.
L'episodio è riaffiorato alla memoria, mentre sfogliavo il ponderoso Oscar Mondadori dedicato all'intera opera poetica di Giovanni Giudici: oltre 1200 pagine di versi, a cui vanno aggiunte le cinquanta dell'introduzione firmata da Maurizio Cucchi, l'apparato bio-bibliografico e le circa quaranta pagine di indice. Tutte le poesie, che va ad affiancarsi al Meridiano pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2000, si propone come uno strumento importante per avvicinarsi o per rileggere l'opera di uno dei poeti che maggiormente hanno segnato con la propria continua ricerca linguistica e con la forte connotazione etica, il panorama poetico italiano della seconda metà del Novecento.
Come Saba ebbe a contrastare i bagliori delle avanguardie e la presenza fagocitante dell'ermetismo attraverso una propria particolare declinazione della lingua della poesia e del valore che essa viene ad assumere nel rapporto con il lettore, anche Giudici, che si trovò inizialmente stretto tra le propaggini del neorealismo e l'invadenza sperimentale del Gruppo 63, seppe costruire un proprio peculiare percorso, alimentato del rapporto con la tradizione, che viene recuperata in forme sempre originali. Si percepisce in Giudici la necessità di nutrirsi del passato della letteratura, di attraversarlo con tenacia e regolarità, ma insieme l'attenzione costante ad abbassare i toni che dalla tradizione provengono, ribadendo in tal senso in maniera singolare ed efficace l'esempio gozzaniano. Del resto nell'opera del poeta di La vita in versi, Autobiologia, Il male dei creditori, per citare alcuni dei titoli più noti, la lingua della poesia, sorprendentemente tesa a prelevare da vari registri e da diversi territori linguistici è sempre comunque disposta a fare i conti con il linguaggio della comunicazione ordinaria. Giudici crede fortemente nella forza evocativa della parola, ma sa anche che essa non può prescindere dalla necessità di un confronto serrato con il presente. Del resto la poesia è avvertita come dispositivo per liberare e nello stesso tempo controllare l'energia della parola. Scrive Giudici in una delle brevi prose contenute nel volume a cui prima si faceva riferimento: “Fare i conti con la lingua sarà in primis prendere coscienza del ricco e polivalente strumento di cui disponiamo. Fare poesia: utilizzare un materiale di esperienze fisiche e sentimentali per fabbricare oggetti linguistici multi-uso. Dominare la lingua è dominare, nei limiti della nostra finitezza, il reale. Lingua è il reale che entra in noi, si trasmette e si propaga”. Ed è questa un'affermazione che bene può accompagnare la lettura dei versi del poeta nato a Le Grazie, una frazione di Portovenere, sul mare di Liguria, e poi vissuto lungamente a Milano.
L'Oscar da poco pubblicato dà conto di un percorso poetico vario e polifonico, ma sempre indirizzato a cercare di ottenere il massimo effetto comunicativo facendo interagire i valori prosodici e sonori del verso (l'uso per esempio di rime e assonanze, il continuo ricorso ad un sistema di strofe, la scelta nella seconda parte della produzione di far iniziare ogni verso con la maiuscola, a segnalarne la compiutezza fonetica e di senso) con il naturale svolgimento, vicino alla prosa, dei registri linguistici. Ne nasce una lingua varia e complessa, una mobilità espressiva che si realizza, come scrive Cucchi, attraverso “una continua oscillazione di tono e nell'uso di materiali linguistici e stilistici eterogenei”.
La poesia di Giudici oscilla anche costantemente, denunciando ancora una volta il legame con l'antecedente sabiano, tra la tendenza alla narrazione e la forte tensione lirica, in qualche modo placata però quest'ultima dal ricorso all'ironia e all'autoironia e dall'allusione a un paesaggio ordinario e quotidiano, a volte anche dimesso e popolato di piccole cose.
Scrivere poesia è sempre comunque una promessa d'amore nei confronti della parola, un'umile ma faticosa e studiatissima prova di abilità artigiana, ma anche, e in questo risiede in parte il valore etico dell'atto, capacità di ascoltare l'energia, le interne armonie, i doni, che le parole portano con sé. In questo senso il poeta è insieme “alunno e fabbro”, come è detto nella lirica Un poeta, contenuta nella raccolta Quanto spera di campare Giovanni del 1993: “Uomo, sì, grazioso / Come si dice di colui che pure / Non grato all'apparenza si fa amare / Per le miti maniere in braccio alle sventure / O minima intenzione a fior di labbro: / Di ciò nel fare cose di parole / Alunno e fabbro”.


(pubblicato su succedeoggi.it)



lunedì 16 giugno 2014

MANCANZE di Alessandro Fo (Einaudi)

La poesia di Alessandro Fo si muove con rapida e stupefatta delicatezza tra le vicende del mondo, che tenta sempre inizialmente di risolvere nella linearità del racconto. Ma, come avviene nella lirica di Sereni, non appena il filo narrativo sembra cominciare a dipanarsi, e ad assolvere alla sua funzione ordinatrice, subito qualcosa (un pensiero laterale, un gesto inaspettato, lo sguardo che si posa su un oggetto apparentemente senza importanza) lo porta in altra direzione, lo spinge verso prode impreviste. Ne derivano preziose quanto pericolose sovrapposizioni di senso, che fanno sì che il lettore si trovi dinanzi una realtà pencolante, in fondo poco rassicurante anche se presentata con i toni della leggerezza e della sobrietà, dentro cui muoversi con l'occhio sorpreso di chi scopre dietro l'ordinarietà degli eventi l'incanto e la magia.
Ne troviamo conferma nella raccolta Mancanze, da poco edita da Einaudi. Il titolo traduce per approssimazione l'originario Reliqua desiderantur, l'appunto con cui si indicava, a margine dei testi antichi, la mancanza di qualcosa: il resto manca insomma, ma in quanto tale rimane appunto sotto forma di desiderio. Per esigenze editoriali (il latino non attrae e poi sarebbe stata troppo forte la rassomiglianza con il fortiniano Composita solvantur), Fo ha dovuto abbandonare l'idea iniziale, lasciando all'immaginazione del lettore l'anelito di quell'evanescente riferimento al desiderio che pure avrebbe già detto qualcosa sul contenuto del libro.
Perché in fondo la poesia di Fo, che si proponga sotto forma di preghiera, come nella prima sezione della raccolta, o che penetri con grazia all'interno del miracolo della musica di Chopin, come accade nella sezione che ha titolo Il tono blu (Variazioni Chopin), è sempre alla ricerca di quel particolare che manca alla realtà per definirla, quella zona celata ed ambita che sappiamo esistere in qualche luogo e in qualche forma, perché fa parte indiscutibilmente delle nostre esistenze, e da cui però ci sentiamo irrimediabilmente separati. La parola ha dunque il compito di svelare e di riportare in vita, di consolare e di mettere in evidenza le parti che mancano, di dare concretezza a ciò che è impalpabile. E' quanto avviene nella preghiera. Solo che quella declinata da Alessandro Fo è orazione tutta impregnata di una religiosità laica e mondana, sia pure composta in una pietà sincera e devota: “E non è cosa meno incredibile il pensiero, / a pensarlo davvero, / questo nulla che si fa verbo e moto, / il corso di parole / che esercita il diritto / di pronunciarsi muto / e sfocia qui trascritto, // l’immateriale / dentro il materiale / – o forse nel suo vuoto // – come la Grazia, / nel suo corpo mortale”.
Nei versi di Mancanze vita e morte dialogano incessantemente, così come si rincorrono i volti delle persone care con le presenze di angeli (a loro è dedicata un'altra sezione del libro), che possono anche essere figure intraviste, apparizioni destinate a svanire, delle quali poi si potrà sentire appunto solo il peso dell'assenza. Gli angeli delle poesie di Fo, che denunciano uno stretto grado di parentela con le fanciulle e i ragazzacci di Saba, sono creature terrene nelle quali bene si rappresenta l'evanescenza della realtà, il senso del miracolo, la consapevolezza di qualcosa che abbiamo perduto e di cui sentiremo per sempre la nostalgia (“Né lei, probabilmente, / saprà mai quanto deve / alla sua veste il minimo bagliore / che ne riflette forse questa via / d’inchiostro e carta in metrica: // ispira diffidenza la poesia, / non convince la delicatezza, / poca gente è all’altezza dell’affetto, / quasi niente è il rispetto dell’amore..”).
Così il poeta, riducendo in sintesi il rilievo attuale della propria esistenza, scrive: “Una minima scia / che già si spegne / resta, se resta, lontana in qualche mente / su cui mi sporgo ancora come aneddoto / legato a una passata professura / o come inesplicabile fessura / di nostalgia per un compagno assente. / Ma lentamente la figura che una volta / parlando in me si dava nome 'io' / collimerà in rima piena con oblio”.
Fo, che insegna Letteratura Latina all'Università di Siena e ha recentemente curato e tradotto l'Eneide sempre per i tipi di Einaudi, predilige un linguaggio semplice e un tono leggero, velatamente ironico, senza che questo però significhi rinunciare alla complessità, ma anzi lasciandola emergere con più forza proprio dove l'ordinarietà sembra prevalere. A questo proposito, i versi dedicati a Chopin possono diventare una sorta di dichiarazione di poetica: “Il valzer in do diesis / minore (opera 64, 2) / sembra in contraddizione. / Appassionata, eloquente confessione / molto espressiva, come per raccontare… // … e poi prende la pena, / la volge in leggerezza” o ancora “… come possono valzer cosí tristi / giungere a donare tanta gioia?”


