martedì 31 dicembre 2013

Buon Anno da Carlos Drummond de Andrade

Per salutare il 2013 e augurare ai venticinque lettori di questo blog un anno felice ho scelto una poesia di Carlos Drummond de Andrade, dal titolo inequivocabile di Passagem do ano, appunto Capodanno.
Carlos Drummond de Andrade
Drummond de Andrade è un poeta brasiliano tra i più importanti del secolo scorso. Era nato il 31 ottobre del 1902 a Itabira, una piccola città dello stato di Minas Gerais. Ha vissuto a Belo Horizonte e, dal 1934 fino alla morte, a Rio de Janeiro. E' morto nel 1987.
E' questa una poesia di tono pacato e di velata e struggente ironia, di composta malinconia: caratteristiche che contraddistinguono quasi sempre l'opera di Drummond de Andrade. Il poeta è affacciato sulla vita, che guarda con sguardo appassionato e disilluso. Tutte le risorse sono necessarie, tutti i trucchi, e tra questi soprattutto la poesia, sono utili a guardare avanti, a masticare la vita, ma nessuno veramente serve.
La traduzione è di Antonio Tabucchi, che proprio nell'anno della morte di Drummond de Andrade, curò una breve antologia per Einaudi.

Capodanno
L’ultimo giorno dell’anno
non è l’ultimo giorno del tempo.
Altri giorni verranno
ed altre cosce e ventri ti comunicheranno il calore della vita.
Bacerai bocche, strapperai delle carte,
farai viaggi e celebrerai talmente tanti
compleanni, lauree, promozioni, dolci morti con cori e sinfonie,
che il tempo ne sarà pieno e non sentirai lo strepito,
gli ululati irreparabili
del lupo, nella solitudine.

L’ultimo giorno del tempo
non è l’ultimo giorno di tutto.
Rimane sempre una frangia di vita
dove possono sedersi due uomini.
Un uomo e il suo contrario,
una donna e il suo piede,
un corpo e il suo ricordo,
un occhio e la sua luce,
una voce e la sua eco,
e chissà perfino se Dio…

Accetta con semplicità questa casuale offerta.
Meriti di vivere ancora un anno.
Vorresti vivere sempre centellinando la feccia dei secoli.
Tuo padre è morto, tuo nonno è morto.
Anche in te molte cose sono morte, altre tengono d'occhio la morte,
ma sei vivo. Ancora una volta, vivo,
e col bicchiere in mano
aspetti di albeggiare.

Il trucco di una sbornia,
Il trucco di balli e schiamazzi,
il trucco dei palloncini,
il trucco di Kant e della poesia.
Tanti trucchi: e nessuno serve.

Sorge il mattino di un anno nuovo.

Le cose sono lustre, a posto.
Il corpo liso si rinnova di spuma.
Tutti i sensi svegli funzionano.
La bocca sta masticando vita.
La bocca è intasata di vita.
La vita cola dalla bocca,
impiastriccia le mani, il marciapiede.
La vita è pingue, oleosa, mortale, surrettizia.



giovedì 26 dicembre 2013

Compiti per le vacanze

La notizia che il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza abbia invitato gli studenti a farsi dare meno compiti per le vacanze natalizie ha avuto poco seguito nelle discussioni sugli organi di informazione, ma anche, c'è da giurarlo, nella condotta degli insegnanti. In effetti, il ministro ha esternato l'invito davanti a una platea di ragazzi il 21 dicembre, giorno di chiusura delle scuole, quando i giochi appunto sono fatti e gli alunni hanno già in mente il programma che li porterà, esercizio dopo esercizio, versione dopo versione, al giorno dell'Epifania. La considerazione, peraltro così poco natalizia da dare luogo ai soli commenti di rito (qualche scrittore insomma che ricorda come era difficile ai suoi tempi trascorrere i giorni di festa con il peso di quei compiti che sarebbero stati svolti solo nelle ultime ore), in effetti propone un'idea di scuola abbastanza lontana da quella attuale, dove ai ragazzi non si propone un contenitore di argomenti preconfezionato, ma che invece con il concorso di tutti diventa il luogo (la palestra, avremmo detto un tempo) dove si produce e si sviluppa cultura.
J. P. Leaud nel film "I 400 colpi" di F. Truffaut
Meglio leggere un libro, ha detto il ministro, visitare una mostra o un museo, meglio avere il tempo per riflettere sul contesto storico che ha prodotto le tante opere d'arte di cui sono ricche le nostre città. Questo significa se non altro che i nostri studenti sono reputati in grado di interessarsi a qualcosa che non sia il loro cellulare: affermazione che ha sicuramente un contenuto di verità, ma che forse è risultata poco gradita agli organi d'informazione, abituati a considerare gli adolescenti, secondo il modello Mastracola (Paola, autrice di varie narrazioni sul mondo della scuola), come un'orda barbarica refrattaria a qualsiasi idea di cultura. Insomma gli studenti liceali fanno notizia solo quando sono autori di nefandezze o oggetto completamente apatico delle analisi di psicoterapeuti e opinionisti di talkshow.
Chi ha in mente l'orda barbarica dirà che il ministro avrebbe fatto meglio a stare zitta: i giovani non leggono, tanto vale che passino le vacanze a fare compiti. La verità è che non leggono nemmeno gli adulti (anzi, leggono ancor meno gli adulti), e che l'amore per la lettura e per la cultura lo trasmettono la società in cui si vive e la scuola che si frequenta. E comunque tanti compiti per le vacanze servono veramente a poco, quando non risultano addirittura dannosi. Se per la scuola un libro è solo uno strumento su cui esercitarsi, un veicolo per la produzione di questionari, difficilmente potrà attrarre l'attenzione di un qualche adolescente. L'impressione è che i nostri licei dispensino l'idea che il sapere sia frutto di abilità tecniche e non anche di passione, di capacità di ragionamento, di curiosità intellettuale, di amore per l'atto gratuito.
Il ministro Carrozza ha detto anche che meno compiti può significare più tempo per ascoltare musica classica e contemporanea. Certo la cultura è tutto questo, signora ministro, e la ringraziamo per averci spinto a queste riflessioni, ma allora perché nelle nostre scuole la musica è in pratica quasi del tutto assente? perché di arte si parla poco (spesso male) e quasi sempre in termini esclusivamente storici? perché la letteratura contemporanea, e la poesia in particolare, non vengono nemmeno prese in considerazione?