Pubblicato su succedeoggi.it



giovedì 12 giugno 2014

L'anima si incupisce



L'anima si incupisce se gli oggetti
di nessun conto, le lampade i bicchieri,
ci abbandonano, il corpo si protende
senza di loro sul ciglio dell'abisso,
il gesto si frantuma in reticenze.
Solo la mano cerca nella tasca
la moneta, la chiave, il punto fermo
che ci faccia sentire dentro casa
con la speranza che tazzine e brocche
non abbiano lasciato la credenza,
che siano al posto loro le ramine,
i calici in attesa delle bocche.




(da La vita dei bicchieri e delle stelle, Campanotto Editore)




mercoledì 4 giugno 2014

Alessandro D'Avenia, la scuola in diretta

Quando si parla di scuola affermando che la qualità dell'insegnamento non può prescindere da tre elementi indispensabili, “amore per ciò che si insegna, amore per il chi a cui si insegna, amore per il come si insegna”, e che lo studente deve essere riconosciuto come “soggetto di un 'inedito stare al mondo' e non come oggetto da cui ottenere prestazioni”, o si insegue l'interlocutore affrontandolo con argomenti simili, di solito si viene guardati dagli addetti ai lavori con l'accondiscendenza che si riserva a chi dice una cosa plausibile ma del tutto irrealizzabile, a chi propone una soluzione romantica per affrontare un problema, quello appunto dell'insegnamento, che ha bisogno innanzitutto di scelte tecniche. Ma dove vive questo, dicono gli occhi di chi insegna e vive ogni giorno la frustrazione alimentata da scarse soddisfazioni e da un'ancora più scarsa retribuzione, soprattutto se a pronunciare l'affermazione a favore dello scambio relazionale è un altro insegnante.
Deve aver subito occhiate del genere lo scrittore Alessandro D'Avenia, insegnante in un liceo milanese, quando ha pubblicato, un paio di settimane fa, un intervento nell'ambito del dibattito sulla scuola ospitato dall'inserto domenicale La Lettura del Corriere della Sera. Dice D'Avenia che istruzione ed educazione non sono separabili e che “non ci può essere educazione (né insegnamento) in differita, perché la relazione coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo, spirituale)”. Insomma “solo la vita integrale educa” e si insegna con tutto, “sguardo, tono di voce, movenze del corpo, disposizione dei banchi, brillare degli occhi, segni su un compito, cellulare spento... e parole”. Aggiungerei che fondamentali sono anche le caratteristiche del luogo che ci ospita, ma a questo ho dedicato un altro intervento a cui rimando: http://moscheinbottiglia.blogspot.it/2014/04/un-inospitale-paesaggio-scolastico.html. 
Sulla seconda parte dello scritto di Alessandro D'Avenia mi soffermerò in un prossimo post, intanto sottolineo alcune affermazioni che mi sembrano convincenti.
Innanzitutto mi piace che si parli di nuovo di educazione. Si può insegnare (o almeno si può insegnare ottenendo qualche buon risultato) solo se si è disposti ad accettare un assunto: senza mettere in atto un processo educativo non è possibile nemmeno l'insegnamento. Sta di fatto che oggi la parola educazione fa paura. Forse perché rimanda a un sistema di valori, che non riusciamo più a mettere a fuoco, o forse perché richiede un diverso atteggiamento di chi è parte attiva nella pratica quotidiana della relazione scolastica, professori studenti genitori: bisogna mettersi in gioco.
Altra questione: la qualità della proposta scolastica non si misura sul numero di prestazioni che sono richieste allo studente né sulla difficoltà che prova nel corrispondere alle richieste, ma nell'interesse che chi insegna riesce a determinare in colui che dovrebbe imparare, nella passione che scatena, nella curiosità che genera. Uno studente annoiato e impaurito è di solito il risultato non di un insegnamento serio e severo, ma di una scuola che ha rinunciato alla relazione attiva tra le sue componenti principali, diventando invece il luogo della burocrazia e della rigida ripetizione di formule.
Infine, lo studente è il soggetto dell'atto educativo, in quanto è colui che deve imparare a conoscere il mondo. In questo senso non può essere il punto d'approdo delle richieste di chi insegna, il destinatario senza diritto di parola di un ammaestramento a senso unico, ma è invece colui che deve pretendere di sapere. Perciò deve essere messo nella condizione di chiedere. Deve prima di ogni cosa saper formulare domande sui contenuti che gli vengono proposti. Una scuola che genera attenzione e fornisce motivazioni valide è quella che insegna a fare domande.







lunedì 26 maggio 2014

Cordelli e le tribù dei letterati

Franco Cordelli su La Lettura del Corriere della Sera (domenica 25 maggio 2014) scrive che “la letteratura italiana degli ultimi vent'anni non è che una palude, in cui il bello e il brutto sono detti e sostenuti secondo un percorso prestabilito: pubblicazione (ma pubblicano tutti), recensione, premio”. Oltre questo schema “non c'è altro”, se non il riconoscimento da parte di una tribù. Appartenere alla tribù, della quale a volte si fa parte senza nemmeno riconoscersi all'interno del gruppo, è utile per un unico fine, “la sopravvivenza editoriale”.
Il critico Franco Cordelli
Franco Cordelli è così addentro alle cose del mondo letterario, e da così tanto tempo e con tale autorevolezza, per cui è opportuno, oltre che facile, dare credito alle sue parole. Insomma sono affermazioni che non vengono da un poeta deluso, che non riesce a collocare la sua opera presso un editore di prestigio, o da un bravo romanziere a cui viene negato perfino un premio minore, ma da uno scrittore e critico affermato, che frequenta la società letteraria con intelligenza e con occhio scaltro.
Cordelli conclude il suo articolo lasciandosi andare al gioco, del quale avremmo anche fatto a meno, ma che in verità ha una sua ragione d'essere, di fornire una mappa delle varie tribù, attribuendo a ognuna un certo numero di adepti (consapevoli o meno) e un nome che possa classificarla. Gli scrittori così irreggimentati sono settanta e sono scelti per il fatto di essere percepiti come “culturalmente significativi”. Tutti gli altri, i non classificati cioè, non ci sono perché “appaiono culturalmente irrilevanti” o perché “già acquisiti in una sfera di vera o presunta eccellenza”.
Al di là del tentativo, nemmeno tanto celato, di provocare al dibattito (ma chi reagirà nella palude, i citati o gli assenti?), le parole di Cordelli fanno riflettere su alcune questioni. Innanzitutto non si può che constatare come la società letteraria non esista più: chi scrive non si sente più parte di un mondo di persone che si scambiano opinioni, che cercano negli scritti degli altri qualcosa che li appassioni, che partecipano a una ricerca comune.
E' chiaro poi che una parte di coloro che scrivono è di fatto invisibile. E questo non dipende dal fatto che uno scrittore venga considerato o meno autore di opere di qualità, ma dalla sua contiguità con una o l'altra tribù. Se si è percepiti come membri del gruppo la visibilità è garantita.
La rappresentazione delle varie correnti (dal Corriere della Sera)
Sono solo cinque o sei i poeti presenti tra i settanta scrittori all'interno delle tribù indicate da Cordelli. Segno che la poesia rende invisibili, ma anche che la maggior parte dei poeti “ha rinunciato a dire qualcosa in più, oltre ai propri versi”. Resta da capire se la rinuncia nasca dall'impossibilità di far sentire la propria voce o dalla presunzione, comunque presente in molti, che la parola poetica sia permeata di sacralità e dunque preservi da qualsiasi altro intervento comunicativo.
L'impressione è che anche i poeti, nella loro invisibilità, da fantasmi insomma, si materializzino all'interno delle tribù (in particolare in quella definita da Cordelli dei Novisti e abitata da Cortellessa) o che ne abbiano formate di proprie, naturalmente del tutto “irrilevanti”, ma alla cui rilevanza loro credono tantissimo.
Infine se nella letteratura impaludata di questi anni è impossibile distinguere il bello dal brutto, questo è il risultato di una critica attenta quasi esclusivamente ai riscontri editoriali e alla visibilità, più o meno culturale, propria e degli amici della stessa tribù.




 

lunedì 19 maggio 2014

A scuola guardandosi in faccia

Lo scrittore Andrea Bajani svolge spesso attività a contatto con gli studenti delle superiori, frequenta il mondo della scuola, dialoga con alunni e insegnanti. In un recente volume, pubblicato da Repubblica e dall'editore Laterza, dal titolo inequivocabile di La scuola non serve a niente, si legge che, trasferitosi per qualche tempo in Germania, Bajani ha ha potuto constatare che in quel paese la lezione “è sempre dialettica”, cioè “l'insegnante fa lezione insieme ai ragazzi”. Invece che pretendere che gli alunni ascoltino in maniera più o meno passiva, l'insegnante “li interpella, li invita a contraddire e a criticare, a spiegare”. In questo modo, assicura Bajani, “è un continuo alzarsi di mani, un incalzare di precisazioni, esemplificazioni, richieste di chiarimenti”; del resto “quell'intervenire continuo contribuisce concretamente al voto finale”. L'atmosfera che si respira nelle aule tedesche è senza dubbio estremamente diversa da quella che caratterizza i nostri licei. “Nessuna interrogazione, nessun tribunale. Solo una dialettica continua, un parlare guardandosi in faccia, studenti con studenti, studenti con professori”.
Nella scuola italiana una lezione di questo genere è oggi impossibile. Innanzitutto perché nel nostro paese non siamo più capaci di confrontare le idee, nemmeno in un luogo a questo deputato come la scuola: ognuno di noi parte troppo spesso dal presupposto che parlare debba solo servire a convincere l'interlocutore a darci ragione. 
In secondo luogo una lezione “sempre dialettica” farebbe venir meno il presupposto, in questi ultimi anni sempre più diffuso, che i professori non sono al loro posto per trasmettere l'amore per la disciplina che insegnano, quanto per giudicare se chi è davanti a loro ha a disposizione una certa quota di conoscenze, se si è comportato correttamente, se ha capito cosa gli è stato spiegato.
Infine per parlare con i propri alunni, mettiamo di un romanzo, di un avvenimento storico o di un'opera d'arte, gli insegnanti dovrebbero dire invece che spiegare, cioè mettere in campo le proprie idee e le proprie convinzioni, altrimenti ogni contraddittorio risulterebbe impossibile. Ma in nome di una presunta necessaria estraneità dell'istituzione scolastica e dei suoi rappresentanti ad ogni coinvolgimento ideologico (“a scuola non si fa politica” abbiamo sentito spesso ripetere) si finisce per evitare di manifestare le proprie convinzioni. Anche di fronte a un racconto o a una poesia bisogna essere oggettivi, cioè asettici. In questo modo l'interlocutore, cioè lo studente, è portato a ritenere che può intervenire solo per dare risposte che servono ad essere valutato, risposte che vanno tradotte in voto.  



mercoledì 30 aprile 2014

MADRE di Roberto Carifi (Le Lettere)