lunedì 18 novembre 2013

POESIE DELLA FINE DEL MONDO. DEL PRIMA E DEL DOPO di Antonio Delfini (Einaudi)

Delfini in una foto del 1939
A rileggere le poesie di Antonio Delfini, a distanza di più di cinquanta anni dalla pubblicazione di quel suo unico libro di versi, Poesie della fine del mondo, ora ripubblicato da Einaudi con l'aggiunta delle liriche mai edite in volume, antecedenti e posteriori al libro, a rileggerle ora, che sono lontani i tanti ismi e le correnti e le polemiche che hanno caratterizzato e segnato la cultura di buona parte del Novecento, si scopre in esse una forza ancora maggiore, una purezza e un candore inaspettati e in qualche modo fuori della storia. Pur nella loro irruenza violenta e a tratti sconnessa, che punta dritto verso le vicende dell'Italia, anzi dell'Italietta, di quegli anni, malgrado la furia che spesso non si contiene, le poesie producono nel lettore un cortocircuito di passione e turbamento. Le liriche insomma, trascorso il tempo che è trascorso, con le doverose cancellazioni e con le trasformazioni della sensibilità e del senso estetico che gli anni hanno prodotto, si presentano per quello che sono: un'esperienza sicuramente unica nel panorama letterario del secolo scorso, un viaggio melanconico e ostinato, una fuga non si sa da cosa e verso dove, un arringare scombinato e bizzarro. “E' mio dovere scrivere la mala poesia” è un verso di Delfini che bene racchiude il suo avanzare frenetico e scompaginato, che sa comunque concedersi pause di leggerezza e di straziata e disillusa vaghezza.
Le Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo (che è il titolo della raccolta curata con amorevole attenzione da Irene Babboni) compongono un canzoniere acido e stravagante, capace di attraversare o di rileggere, con affettuosa noncuranza, le avanguardie dei primi decenni del Novecento (Delfini era nato a Modena nel 1907), ma di tenerne conto solo di rimbalzo; di anticipare qualche tratto dei Novissimi (muore nel 1963 e il suo libro di poesie è pubblicato nel 1961), avendo però subito manifestato quasi una sorta di fastidio dinanzi ai suoi stessi tentativi più sperimentali. In effetti Delfini guarda anche sempre alla tradizione più vicina nel tempo, soprattutto francese, per cui si è fatto (ma come non farlo?) il nome di Baudelaire, a cui però vanno aggiunti almeno quelli di Corbière e Apollinaire. Ma anche in questo caso, l'atteggiamento del poeta è ambiguo e sfuggente, tende a respingere ogni discendenza e familiarità.
La tradizione non rappresenta per Delfini una luce certa e un punto di riferimento perenne, il passato che rassicura e consolida, bensì materia che si frantuma e si trasforma, come ogni altra esperienza, in un procedere volutamente acerbo, nella versificazione sghemba e maledicente. Scrive in Mia prima poesia, una lirica del 1957, “Sia benedetto il mio brutto poetare / Prego il Signore che il mio poetare sia ancora più brutto / avendo in mente gli innominabili nomi / di coloro che ho maledetto e maledico. / Prego.” E la benedizione, beninteso, fa seguito alla maledizione che va a colpire “colui che è magistrato”, il più grande amico, tutti gli avvocati “figliati da lucertole e lombrichi”, i “lustri ministri servitori”, in una sequela maliziosa e maleaugurante, che non è l'unica del libro e che ricorda altrettanto feroci elenchi di altri maledetti e irregolari, primo fra tutti Cecco Angiolieri.
Tra un'invettiva e una denuncia, un'imprecazione e un'ingiuria, Delfini che vinse, ma solo dopo la morte, il premio Viareggio con il volume Racconti, sa essere diretto e icastico, particolarmente nelle poesie brevi, quando i versi escono dalla taverna per diventare più malinconici, meno arrabbiati ma forse ancora più tormentati. Un esempio: “Noi viviamo / di una paura / totale / assoluta / invereconda / senza remissione”.



mercoledì 6 novembre 2013

Sandro Penna, la "triste luce"

Sandro Penna sorridente in compagnia di Pier Paolo Pasolini
Esiste nella poesia di Sandro Penna un'attrazione verso la luce. Come se il poeta provasse il bisogno di guardare persone e cose, i fanciulli e le presenze della natura, sotto i raggi abbaglianti del sole, nel pieno della luminosità di una giornata in cui l'aria stessa è fonte di spettacolo (Sul molo il vento soffia forte. / Gli occhi hanno un calmo spettacolo di luce”; “Entro l'azzurro intenso di un meriggio d'estate / denso è il fogliame e assorto sotto il lucido sole”: sono gli incipit di due poesie degli anni Quaranta). Penna vuole vedere chiaramente, isolare gli oggetti prima di introdurli nel verso, sembra mosso dalla necessità di essere abbagliato dalle forme per conoscerle. In questo modo in effetti è come se gli oggetti si presentassero ai nostri occhi per la prima volta: l'illuminazione diffusa sorprende e inventa. Come nella lirica d'amore dello Stilnovo, la luce rende possibile l'apparizione e introduce al miracolo della presenza dell'oggetto amato, ma la presenza è fuggevole e la luce costruisce la scoperta e prepara all'assenza. Inoltre anche in Penna, come avviene nella poesia di Pascoli, la luce sfuma i contorni e nel riverbero lascia intravedere fantasmi, sottintende il mistero: se l'aria è “gemmea” non è detto che sia frutto della stagione primaverile, l'apparenza (si tratta pur sempre di un'apparizione) potrebbe nascondere tutt'altra realtà, scoprendo “nere trame” e rendendo angoscioso e lontano il cielo.
Come scrive Cesare Garboli, nel sistema ossessivo che attraversa la poesia di Penna “c'è una costante alternanza tra un'espressione panica, solare, luminosa dell'io e una reintroversione, una regressione nell'infelicità e nel mistero”.
Alla scoperta luminescente della natura e del desiderio dell'amore che essa contiene fa seguito repentinamente un senso di angosciosa rivelazione che porta alla consapevolezza che luce e ombra sono inseparabili, così come la gioia e il sogno conducono con sé un sentimento di nostalgia e di rimpianto.
E' quanto appare evidente in questa lirica tratta da Croce e delizia:

       Amore, gioventù, liete parole
       cosa splende su voi e vi dissecca?
       Resta un odore come merda secca
       lungo le siepi cariche di sole.