Alla figura della madre è dedicato per intero il libro di versi di Roberto Carifi di recente pubblicazione per i tipi di Le Lettere. Il poeta toscano torna su uno dei temi maggiormente frequentati anche nella prima fase della sua produzione. Le diverse poesie, sia pure distinte e ognuna capace di rappresentare un singolo e compiuto componimento, finiscono per delineare una sorta di poemetto, che prende di volta in volta il tono di una lunga e sofferta Lettera, di una accorata Supplica, di un monologo attraverso cui ricostruire gli eventi che hanno caratterizzato il rapporto con la persona amata, ormai raffigurabili solo sul terreno della Memoria e della Nostalgia, come suonano i titoli di alcune delle sezioni in cui è diviso il volume.
Madre è un libro di grande forza emotiva, una coraggiosa confessione di sentimenti, che si muove tra il ricordo della figura materna dolce e piangente al tempo dell'infanzia e della giovinezza e la sua compassionevole partecipazione nel presente, con la donna si direbbe ancora più vicina dopo la morte, avvenuta ormai in un'epoca che Carifi avverte come irrimediabilmente lontana. Dopo la morte della madre, c'è infatti l'evento che ha segnato come uno spartiacque la vita del poeta: “Dieci anni fa stavo per morire. Poi fui trasportato / in uno spazio di recupero, sprofondato in una sedia a rotelle / e non parlavo più. La notte sentivo che mi parlavi, avresti / voluto piangere o forse era la madre di un bambino morto, / pregavo per te, pregavo per tutti, a volte ti vedevo soltanto io / passeggiare come un'ombra”.
Il poeta intesse un pietoso e implacabile dialogo con la figura materna, a cui senza indugio mostra i segni della malattia che l'ha colpito e che lo costringe in un corpo deturpato. “Le distanze sono infinite, tra te che sei nel Nirvana / ed io che mi trascino in questo letamaio, ma poi / vita e morte sono identici e noi due diventiamo / uguali. Anch'io sono vicino e ti stringerò / come si stringe il Grande Nulla, il vuoto”. O ancora: “Piccola madre, quando sarai pura mente / e mi guarderai a distanza, ricordati di me, / lo sciancato, e passa come un velo / accanto al mio letto, piccola, grande madre / quando sarai nel Grande Vuoto pensa / a questo martirio ed alla Compassione / che mi porto dentro”.
La prossimità della morte, l'aspirazione della parola al silenzio, la comunicazione con un mondo che non è quello terreno, la ricostruzione a tratti diaristica delle epoche della propria esistenza, tutti temi che si presentano più volte nel corso della raccolta, delineano una sequenza dove i piani temporali si confondono, e presente, futuro e passato si intrecciano e si sovrappongono. La lingua della poesia predilige un verso più ampio rispetto a precedenti raccolte, diventando più narrativa, ma allo stesso tempo rarefatta, facendo percepire nella scelta lessicale e nel ritmo utilizzato che l'approdo cercato è quello dell'assenza dei rumori, della serenità e della segretezza. Scrive Carifi, in una delle liriche più intense e sofferte della raccolta: “Quaggiù gli inverni cominciano presto, / e di nuovo le preghiere incontrano il silenzio. / Avrai sentito parlare di questa rovina, / tutto ti apparirà remoto, un'altra storia, un altro tempo. / Lo capisco, Madre, e ti vorrei raggiungere. / Intanto mi sto abituando al silenzio, / ogni giorno mi esercito all'addio”.
La raccolta Madre, proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall'avvicinamento al buddismo, poi dalla malattia. Il linguaggio si è fatto più diretto, senza perdere incisività, le immagini calate in una realtà che quanto più è fatta di oggetti concreti tanto più rimanda ad altro.

pubblicato su Succedeoggi.it



martedì 22 aprile 2014

Un desolante paesaggio (scolastico)

Su La Lettura di domenica 20 aprile, Paolo Giordano annuncia che una serie di scrittori si occuperanno sulle pagine dell'inserto domenicale del Corriere della Sera di quello che a loro avviso è “un tema scottante che riguarda la scuola dell'obbligo”, sul quale avanzare “delle proposte concrete, o per lo meno delle provocazioni che siano costruttive”. Il primo a intervenire è Eraldo Affinati.
Io che scrittore non sono, non vivo facendo questo di mestiere, ma bene o male qualcosa ho pubblicato, insegno da trent'anni e su questo blog mi sono interessato più volte di questioni scolastiche, cercherò di dire la mia. Anche io a puntate, settimana dopo settimana.
Paolo Giordano dice, a ragione, che “quello che abbiamo di fronte non è un grande paesaggio”. Intende che la scuola italiana è alle prese con molti problemi, che negli ultimi anni sono andati ingigantendosi. E' vero. Io però, traducendo in termini reali la metafora del paesaggio scolastico, voglio innanzitutto parlare proprio del luogo dove studenti e insegnanti passano parte delle loro giornate. Insomma il paesaggio delle aule, delle sale insegnanti, dei corridoi, dei bagni all'interno degli edifici adibiti a scuole.
Negli ultimi tempi si è fatto un gran parlare della fatiscenza e della inadeguatezza di tali strutture. Si tratta in buona parte di costruzioni vecchie, realizzate decine di anni fa, o addirittura nate con altri scopi e adattate alle esigenze della vita scolastica.
Il dibattito sui fabbricati si è soffermato sulla loro pericolosità e non ha tenuto conto della bruttura degli ambienti, quasi sempre inospitali, soprattutto quelli destinati agli studenti più grandi. Nessuno di noi gradirebbe passare una parte delle proprie giornate in stanze dalle pareti sbiadite, che prendono luce da finestroni dagli infissi tetri, con tende che ricordano quelle esposte in uffici malridotti degli anni Sessanta, e forse risalgono a quell'epoca. Le mattonelle, solitamente di foggia diversa appena si passa da un ambiente all'altro, sono le stesse che hanno calpestato, una dopo l'altra, generazioni di studenti.
Ma come di fa a insegnare la bellezza delle opere d'arte e letterarie, l'esattezza della scienza, come si fa a porsi domande filosofiche e raccontare il fascino degli spazi diversi dal nostro in un paesaggio così antiestetico? Chi abita quotidianamente all'interno di queste strutture non avrebbe diritto ad altro, anche a prescindere dalla stabilità dei fabbricati e dall'adeguatezza alle norme antisismiche?
Chiunque dovesse entrare in un bagno come quelli che siamo soliti frequentare io e i miei alunni, se fosse collocato non in una scuola ma all'interno di un ristorante, si recherebbe subito dal proprietario per lamentarsene.
E' vero, le scuole erano così anche cinquanta anni fa. Ma mentre allora anche le nostre case erano più brutte, i bar meno accoglienti, i negozi di abbigliamento, le macellerie, gli studi dei dentisti tutti abbastanza sgraziati, ora non è più così. Sono diventati più gradevoli anche gli ospedali e le fabbriche, mentre gli edifici scolastici continuano ad essere dei luoghi abbastanza disgustosi, nel senso proprio che mancano di gusto.
Eppure vivere in uno spazio elegante e confortevole aiuta a essere migliori, ad apprezzare quello che abbiamo intorno, a trascorrere con più entusiasmo le nostre giornate. Perciò il mio primo suggerimento, che non so bene se è una proposta concreta o una provocazione, è rendere più belle le aule delle nostre scuole, farne del luoghi accoglienti.



sabato 19 aprile 2014

IL SANGUE AMARO di Valerio Magrelli (Einaudi)

E' del poeta il fin la meraviglia. Anzi l'obiettivo non è tanto quello di destare stupore nel lettore, quanto di riuscire ancora a meravigliarsi, guardare il mondo con gli occhi di chi indaga e scopre una realtà imprevista, utilizzare i sensi non certo per mettersi alla ricerca del rassicurante e del noto, ma per svelare arcani legami, relazioni nascoste che generano disorientamento e sorpresa. La poesia di Valerio Magrelli si muove da sempre con questa tensione, con l'intento della scoperta che sappia aprire scenari stupefacenti, capace di trovare il meraviglioso nel quotidiano, la rivelazione, a volte suggerita solo da parole che si richiamano nella sonorità, tanto più sorprendente e impressionante perché avviene proprio in quel luogo dove non ci saremmo aspettati altro che visioni ordinarie. Questo modo di procedere, che appare evidente anche nei libri in prosa, sempre più frequenti nella produzione dello scrittore romano, è significativamente accentuato nella nuova raccolta di liriche, Sangue amaro (Einaudi), dove lo sguardo del poeta appare più aperto ad assumere punti di vista diversi dal proprio, che provengono dai personaggi che animano le liriche, e dove la voce è disponibile a confrontarsi con i diversi interlocutori, cui spesso sono indirizzate le parole di chi scrive.
Se il mondo non riesce a stupirsi più di nulla, poiché tutto sembra già accaduto, di ogni avvenimento abbiamo informazioni a sufficienza, tanto che ci sembra di poter dare una spiegazione ad ogni cosa, le indagini di Magrelli suonano dunque come una sfida, che il poeta affronta senza la supponenza di chi ha in tasca una verità da sciorinare, nemmeno con l'energia e il vitalismo di chi è sicuro delle proprie opinioni, ma con il passo lento dell'uomo ancora disposto a fermarsi di fronte alle cose, che sa che per guardare veramente bisogna liberarsi dall'idea che la realtà sia così come sembra e che possa essere svelata da un'occhiata fuggevole. In questo suo nuovo libro, Magrelli avanza verso le sue scoperte con la razionalità vigile e disincantata che da sempre caratterizza i suoi versi, ma anche con il sorriso spesso sconsolato che spinge a ironizzare sulle proprie debolezze e sulle sicurezze altrui. Il risultato è un accorato senso di appartenenza al dolore che lega tutte le esistenze o l'impietosa e rabbiosa condanna che va a colpire coloro che avanzano per la propria strada senza curarsi del malessere comune. Una poesia insomma di afflato civile, anche quando l'attenzione si posa sugli avvenimenti o sui piccoli oggetti della quotidianità.
Emblematica è la poesia Rumore, fa' silenzio!, che apre la sezione intitolata Otobiografia. Attento come sempre ai segnali del corpo, Magrelli comincia col notare che mentre “C'è gente che trova figure / nascoste nella carta da parati / o nelle nuvole”, a lui succede con i rumori. Anzi più nello specifico col vecchio phon che utilizza per asciugarsi i capelli. Sarà l'elica difettosa o i cuscinetti a sfera “ma so che inizia a intonare una trenodia, / o meglio, a sussurrarla sottovoce. // Prima si avvertono solo suoni indistinti, / una folla che fugge, moto che si avvicinano, / ma facendo attenzione / appaiono via via urla, richiami”. E più avanti : “Sento dialetti slavi, minacce, spesso spari: / un giorno sono rimasto ad ascoltarlo quasi dieci minuti / per seguire le fasi di un rastrellamento / in un lontano villaggio dei Balcani”. Il poeta si dice che forse tutto questo è solo “un miraggio uditivo, un'impressione”. Ma non è così, “La verità è diversa: / mentre mi punto alla tempia quell'attrezzo / che sembra una pistola, / viene fuori il racconto di storie terribili, / fucilazioni, il pianto di bambini. / E' come una confessione non richiesta, / una registrazione spedita per errore. / Che c'entro, io, con tutto questo sangue, / io che mi voglio solo asciugare la testa?”.
La poesia di Magrelli costruisce, verso dopo verso, un'impalcatura ordinata e beffarda intorno al lettore, fatta di giochi di parole e di scivolamenti verso la prosa, di volute barocche e di lapidarie sentenze, che costringe a sentirsi meno sicuri, a chiedersi dove finisca la poesia e cominci la gabbia che ci imprigiona. Se il mondo ragiona per luoghi comuni, il poeta tende a scomporli, se è superficiale e disattento di fronte ai valori della convivenza, reagisce con sarcasmo e amarezza. “Meteorologica è l'unica, vera / coscienza che noi abbiamo dello Stato, / immagine sgargiante / di isobare come panneggi / che corrono su una nazione / circondata dal nulla” afferma con contrarietà Magrelli. Di fronte all'annebbiamento collettivo che sembra aver colpito le nostre coscienze, infine non c'è altro che provare strazio e tormento. Nella poesia che dà il titolo al volume, Magrelli scrive: “C'è chi fa il pane. / Io faccio Sangue Amaro. / Che chi fa profilati d'alluminio. / Io faccio Sangue Amaro. / C'è chi fa progetti per lo sviluppo aziendale. / Io faccio Sangue Amaro. / Io mi faccio il Sangue Amaro. / E' una specialità della casa, fin dal lontano 1957”. Che è poi l'anno di nascita del poeta.


(Pubblicato su succedeoggi.it)