Ciò che splende su amore e gioventù è la stessa forza che dissecca la loro vitalità e che rende amara l'epifania, cupa l'illuminazione. Il tono leggero e blandamente canzonatorio, lo scivolamento lessicale che coniuga le dannunziane siepi cariche di sole con l'acre e popolare odore della merda secca, rivelano l'impossibile permanenza della luce: luminosità e tenebre convivono, così come l'amore e il suo distacco.
Ancora dalla stessa raccolta:

Sole con luna, mare con foreste,
tutte insieme baciare in una bocca.

Ma il ragazzo non sa. Corre a una porta
di triste luce. E la sua bocca è morta.

Basta uno scarto, il piccolo movimento di una breve corsa, e la felicità sbanda, la realtà si impossessa nuovamente della vita e l'improvviso miracolo di un'apparizione salvifica si perde nella “triste luce”. La bocca desiderata diventa la manifestazione del rifiuto della vita e dello smarrimento che ci domina.



sabato 19 ottobre 2013

Una partita di calcio con Vasco Pratolini

Il 19 ottobre 1913 nasceva a Firenze Vasco Pratolini. In occasione del centenario i critici letterari approfondiranno gli aspetti più significativi della sua opera. Si rispolvererà certamente la polemica che fece seguito alla pubblicazione nel 1955 di Metello, il romanzo che mise l'uno contro l'altro Carlo Salinari e Carlo Muscetta, a fare le pulci al più o meno edulcorato realismo della narrazione. Verrà ricordato il giudizio, che spesso gravò sull'opera dello scrittore fiorentino, di una narrativa dai toni elegiaci, che contribuì a rendere difficile il rapporto con il partito comunista, rapporto peraltro definitivamente messo in crisi dai fatti di Budapest del 1956, quando Pratolini senza alcuna incertezza si schierò dalla parte degli insorti. Del resto per Pratolini il comunismo doveva essere sempre coniugato all'aggettivo “popolare”: popolare doveva essere la rivoluzione, così come comprensibile al popolo dovevano essere i sentimenti e le azioni raccontate nelle sue opere.
A me, che critico non sono e non ho da scrivere su nessun importante quotidiano, viene piuttosto da pensare che il giorno dopo le celebrazioni del centenario si giocherà a Firenze la partita di calcio tra la Fiorentina e la Juventus.
Ho conosciuto Vasco Pratolini agli inizi degli anni Ottanta. Lo scrittore frequentava un gruppo di amici salernitani di Alfonso Gatto, morto qualche anno prima, che si ritrovavano alla galleria Il Catalogo di Lelio Schiavone. Insieme a Lelio, di tanto in tanto, ci recavamo a Roma a incontrare l'autore di Cronache di poveri amanti e di Le ragazze di Sanfrediano, in una sorta di devoto e amichevole scambio di visite. Una bella domenica di dicembre, dopo che avevamo mangiato in non ricordo più quale ristorante abruzzese, e dopo che la mattinata era trascorsa con Pratolini che mi mostrava le strade dove aveva visto passare i carri armati tedeschi che lasciavano la città, lo scrittore volle fare rapido ritorno a casa. Appena il tempo di chiudersi alle spalle la porta dell'elegante e piuttosto anonimo appartamento che abitava nei pressi di viale Libia e subito Pratolini andò a sedersi, lui reso ancora più piccolo dagli anni, dietro l'enorme scrivania del suo studio. Ci chiese di fare silenzio e mise in funzione la radio. Non ci fu più modo di scambiare parola, se non per commentare qualche gesto calcistico, dopo che una nota marca di brandy ci ebbe augurato buon pomeriggio, comunque andassero le cose per la nostra squadra del cuore, e dopo che la voce di Ameri ci ebbe introdotto all'interno dello stadio di Firenze. Quel giorno la Fiorentina giocava con la Juventus.
Qualche anno prima Pratolini aveva scritte queste parole sul calcio: E’ un vizio? Indubbiamente è un richiamo molto forte, irresistibile, ovunque mi trovi, quale che sia il valore delle squadre, il tempo, gli impegni che mi consiglierebbero di rinunciarci. Nelle mie domeniche salta la domenica, mai la partita. Ed onestamente parlando, oggi come oggi, non so cosa possa accadere di più importante nel resto del mondo, in quelle ore della domenica, di quanto non accada negli stadi, e che meriti di essere veduto, e vissuto. E’ il gusto dello spettacolo, con tutti i suoi deliri anche, che un grande spettacolo comporta. poiché di un grande spettacolo si tratta, il più autentico della nostra epoca, lo spettacolo collettivo, 'per tutti', che il teatro moderno non ha saputo darci”.
C'è tanto della poetica di Pratolini in queste frasi, del suo senso della vita,  della ricerca dell'autenticità dello stare insieme, dell'emozione e dell'affettività che animano le imprese collettive e che si ritrovano, sia pure con altro spessore, nella sua opera. Un'opera che si era interrotta nel 1966 con la pubblicazione del suo ultimo romanzo Allegoria e derisione. Da allora Pratolini aveva pubblicato solo il libro di poesie Il mannello di Natascia, nel 1980, inizialmente proprio a Salerno per le edizioni de Il Catalogo di Schiavone. 
Quando insomma l'ho conosciuto, Vasco Pratolini non pubblicava narrativa da quindici anni e non amava parlare dei suoi libri. Di fronte alle richieste ammirate degli amici si chiudeva in un silenzio anche un po' astioso. Ogni tanto ne parlava con me, prendendomi sottobraccio e avendo cura che gli altri non ascoltassero. Ma con me preferiva comunque chiacchierare di calcio: sapeva di poter discutere di tattiche e gesti tecnici, senza paura di non venir compreso.