giovedì 27 marzo 2014

Leopardi e "il bel crin" di Fiorenza

Parlando del Chiabrera, poeta e drammaturgo attivo nei primi decenni del Seicento, in una pagina dello Zibaldone Giacomo Leopardi si sofferma su una questione che vale la pena richiamare alla nostra attenzione. In una delle sue note linguistiche e critiche, tanto acute e sottili quanto ancora oggi marginalmente considerate, il poeta di Recanati afferma che a volte la collocazione fortuita delle parole può produrre nei lettori un'altra idea rispetto a quella voluta dall'autore, e che pure chiaramente si evince dal testo. E' un effetto che, a detta di Leopardi, va assolutamente schivato, “massime in poesia dove il lettore è più sull'immaginare e più facile a creder di vedere”, e anzi è propenso a credere “che il poeta voglia fargli vedere quello ancora che il poeta non pensa o anche non vorrebbe”.
A riprova, utilizza appunto una delle Canzoni lugubri di Gabriello Chiabrera, In morte di Orazio Zanchini, la cui terza strofe si chiude con Fiorenza, che è poi la personificazione di Firenze, che “Ora il bel crin si frange, / E sul tuo sasso piange”. Non senza ironia Leopardi fa notare che, pur essendo chiaro il senso dei versi, e cioè che Fiorenza si percuote (si frange) il capo con le mani e piange sul sepolcro dello Zanchini (sul tuo sasso), coloro che leggono la canzone del Chiabrera, “colla mente così sull'aspettare immagini”, sono indotti invece a figurarsi Fiorenza “che percuota la testa e si franga il crine sul sasso del Zanchini”.
La nota prosegue specificando che l'immagine illusoria generata dalla collocazione delle parole può anche essere accettata dall'autore, se non nuoce a quella vera, e comunque se essa può collocarsi di seguito alla prima senza sovrapporsi ad essa, “giacché due immagini in una volta non si possono vedere”. Anzi proprio in questo modo si può procurare “quel vago e quell'incerto ch'è tanto propriamente e sommamente poetico”, poiché si generano quelle immagini che sono ispirate “da cosa invisibile e incomprensibile e da quell'ineffabile ondeggiamento del poeta che quando è veramente ispirato dalla natura dalla campagna e da chechessia, non sa veramente com'esprimere quello che sente, se non in modo vago e incerto, ed è perciò naturalissimo che le immagini che destano le sue parole appariscano accidentali”.
Dalla lezione di Leopardi si possono ricavare alcune considerazioni. Innanzitutto è interessante notare come il lettore di poesia, o meglio qualunque lettore di fronte a una poesia, si senta in dovere di cercare un significato ulteriore rispetto a quello che si deduce immediatamente dai versi. Ciò accade perché il lettore pensa che il poeta voglia fargli vedere qualcosa di diverso da quello che le parole descrivono. Chi legge si pone davanti ai versi con un atteggiamento meno remissivo di quello utilizzato di fronte a un testo narrativo, ma anche con la disposizione di chi non si fida. Il linguaggio della poesia è complesso: nasconde scoperte impreviste, ma a volte anche delle trappole. Si realizza in poesia una sorta di gioco delle parti, basato su reciproche presupposizioni: il lettore ritiene che il poeta possa aver detto altro da quello che è scritto sulla pagina; il poeta che sia suo compito esprimersi in maniera misteriosa se non proprio oscura, pensando che è questo che il lettore cerca nei suoi versi .
Anche per questo in poesia la collocazione delle parole finisce per risultare sempre significativa: le parole crin, frange e sasso mi inducono a vedere un'immagine in cui la testa si fracassa contro il marmo della tomba, anche se la poesia del Chiabrera non dice nulla di tutto questo. Il poeta deve dunque sempre pensare al margine di evocazione che le sue parole comportano, anche quando il linguaggio della poesia vorrebbe essere realistico o assolutamente razionale.
E' il caso inoltre di sottolineare che lo scritto di Leopardi individua in colui che scrive versi una qualità particolare e fondamentale: quella del creatore di immagini. Il lavoro del poeta non può prescindere dall'attenzione alle immagini che la lingua produce, dal loro concatenarsi, dal modo in cui esse si richiamano l'una all'altra. E' una qualità, così presente nella letteratura classica, di cui i nostri poeti non tengono gran conto. D'altra parte se la nostra è la società dell'immagine, il poeta dovrebbe muoversi in essa in pieno agio, invece che sentirsene escluso: evidentemente non sa o non vuole credere che le sue parole producano immagini. Nel caso della poesia le immagini hanno una forza prepotente e rovinosa, in quanto rendono visibile l'invisibile e l'incomprensibile.
Non sfugga infine l'affermazione “è perciò naturalissimo che le immagini che destano le sue parole appariscano accidentali”. In poesia, sia detto ancora una volta a vantaggio dei tanti che ancora si ostinano a credere il contrario (e soprattutto a quelli che, ostinandosi, scrivono versi), non esiste spontaneità, anche l'evento accidentale è frutto di un'attività di controllo e competenza, se non del poeta sulla lingua, almeno della lingua su se stessa.



lunedì 24 febbraio 2014

POESIE 1986 - 2014 di Umberto Fiori (Oscar Mondadori)

Umberto Fiori è una delle presenze più riconoscibili e significative del panorama letterario italiano degli ultimi decenni. Alla sua opera in versi, a partire dalle poesie della raccolta Case del 1986 fino ad arrivare ai versi di Voi del 2009, la casa editrice Mondadori dedica un Oscar, rendendo così possibile uno sguardo complessivo sulla produzione di un poeta che ha cercato e risolto in maniera senz'altro originale il confronto con la tradizione lirica novecentesca. Il volume è completato dalle prime quattordici sezioni del poemetto inedito Il Conoscente.
A rileggere ora le raccolte di Fiori, tra le quali vanno ricordate anche le prove di Esempi del 1992, Tutti del 1998, La bella vista pubblicato nel 2002, se ne ricava un percorso poetico di grande coerenza e forza, sempre modulato attraverso una voce che si esprime, fin dagli esordi, con sicurezza e risoluta e semplice accordatura, alle prese con una lingua che predilige il lessico quotidiano e il registro basso, e che evita di scivolare in meccanismi ostili per il lettore, così come nell'ostentata articolazione di un linguaggio astrattamente poetico. La poesia di Fiori si iscrive a pieno titolo in una linea che prende le mosse da Saba, come suggerisce Andrea Anfribo nell'introduzione al volume (dal poeta triestino comunque non eredita la tendenza all'autobiografismo né la passione per una lingua retrodatata), e che, attraverso la lezione dell'ultima produzione montaliana, percorre le strade della scuola lombarda, Sereni innanzitutto nei suoi esiti più “narrativi”, e si sofferma sulle soluzioni espressive care a Caproni del verso breve e brevissimo, e dell'uso imprevisto e risolutivo di rime a assonanze.
L'universo di Fiori è innanzitutto cittadino: la realtà che ci presenta è fatta di case, di muri, di macchine in sosta, di cartelloni pubblicitari, di gas di scarico, di balconi e finestre che sono il teatro sul quale si intravede un'umanità anonima, attraente proprio per questa sua impersonale piattezza. E' un paesaggio che si presenta per rapide immagini, lacerti dai quali sembrerebbe possibile ricavare un senso; un territorio che un fascio di luce inatteso, un evento repentino consegna all'ipotesi di una brusca e incerta epifania. Ma il prodigio si risolve in un piccolo evento marginale, in un avvenimento senza grande esito e che certamente non reca alcun conforto che non sia quello di una speranza presto delusa. Il male di vivere si manifesta allora con i connotati dei poveri fenomeni quotidiani, assume la fisionomia di presenze ricorrenti e almeno all'apparenza insignificanti. Scrive Fiori nella poesia Slargo, contenuta nella raccolta La bella vista: “Chi potrà più trovarci, / chiedere conto, / domandare perché, / dove, cosa? Noi siamo / tre piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. // Siamo il busto di bronzo, / la targa del furgone, l'altra bottiglia / che porta il cameriere. // Chi ci potrà più dare / torto o ragione?”.
L'evento prodigioso lascia tutto com'era: il panorama è ancora frammentato, scheggiato. Aspettavamo la consolazione di una risposta, che invece stenta a rivelarsi.
L'io lirico che fa da protagonista alle poesie di Fiori è comunque sempre in attesa che un miracolo possa compiersi. Vigile e solerte spia i movimenti degli altri, dei montaliani “uomini che non si voltano”, della massa che si compone di individui “ognuno / occupato dall'attimo che passa”, per usare invece le parole di Sbarbaro. E' proprio nel loro anonimato, nell'oscurità ripetitiva di vite a cui non siamo destinati, nella loro incapacità di scoprire una realtà che non sia quella che si vede, che risiede la forza che attrae e che ci lascia intravedere un possibile segreto.
Così nella poesia Treno (in Esempi) il viaggiatore può scorgere, mentre il convoglio che percorre una curva si inclina verso un palazzo, persone che “apparecchiano al terzo. A pianterreno / vanno a prendere un piatto e li vedi fermi”. Nell'odore di mare, mentre “passano armadi, tovaglie, televisori”, si presenta improvvisa una scoperta: “Mentre le stanze passano / e se ne vanno, viene / come una spinta dentro, / come un'invidia. / Ci si sente mancare, / in questa scene. Si è come tenuti fuori. // Ma in fondo poi / vedere come tutto / procede bene / anche senza di noi, / fa quasi ridere. // E si diventa liberi, leggeri: / non si è più lì, si ragiona / come già morti, come / mai nati. (…) // Eppure questo, / questo che tutti vedono / là, nei soggiorni / e nelle camere, non smette di mancare: / essere così chiari / senza saperlo, / stare soprappensiero / un attimo, nel pieno dell'attenzione”.
Umberto Fiori, come sanno i suoi lettori abituali, è stato il cantante degli Stormy Six, storico gruppo del rock italiano degli anni Settanta. Anzi lo è tuttora, visto che negli ultimi tempi la band si è ricomposta, dando vita a rare e acclamate esibizioni. Nei giorni scorsi il gruppo ha tenuto uno spettacolo in compagnia di Moni Ovadia al teatro Elfo Puccini di Milano. In scena l'opera Benvenuti nel ghetto, che aveva debuttato qualche mese fa a Reggio Emilia, dedicata agli avvenimenti nel ghetto di Varsavia dell'aprile del 1943 e dalla quale è stato ricavato un cd audio e un dvd.