martedì 15 ottobre 2013

La didattica di Euclide

Nell'articolo di apertura dell'inserto domenicale del Sole 24 ore del 13 ottobre si dà conto con notevole e speriamo meritata enfasi di un progetto didattico pluridisciplinare che verrà attuato presso il liceo classico “T. Tasso” di Roma, attraverso il quale verranno proposti agli studenti la lettura e l'analisi del primo libro degli Elementi di Euclide. L'obiettivo è quello di indicare una strada che possa offrire nuova energia e nuovi argomenti ad una tipologia di liceo che si sta misurando negli ultimi anni con un vistoso calo delle iscrizioni. Il presupposto è semplice: superare l'idea che la formazione classica sia di fatto obsoleta, contribuendo a ripensare i termini di quella divisione che nel nostro paese ha contrapposto da secoli le “belle lettere” al mondo e alle acquisizioni della scienza.
Dell'articolo firmato da Lucio Russo vorrei però sottolineare soprattutto il passaggio dove si sostiene che esiste un legame tra metodo dimostrativo euclideo e democrazia, e come tale procedimento di pensiero risulti fondamentale per una corretta ed efficace metodica didattica. Insomma non dare per scontate le conoscenze, ma ricavarle dai fatti e dai ragionamenti, aiuta al confronto, educa alla democrazia, cose che tra i banchi di scuola si traducono in stimolo alla riflessione.
“Lo studente abituato a esercitare lo spirito critico – scrive Russo – riconoscendo come vere solo le affermazioni dimostrabili è infatti posto sullo stesso piano del maestro e può correggerne gli errori, mentre l'eliminazione delle dimostrazioni non può che condurre a una didattica di fatto autoritaria”.
L'arretramento educativo degli ultimi anni di cui è protagonista la scuola italiana ruota proprio intorno a questa questione. L'eccessiva burocratizzazione dell'insegnamento sta producendo una semplificazione dei processi comunicativi docente – allievo. Chi insegna spesso vuole apparire depositario di un sapere che deve essere recepito senza troppe discussioni: l'avversione a mettere in gioco conoscenze e nozioni è giustificata dal timore della perdita di autorità, della perdita di tempo, della perdita di un'aureola di sacralità che la cultura, quando entra tra le aule scolastiche, vuole ad ogni costo preservare. Quello che veramente si perde è invece la possibilità di dotare i giovani degli strumenti necessari a ragionare, a dubitare, a provare la forza del proprio pensiero.
Ciò che rende differente la scuola di oggi da quella di tre o quattro decenni fa è la volontà a perimetrare la conoscenza entro confini preventivamente stabiliti, a fornire certezze senza spiegare i ragionamenti che le hanno rese possibili.
Se la scuola deve fornire cultura, e la cultura è sempre capacità di proporre domande e risposte attraverso uno sviluppo di pensiero rigoroso e manifesto, allora ben vengano i progetti che tentano di ridurre la frattura tra discipline umanistiche e scientifiche. Ci soccorra insomma la geometria di Euclide!



giovedì 3 ottobre 2013

IL FUMO BIANCO di Renzo Paris (Elliot)

Le poesie di Renzo Paris che compongono il volume Il fumo bianco sono state scritte nel corso degli ultimi venti anni e si muovono dentro luoghi tra loro distanti, eppure vicinissimi nella biografia e nel cuore del poeta. Sono le città e i paesaggi attraverso i quali si costruisce una geografia familiare e degli affetti, ambientazione e motore primo delle liriche.
I versi di Paris sono costruiti intorno all'urgenza di raccontarci l'esistenza, senza moralismi e senza una visione preconcetta che limiti la meraviglia del guardare, e hanno bisogno, per avviare il percorso verso il lettore, di un luogo fisico e concreto da cui partire, un ambito appunto congeniale e familiare, riconoscibile a sé e agli altri come parte del mito personale.
Innanzitutto c'è Roma, i cui squarci urbani, sia quelli a tutti noti sia gli altri più nascosti, sono comunque rappresentati dal poeta flaneur ogni volta dentro la grazia della scoperta e sovrapponendo e mescolando la confusa vitalità del presente, che spesso degenera nel disfacimento, alla presenza, più viva ed emozionante, della classicità. Il mondo latino è vissuto come un contraltare della contemporaneità, il quale allunga le proprie ombre fino a suggerire una lettura critica del presente, fino ad invogliare a una ricostruzione dell'esistenza e delle sue relazioni: “Forse perché del Novecento / non amo più niente, / a passi lenti e gravi misuro // le mura di questa città e i fori, / i marmi della latinità, evitando / di dar peso ai mezzi meccanici // che intasano il grande garage / della modernità”.
Ma può il poeta intervenire sulla realtà? A questo proposito, accompagnando le parole e i gesti con un sorriso amaro e canzonatorio, l'io protagonista delle liriche sembra voglia tirarsi fuori dalla contesa, presentandosi fin dal principio come sospeso in un tempo che non concede più margini all'azione. “Non sono né giovane né vecchio” si confessa nella lirica d'apertura. “Eppure / sono vecchio. In una nicchia dorata / l'autunno cede il passo all'inverno, / coperto di tenebre e sonno”. Ma nemmeno questa è la verità: “Eppure sono giovane, mi batte il petto. / Mille voci mi rimescolano il sangue”. Infine conclude: “Non sono né giovane né vecchio, sogno / come un demente, queste due età infinite, / immerso nel secchio del vino delle aurore, // in un tempo bambino. Sono vecchio, sono / vecchio, eccomi pronto per le sterminate / eternità”.
La personale geografia di Paris non può poi prescindere dalla Marsica, che è la terra dell'infanzia e degli avi, e dunque si colora di una dimensione mitica e narrativa. E' anche terra che trema, tanto che il “fumo bianco”, che oltre che al libro dà il titolo ad una delle cinque raccolte di cui si compone il volume, fa riferimento al polverone sollevato dalla scossa di terremoto che distrusse L'Aquila e le zone vicine. I movimenti tellurici con la distruzione che producono sono comunque anche metafora di un mondo che si sgretola, di un panorama, anche affettivo e amicale, che perde i protagonisti.
Infine le poesie di Paris ci portano in Finlandia, dove il poeta si è spesso recato negli ultimi anni e dove, come per un incantesimo, sembrano ripresentarsi umori e presenze dell'antico mondo abbruzzese: “Risento l'aroma / di benzina e di lillà, rivedo le nevi / antiche della mia Marsica, ritrovo / i tonitu, i miei dispettosi mazzamurelli”.
La poesia di Paris, con la sollecita corporeità e la contenuta saggezza di quegli scrittori latini che sente affini e fraterni, guarda al mondo che gli è intorno, alle vite dei familiari e degli amici (quelli in vita e quelli scomparsi sono comunque parte attiva nell'esistenza e nelle giornate del poeta), con occhio ad un tempo sollecito e svagato, comunque facendo emergere dal coro di presenze un senso universale del vivere. Il racconto della realtà, ottenuto attraverso terzine di stampo pasoliniano, si realizza per frammenti e approssimazioni, per improvvisi bagliori, per meravigliose scoperte, che suggeriscono, proprio mentre la poesia sembra bisbigliare e dire sottovoce, inaspettate aperture verso orizzonti più ampi, a dichiarazioni mai gridate come vere ma sempre piene di amore per la vita e la poesia. Solo quest'ultima in effetti, sembra suggerire Renzo Paris, può dare veramente conto dell'esistenza, offrirle concretezza. “Possiedo una forma, mentre rimo / vivo. (…) / I miei figli hanno preso il volo, / il nido è vuoto. Voglio vivere ancora, / amare, tradire, rovesciare il cuore”.