(pubblicato sul sito succedeoggi.it)

lunedì 10 febbraio 2014

LO STADIO DI NEMEA. Discorsi sulla poesia di Giancarlo Pontiggia (Moretti&Vitali)

Il dibattito sulla letteratura nel nostro paese è asfittico, anzi quasi del tutto assente. Si parla di libri quasi unicamente sulla scorta di qualche polemica legata a un premio letterario oppure dentro i confini rassicuranti di una recensione. Poca saggistica, spesso a carattere divulgativo, pochissima poesia, spesso per attenzione nei confronti di un amico, soprattutto nessun discorso di carattere più ampio che possa soffermarsi sulle modalità generali dell'espressione letteraria, sulle scelte che distinguono la scrittura dei nostri tempi. A farne le spese è soprattutto la critica più attenta, ormai segregata, al pari della poesia, in luoghi periferici, dai quali, anche a voler alzare la voce, è impossibile farsi sentire. Insomma i libri di critica letteraria sono rari e i pochi che arrivano nelle librerie non sono destinati a sollevare discussioni, e non certo per propri demeriti.
Peccato. Di un dibattito più ampio, non tanto sulle poetiche, che forse nemmeno più ci sono, quanto sui valori stessi che sono alla base del fare letteratura, si gioverebbero narratori e poeti, e più in generale la platea culturale che, almeno qui da noi, è anch'essa ormai sedotta dal chiacchiericcio fine a se stesso, dal rumore di fondo petulante e improduttivo che anima le nostre giornate.
Pensavo a tutto questo leggendo Lo stadio di Nemea. Discorsi sulla poesia di Giancarlo Pontiggia, pubblicato da Moretti&Vitali, che raccoglie interventi sulla poesia destinati a pubblici diversi e pensati per svariate occasioni, scritti dal 2004 al 2012. Pontiggia, che è anche un poeta di misurata e vigile produzione, esordisce sul finire degli anni Settanta prima come redattore della rivista Niebo e poi curando, con Enzo Di Mauro, la fortunata antologia feltrinelliana de La parola innamorata.
I vari interventi raccolti in Lo stadio di Nemea pur nella loro eterogeneità, convergono su alcune linee portanti, che ne fanno un libro unitario e di sicuro spessore critico. Per Pontiggia la poesia svolge ancora oggi un ufficio importante, che è quello di dare una risposta all'esigenza di comunicazione che il mondo reale ci consente solo in modo effimero. La poesia insomma ci salva “dal caos, dall'approssimazione e dalla prepotenza del discorso improvvisato”. I versi ci consegnano, per definizione, a luoghi più stabili, a una ricerca della verità. Ma per fare questo, la poesia, oltre che guardare con rinnovato interesse alla tradizione, deve uscire “dall'imbuto esistenzialistico in cui si è insaccata”, “distanziarsi dall'universo privato, quotidiano, empirico, viscerale del singolo individuo”. Che è come dire a buona parte della lirica italiana degli ultimi anni di liberarsi della veste più spesso indossata, di evitare che lo sguardo indugi troppo sulla propria figura e che la lingua diventi un codice riservato e perciò escludente. La poesia non può dunque manifestarsi esclusivamente come linguaggio dell'emozione, ma deve essere un esercizio della complessità. “Se non c'è pensiero, non c'è poesia” sostiene Pontiggia, “proprio come, all'inverso, non c'è poesia senza retorica, suono, profondità di stile e di linguaggio”. Ma attenzione, la complessità non deve per forza generare difficoltà: “la materia della poesia è semplice: complessa semmai è la sintesi di immaginazione, pensiero e linguaggio cui dà vita”.
Nei brevi saggi che compongono il libro c'è materiale a sufficienza per alimentare una discussione seria sul fare letteratura. Ma a chi interessa? Certo non alle centinaia di scrittori di versi poco disposti a mettere in discussione il proprio lavoro. Quello che quotidianamente viene proposto alla lettura è difatti in buona parte “un'arte antiumanistica, una bottiglia lanciata nel gran mare dell'essere per un lettore fantascientifico che non c'è e probabilmente non ci sarà mai”.
Il risultato è che al pubblico restano solo i prodotti di più facile fruizione e di scarsa qualità, che però sono in grado di parlare di problemi che ci riguardano più da vicino e che in ogni caso riusciamo a comprendere. Dunque la peggiore calamità dei tempi in cui viviamo, almeno nel campo della letteratura, “è che gran parte dei poeti scrivono versi che non sono da leggere, nei quali anzi vengono deliberatamente innestati meccanismi ostili non solo al lettore comune ma all'idea stessa del leggere”.

(pubblicato su succedeoggi.it)



giovedì 30 gennaio 2014

QUANDO AVRO' TEMPO di Anna Maria Carpi (Transeuropa)