(pubblicato sul sito Giudizio Universale)


sabato 28 settembre 2013

Il corpo sa di sole e di salmastro

Una mia poesia tratta da La vita dei bicchieri e delle stelle (Campanotto, 2013). Fa parte della sezione L'anima.



Il corpo sa di sole e di salmastro,
l'anima afflitta attende in zona grigia,
rannuvolata sterza in coni d'ombra
e non è mai abbronzata, pare stinta
in posa da malata speculante,
anima ottenebrata e respingente,
pensa da sempre ad altro, s'aggroviglia
in contorsioni, in ginniche flessioni cogitanti,
cerca rifugio alle eccitazioni,
a fasci luminosi e radiazioni.
E pure quando il corpo sta disteso,
vorrebbe rilassarsi in pieno sole,
un po' afflosciato, col muscolo sapiente
addormentato, il respiro assonnato,
lei vigila e vaga diffidente,
controlla il territorio, soprintende
in preda a una nevrosi meditante.
Il corpo lui vorrebbe rimanere
ad arrostire, l'anima febbrile
lo ghiaccia a spruzzi di risentimento:
lui cerca pace e lei condanna al vento,
gli ricorda l'età, le malattie,
le macchie sulla pelle, i raggi uva.
Lui ancora cerca il centro della scena,
lei è pronta coi rimorsi e con la crema.



martedì 3 settembre 2013

Finestre chiuse

Finestre chiuse, finestre aperte. Un recente studio realizzato in California dal Berkeley Lab, di cui si parla nel dossier medicina del Corriere della Sera di domenica 1 settembre, sostiene sia molto utile ventilare adeguatamente le aule delle scuole, anche solo aprendo le finestre di tanto in tanto. Un comportamento così semplice porta ad una riduzione sensibile delle assenze degli alunni, migliorando la qualità dell'aria, attraverso un drastico abbassamento della presenza di sostanze dannose. E' noto come gli spazi chiusi all'interno delle città, anche le stanze delle nostre abitazioni, siano spesso più inquinati delle strade.
Una delle mie ultime lezioni dello scorso anno scolastico ha avuto come argomento proprio la necessità di aprire le finestre. In quella seconda liceale mi vedevano spesso comparire alla prima ora di lezione, fermarmi sulla porta. Non entro se le persiane non sono alzate, dicevo. Dopo un paio di settimane mi bastava solo rimanere fermo per ottenere che la luce naturale invadesse l'aula.
Ho cercato di spiegare ai ragazzi che il mio comportamento non è frutto di un'ossessione, almeno non solo: mi mette tristezza entrare in un'aula dove la luce proviene dai gelidi neon al soffitto, peraltro insufficienti a un'adeguata illuminazione. Ma non si tratta solo di questo. Non guardare quello che c'è fuori del mondo ristretto in cui viviamo mi sembra un atteggiamento che si scontra con l'obiettivo stesso di ogni percorso culturale, a maggior ragione di quello educativo.
In molte aule i vetri delle finestre sono zigrinati oppure opachi, credo con l'obiettivo che i ragazzi non guardino verso l'esterno. Mi sembra un segnale infelice. E' come se la scuola sostenesse di essere autosufficiente, che per tutto quello che è necessario imparare bastino i pochi metri quadrati invasi dai banchi e in cui restiamo un po' stipati, che della realtà esterna ci interessa poco, anzi che può solo distrarci da un sano processo di conoscenza.
Invece è bene aprirle le finestre, ho detto ai ragazzi, ogni tanto rischiare anche di perdere qualche parola dell'insegnante guardando fuori, scoprire che in fondo l'esterno non è così cattivo, anche visto da qui, che oltre la finestra c'è un giardino (fortuna!) e ci sono i rami di un albero e sopra qualche volta c'è anche un usignolo, e se ci sporgiamo un po' possiamo vedere anche il cielo.
Insomma aprire le finestre non è solo salutare per lo stato fisico degli alunni, ma anche per loro curiosità culturale e per il benessere mentale, e migliora, sì migliora, la qualità dell'insegnamento.
A volte entro in aule che hanno le persiane abbassate o le finestre opache incredibilmente sigillate anche in primavera, perché l'insegnante che mi ha preceduto ritiene che in questo modo gli alunni si concentrino meglio, non si perdano in astratti ragionamenti dietro il saltabeccare di un merlo o di un passerotto, non pensino, in una bella giornata di sole, che forse sarebbe meglio essere fuori.
Ma i ragazzi, già abituati a vivere al buio delle loro lunghe notti e delle stanze solitarie, convinti che la luce sia innanzitutto quella proveniente da un qualche schermo, che insegnamento ricavano da una scelta siffatta? E poi, siamo sicuri che la loro disattenzione dipenda solo da quello che vedono fuori e non, almeno in parte, anche da quello che accade all'interno delle pareti scolastiche?
Quando la mattina, prima dell'inizio delle lezioni, entro nell'aula dei professori, spalanco le finestre per far cambiare l'aria. L'aula affaccia su un piccolo chiostro. Mi sembra così che un po' di vita e di rinnovamento (non solo dell'aria) si faccia largo tra i mobili antichi e in verità un po' tetri. Sta di fatto che dopo pochi minuti le finestre sono di nuovo chiuse. C'è sempre qualcuno alle mie spalle che ha paura delle correnti d'aria.


sabato 31 agosto 2013

Estate, dove vai?

Finisce agosto e finisce l'estate, almeno per noi che guardiamo a settembre come a un'età già diversa. E' il passaggio che segna davvero la fine e l'inizio dell'anno. Ne sono prova gli innumerevoli versi dedicati a questa stagione. A me viene in mente una poesia di Diego Valeri, contenuta nella sua ultima raccolta Calle di vento.

Estate, dove vai, dove mi porti?
Tu sembri stare, ma
vai senza posa, scorri via. Domani
è l'autunno: l'autunno
dai soli impalliditi, dalle lunghe ombre opache.
Cadono i frutti, l'albero si spoglia.

Come spesso accade nelle sue poesie, Valeri sembra registrare le evidenze della realtà, riportarle aderendovi con subitanea accettazione. In effetti questa sorta di assenso nasconde spesso una verità fatta di precarietà e di rinuncia. Così l'autunno che si appresta segna il ritorno di una certezza: la fragilità che prende di nuovo possesso delle cose e delle vite, dopo il malinteso estivo che ha fatto sembrare immutabile il mondo. L'apparente fissità dell'estate (Cardarelli in Estiva parla di “stagione la meno dolente / d'oscuramenti e di crisi”, che “sembri mettere a volte / nell'ordine che procede / qualche cadenza dell'indugio eterno”) in effetti già nasconde un avanzare “senza posa”, lo scorrere quasi inconsapevole delle esistenze. Solo con l'arrivo dell'autunno ci accorgiamo di come la vita abbia proseguito nel suo cammino, negandoci un'eternità a cui avevamo creduto.

Mentre l'estate è carica di fraintesi (“tu sembri stare”) ed è in fondo stagione di mutamenti e di alterazioni (“vai senza posa, scorri via”), l'autunno rende evidente l'oggettiva sicurezza della provvisorietà, ristabilisce la certezza che tutto è incerto e transitorio.


venerdì 30 agosto 2013

Poeti in osteria

Oggi mi piacerebbe andare in osteria. Ma non una di quelle di ora, che della trattoria hanno solo il nome e dietro il basso livello lessicale della denominazione nascondono locali d'alto pregio e una cucina di raffinata presunzione. Vorrei proprio mangiare in una di quelle osterie (una bettola, mi suggerisce una voce) con i tavoli di legno – un legno non pregiato e solo lavorato dai morsi del tempo e dalle nevrosi degli avventori – e con le sedie impagliate, i quadri brutti alle pareti, che raffigurano zingare e paesaggi di mare. Potrei consumare qualcosa di semplice a un prezzo onesto (aggettivi da tempo se non banditi quantomeno sgraditi nei nostri consessi, non solo in quelli gastronomici), ma soprattutto proverei piacere nel guardare l'umanità che frequenta il locale. Si tratta la maggior parte delle facce consuete di gente sconosciuta, venuta da un passato dove bellezza ed eleganza abitavano altri quartieri, e dove si poteva passare il tempo, tra un piatto e l'altro, a guardarsi intorno, a parlare col vicino visto per la prima volta. Vorrei ammirare rapito il cameriere che ciabatta, dalle movenze buffamente severe nella giacca bianca un po' consunta, la padrona in evidente sovrappeso che si lamenta, ma insieme sorride e scherza, come in una recita ben congegnata.
Non ce ne sono più di osterie così. Per cercare la loro atmosfera devo tornare alle pagine di qualche poeta. Saba, ad esempio, che in Scorciatoie e raccontini afferma che “l'osteria romana nella quale prendo i miei pasti è uno dei luoghi nei quali amo l'Italia”. In questo spazio caro “entrano cani festosi, che nessuno sa di chi sono; bambini nudi con in mano un fiasco impagliato (vengono a comprare vino per papà)”. “Mangio solo come il Papa – conclude poi il poeta – non parlo a nessuno e mi diverto come a teatro”.
Di Sbarbaro è nota la Lettera dall'osteria, che comincia così:

In istato di grazia, amico Volta,
di notte da una bettola ti scrivo.

Stato di grazia: ché non so più grande
bene, di contemplare
tra la nebbia del vino i paesaggi
di cui rozz’arte ornò all’intorno i muri,
e l’ostessa baffuta o la ridente
ragazzotta che reca la terrina.

Attaccare discorso con chi capita
vicino; a chi sorride
sorridere; voler a tutti bene;
scantonato dal tempo e dallo Spazio,
guardare il mondo come un padreterno.

E uscire dalla bettola leggero
come la mongolfiera che s’invola;
sentir come tappeti di velluto
i lastricati sotto il piede incerto;
e voglia di cantare a squarciagola.

Al breve elenco, del tutto parziale e incompleto, non può mancare una poesia di Sandro Penna.

Le nere scale della mia taverna
tu discendi tutto intriso di vento.
I bei capelli caduti tu hai
sugli occhi vivi in un mio firmamento
remoto.