Il nuovo libro di poesia di Anna Maria Carpi, Quando avrò tempo, pubblicato come il precedente L'asso nella neve da Transeuropa, contiene, camuffata da cronaca di una serata di poesia, una dichiarazione di poetica in negativo. L'aria è spettrale, le vie deserte, è tardi, già le dieci passate. Anche in sala la gente è poca, le luci rade. La Carpi è spettatrice della lettura e non sa capire “ciò che vogliono dire questi giovani / o solo mezzi giovani nati ormai nei 70”. La conclusione è amara: “E' come in una chiesa sconsacrata, / è un rosario / di non credenti, recitano cose proprie e arcane. / Chiedere cosa intendono? / A occhi bassi ascolti / e ti guardi le mani.”
La poesia di Anna Maria Carpi si muove su strade opposte. Evita che la parola precipiti in un arcano insondabile per il lettore, rifiuta di muoversi in zone private e dunque inaccessibili, cerca sempre il conforto di una situazione esterna con cui dialogare, è disposta a credere e a farci credere che le proprie personali inquietudini abbiano valore solo se si consegnano a un tempo che non è quello unicamente di chi scrive. C'è una costante nella poesia della Carpi, ed è proprio la grazia con cui dialogano l'interno con l'esterno, l'interiorità del poeta con gli eventi, grandi o piccoli che siano, del mondo reale. Con un passo delicato e partecipe gli oggetti e le circostanze della vita quotidiana s'immergono nell'intimo delle nostre giornate, animano il corpo, si siedono nei pensieri.
In Quando avrò tempo la presenza degli altri, spesso animali, ancor più spesso uomini e donne estranei all'io che scrive, visti semmai una volta soltanto, serve a ricordare lo scorrere inesorabile delle ore, e che la nostra vita si muove tutta all'interno della consapevolezza della caducità di ogni cosa, pur nella ricerca di un assoluto che non è però raggiungibile, di un tempo “senza tempo” che possiamo solo desiderare, di uno spazio vitale remoto e incontaminato. Gli storni che volano all'impazzata quasi fossero stati lanciati da una mano gigante, “sbandano, ritornano, / nel loro giubilo d'essere nessuno”. La loro incoscienza ci pone di fronte alla nostra condanna: “Tutti via, poi il gioco ricomincia, / il gioco in alto, al freddo, senza tempo. // Non c'è gioco per noi, noi giù nel tempo / per le vie del quartiere”.
Verso gli altri l'io poetico indirizza il proprio sguardo amico, un anelito di speranza. “I cari altri” sono tutti quelli che sono “a due passi da me e non mi vedono, / non sanno che ci sono, / che sogno e in sogno parlo con loro, / e che non c'è la morte / se non ci viene tolto di parlarci”. Ma è anche vero che la spinta verso l'esterno deve fare i conti con una realtà desolante e per nulla consolatoria. Il mondo è fatto spesso di silenzi e dell'impossibilità di comunicare: “ora è tutto un tacere, / domandi e non ti ascoltano e tu stesso / se ascolti l'altro è alla svelta e per calcolo.”
Anche di fronte alle affermazioni più crudeli, agli atti inconsulti e perciò devastanti, la parola di Anna Maria Carpi sembra possedere una lente filtrante che rende immacolate le nostre miserie, anche se non per questo esse appaiono meno assurde e terribili. Il mondo che ci viene presentato è fatto di relazioni laceranti e comunque prive di senso, di aeroporti dove voli in ritardo mettono a nudo la mediocrità di uomini con il mondo sul tablet, che ad ogni istante guardano l'orologio e che non riescono più a godersi un attimo di ozio; o ancora di navi da crociera immense, “quei lenti mostri che oscurano il sole” e sulle quali è possibile vivere una “immortalità di pochi giorni”.
La Carpi non si adatta al male del mondo, sa che non c'è via di uscita eppure continua a crederci, o finge di farlo. Ci saranno occasioni in cui tutto potrà accadere, “quando avrò tempo dico / e so che non l'avrò”. Anche della mancanza della possibilità di dare un senso all'esistenza possiamo sbarazzarci con un gesto gioioso, con l'inconsapevolezza propria degli animali, volgendoci dall'altra parte: “Tenetevi per voi la vostra fine, io non ci credo. / Verrà una sera di temporale / di lampi e tuoni sopra la casa, / sulla mia via che finisce sul parco, / la mia stanza, il silenzio, la mia intatta / capacità di gioia. // Che è la fine se non un girarsi / dall'altra parte, dove il guanciale è fresco?”.

pubblicato su succedeoggi.it

lunedì 20 gennaio 2014

COME FRATELLI di Andrea Carraro (Barbera Editore)

Andrea Carraro
I protagonisti di Come fratelli sono Andrea e Dario, i due amici che il narratore segue, con occhio impietoso e sempre partecipe, dalla fine dell'adolescenza fino alla morte di Dario, fino a quando cioè lo scrittore Andrea comincia a raccontare la vita dell'amico in un romanzo biografico, che poi sembra essere proprio quello del quale noi lettori in quel momento stiamo per terminare la lettura. I due amici sono persone diverse per carattere ma egualmente inquiete, perennemente in bilico lungo i margini di un'esistenza che vorrebbero cogliere in tutta la sua pienezza, ma che crudelmente e inevitabilmente sfugge loro. Andrea è capace di trovare un proprio equilibrio, anche se questo comporta la rinuncia ai sogni e alle passioni, ma la smania inespressa continua a intravedersi sottopelle; Dario insegue aspirazioni sgangherate e illusorie, ideali tanto attraenti quanto posticci, fino a diventare un predicatore televisivo di una religione da lui stesso inventata, che guarda a Xiva come al luogo della beatitudine e della realizzazione di ogni utopia. Ed è forse proprio quello dell'utopia, dell'impossibilità anzi di realizzazione di ogni progetto di trasformazione del reale, per una generazione che ne aveva fatto il simulacro intorno al quale costruire le proprie azioni, il terreno sul quale si muovono le storie e le frustrazioni dei due amici.
Andrea continua a seguire quasi con accanimento le vicende esistenziali dell'amico, anche quando la loro fratellanza si frantuma sotto i colpi di una età adulta che porta entrambi a non riconoscere l'altro, se non nel deragliamento fallimentare delle aspettative e nello sfilacciamento della confidenza che li aveva resi vicini.
Attraverso lo sguardo ormai disincantato di Andrea e le azioni spesso caotiche che vedono protagonista Dario, Andrea Carraro ci porta all'interno delle vicende italiane degli ultimi anni, senza raccontarcele direttamente, se non in trasparenza, e senza emettere giudizi, ma facendone chiaramente percepire gli effetti. Gli ultimi decenni del Novecento e il primo scorcio del nuovo millennio conducono la società italiana a prodursi in una sorta di cattiveria maldestra e viscida, in una progressiva ricerca di soluzioni facili e di ideali comodi e sconclusionati, così come assurdo e senza costrutto è il percorso religioso che conduce Dario ad una notorietà che lo mette a capo di una schiera di seguaci inconcludenti e confusi, non si sa bene se tanto furbi da credere al loro disordinato messaggio solo per ricavarne un vantaggio, o tanto ingenui da cercare dio dove c'è solo falsità e sciocchezza. Nelle pagine di Come fratelli si intravede un paese cialtrone e ciarliero, schiavo di un delirio mediatico che colpisce indistintamente tutti e non permette più di vedere l'assurda realtà nella quale siamo precipitati.
Ed è proprio la realtà con le sue incongruenze e i suoi legami sconnessi, con le sue fragilità, con la consumata e ormai abituale volgarità, a diventare il centro della narrazione di Andrea Carraro, che non mette ripari per il lettore, non lo difende, ma anzi lo lascia nel pieno del marasma di un paesaggio umano snaturato e senza più equilibrio. Anche per questo la lingua della narrazione non nasconde i mali comunicativi dell'epoca, ma li riproduce, lasciando campo ad un parlato ordinario e ostentatamente inelegante. Carraro racconta una società metropolitana, quella romana in particolare, con un proletariato che non sa più di esistere e una borghesia che non si concede alcuna possibilità di riscatto e vive con rassegnata indolenza la propria incapacità di offrire un senso all'esistenza, che non sia quello della fuga o della disperazione.

(pubblicato su Giudizio Universale)