Nella fumosa taverna
ora è l'odore del porto e del vento.
Libero vento che modella i corpi
e muove il passo ai bianchi marinai.

Non ci sono più codeste osterie. O forse non ci sono poeti in osteria.






sabato 27 luglio 2013

Produrre figure narrare storie: esperienza e invenzione in Vittorio Sereni

A riprova di quanto sostenuto nel post precedente, nel quale tentavo un'analisi di una poesia di Vittorio Sereni sulla base di una presunta (da me) tendenza del poeta a narrare storie, combinata peraltro a una ritrosia della poesia a riprodurre la realtà senza manipolarla, mi soccorre una prosa dello stesso Sereni che risale al 1962 e che venne inserita nel volume Gli immediati dintorni, ripubblicato ora in edizione ampliata da Il Saggiatore.
Vittorio Sereni
La prosa ha titolo Il silenzio creativo. Dato conto di quello stato d'animo che aggredisce un autore quando questi non riesce a scrivere una riga anche per periodi molto lunghi, provando “l'umiliazione del non farcela più”, Sereni si concentra soprattutto su quello che, a suo avviso, è l'aspetto veramente importante della questione. Di fronte a “sensazioni, impressioni, sentimenti, intuizioni, ricordi”, ai quali siamo portati ad attribuire un “senso di rarità o di eccezionalità”, il poeta si può trovare in una condizione di “insoddisfazione creativa, anzi di riluttanza di fronte alla messa in opera”, insomma è vittima di un disagio che può diventare silenzio nel momento in cui bisogna tradurre queste esperienze di vita in un linguaggio codificato e che dunque prevede moduli espressivi già sperimentati.
Da questo nasce una sorta di invidia del poeta nei confronti del narratore, capace di dare corpo, in maniera illusoria fin che si vuole, e grazie a una specie di “sortilegio evocativo”, a “figure, situazioni, vicende, ben oltre la voce, l'accento, la formulazione lirica immediata”.
Appare dunque centrale nella riflessione del poeta il rapporto tra “esperienza e invenzione”, tra quelle che sono le emozioni, i sentimenti e le vicende che la vita impone, e la loro traduzione in poesia. E' evidente perciò che la meditazione di Sereni si concentri sulla possibilità di raccontare l'esperienza di vita individuale in poesia, sulla necessità che le figure e le storie prendano corpo nei versi.
“Programmare una poesia 'figurativa', narrativa, costruttiva – conclude il poeta – non significa nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia 'astratta', lirica, d'illuminazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d'un lavoro, avvertire il bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore... Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narrativa si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso tenerle distinte?”.
Mi sembra una dichiarazione di poetica, abbastanza mascherata, ma imprescindibile per capire il processo creativo alla base della poesia di Sereni.

Va detto infine che Gli immediati dintorni, libro essenziale per comprendere la complessa e varia riflessione teorica del poeta di Luino, appare come un blog ante litteram, un blog senza internet, ma con la capacità di fissare in forma non rigida notazioni, riflessioni analisi.


martedì 23 luglio 2013

Sereni, quando la poesia racconta

Di Vittorio Sereni si ricorda in questi giorni il centenario della nascita, avvenuta a Luino di Varese il 27 luglio del 1913.
Le poesie di Sereni mi sono sempre apparse come brevi racconti, che fanno perno sulla storia personale e sulla “centralità dell'esperienza” (l'espressione è del poeta Stefano Dal Bianco, fine conoscitore dell'opera di Sereni), ma nei quali altrettanto evidente è la difficoltà di raccontare, nel senso che viene meno la possibilità di credere che la realtà, anche quella immediatamente vicina, possa essere oggetto di narrazione, riferimento certo, sostanza coerente in cui avere fiducia. I versi partono spesso da un elemento concreto, una situazione ben individuabile, salvo poi smarrire questo punto tangibile di avvio in un'allusività che lascia trasparire malesseri e trepidazioni, un sentimento sgomento e palpitante.

Riporto la poesia Finestra, tratta da Gli strumenti umani, terzo libro del poeta di Luino, pubblicato per la prima volta nel 1965.

Di colpo – osservi – è venuta,
è venuta di colpo la primavera
che si aspettava da anni.

Ti guardo offerta a quel verde
al vivo alito al vento,
ad altro che ignoro e pavento
- e sto nascosto -
e toccasse il mio cuore ne morrei.
Ma lo so troppo bene se sul grido
dei viali mi sporgo,
troppo dal verde dissimile io
che sui terrazzi un vivo alito muove,
dall'incredibile grillo che quest'anno
spunta a sera dai tetti di città
- e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo.

Pure, un giorno è bastato.
In quante per una che venne
si sono mosse le nuvole
che strette corrono strette sul verde,
spengono canto e domani
e torvo vogliono il nostro cielo.
Dillo tu allora se ancora lo sai
che sempre sono il tuo canto,
il vivo alito, il tuo
verde perenne, la voce che amò e cantò -
che in gara ora, l'ascolti?
scova sui tetti quel po' di primavera
e cerca e tenta e ancora si rassegna.


E' evidente che l'atto quotidiano di guardare dalla finestra, il presentarsi di un'esperienza che è fatta di eventi e di personaggi (il “tu” a cui si rivolge il poeta, ad esempio, subito introdotto da quel primo verbo “osservi” e poi, ad inizio di seconda strofa, chiarito al femminile dal termine “offerta”), le azioni dell'osservare e dello sporgersi, del nascondersi, appaiono subito messi in discussione nella loro consistenza reale dall'affermazione che la primavera “si aspettava da anni”, oltre che da un procedere linguistico che alterna elementi del parlato con improvvisi trasalimenti anche lessicali (”e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo”) e con più letterarie costruzioni sintattiche (“In quante per una che venne / si sono mosse le nuvole”), e infine da un andamento ellittico che inaspettatamente scivola su uno spazio vicino e si concentra su un particolare, come avviene nel caso dell'”incredibile grillo”.
L'affermazione che la primavera è “di colpo è venuta”, dichiarata fin nel primo verso, ha bisogno di conferma già nel successivo, “è venuta di colpo”: una ripetizione così ostentata che pare quasi puntare a volere convincere chi scrive e chi legge di un evento che invece non è dato credere possa manifestarsi con così limpida e trepida evidenza. E difatti oltre il verde e l'alito di vento, annuncio della stagione, c'è dell'altro, assicura il poeta, “che ignoro e che pavento”, c'è quel “grido dei viali”, una realtà meno spiegabile e rassicurante, un mondo in disaccordo con la vita dei singoli, c'è un'estraneità che stenta a ricomporsi.
Incombono poi le nuvole a negare l'evento atteso, che “corrono strette sul verde” e che “spengono canto e domani / e torvo vogliono il nostro cielo”. Ma infine un'ipotesi di ricostruzione del mondo, di armonia con la vita, di equilibrio primaverile, arriva in quel canto, nel “vivo alito”, nel “verde perenne”, nella “voce che amò e che cantò”, tutti aspetti coniugati in senso esistenziale e privato. E' quella la forza che può scovare sui tetti la primavera, la voce forse della poesia, che “cerca e tenta”, ma che infine “ancora si rassegna”.


martedì 16 luglio 2013

ATTI MANCATI di Matteo Marchesini (Voland)

Il protagonista di Atti mancati, primo romanzo di Matteo Marchesini, è un trentatreenne che si sente a proprio agio solo tra libri e redazioni di giornali, sempre impegnato a scrivere recensioni e a progettare saggi, ma da qualche tempo indifferente di fronte alla vita, incapace anzi di accettare il rischio che essa impone, l'impegno che richiede anche di fronte alle sue minime, quotidiane manifestazioni. Marco Molinari è micidiale sulla carta, ma aleatorio quando parla, come dirà a un certo punto della vicenda Lucia, con cui Marco ha vissuto un'intensa storia d'amore, poi naufragata proprio di fronte alla volontà di lui, improvvisamente emersa, di rifiutare la vita e i suoi pesi. “Hai bisogno di tanto tempo vuoto davanti a te... Per farne che, poi? Sfrondi, sfrondi, e cosa rimane?” gli dice Lucia. Marco è inadeguato di fronte al presente, ma non aspira nemmeno a ricostruire il passato, a ricomporre le ragioni che lo hanno condotto alla sua scelta. E dal passato appunto riemergono il professore Bernardo Pagi, che un tempo era stato il punto di riferimento culturale di Marco, il ricordo di Ernesto, l'amico caro morto in un inspiegabile incidente stradale, Davide, il fratello di Ernesto, che ne ha quasi rubato la fisionomia ma vive in una casa di cura per malattie mentali, e soprattutto Lucia, che ritorna a Bologna con il carico di una malattia incurabile.
Sono personaggi che hanno scelto di “sparire”, di vivere in disparte, come Pagi che si è rifugiato in un borgo dell'Appennino tosco-emiliano. Solo Lucia, che pure è affaticata dalla malattia e condannata alla morte, cerca una verità, si affanna per comprendere quello che succede intorno a lei e agli altri, soprattutto vuole
ricostruire un passato che Marco sembra aver cancellato, il cui ricordo vuole ad ogni costo evitare. Solo Lucia è animata da un sentimento vitale, solo lei guarda al presente come un luogo della mente dove è possibile ricomporre il passato e costruire il futuro.
Lucia avvia una sorta di prova di forza con Marco, indotto in qualche modo, malgrado la propria riluttanza, a guardare dietro, a liberare la propria vita dalla patina di nebbia che la avvolge, a fare emergere dal passato un segreto che dia conto del suo rinunciatario stato d'animo.
Marco Marchesini, critico letterario che collabora con vari quotidiani ed ha già al suo attivo opere saggistiche e di poesia, manovra la materia narrativa con abilità e consapevolezza, spingendo a volte il lettore sul terreno dell'attesa e della sospensione, per poi deviare verso la confessione psicologica e l'analisi della condizione generazionale. Il personaggio protagonista, che è il narratore della vicenda, tende, come è nel suo modo di intendere la vita, a dire molto, negando però allo stesso tempo una verità che possa soddisfarci, cambiando spesso la prospettiva e portandoci in questo modo verso uno scioglimento finale di grande e struggente intensità.
L'ossessione di Marco è un romanzo che non riesce a concludere, anzi che rappresenta il peso incompiuto e indeterminato della propria vita. Ma c'è anche un altro romanzo che non è stato finito: è quello di Ernesto. Proprio in quelle pagine che non sono sua opera, Marco sembra ritrovare una parte di sé che non riesce a confessare. “Strana faccenda – dice il protagonista – io, che a differenza di lui ho tanta ansia di restare, di dire tutto, per qualche oscura ragione continuo a coltivare una prosa che non ha fori da cui possa sgorgare una 'spontanea' riflessione”.

Atti mancati è anche un romanzo sulla sofferenza della creazione artistica, sul difficile e tormentato rapporto tra scrittura e vita. Marco Molinari è una sorta di novello Zeno Cosini, disposto a spendere le sua parole per continuare a girare intorno a se stesso, per scavare senza mai veramente puntare alla profondità. I suoi “atti mancati” nascondono del resto l'ansia di una generazione alla ricerca di se stessa, mentre intorno i punti di riferimento svaniscono, i maestri si dileguano e le richieste di quanti sono intorno spingono verso l'annebbiamento e la rinuncia.


(pubblicato sul sito Giudizio Universale)

sabato 15 giugno 2013

Ma io senza il mio corpo non so stare

Ma io senza il mio corpo non so stare,
non l'abbandono per correre da te,
anima spudorata ed incombente,
non lo rinnego per quattro malefatte
che l'hanno spento, un poco consumato.
Senza il mio corpo, anche se sbiadito,
rimango senza fiato, dove vado,
mi sento perso, ed anche se le colpe
si traducono in macchie sulla pelle,
nel passo pigro, l'occhio riluttante
ad una messa a fuoco resistente,
da te non lo ricovero davvero,
anima maliziosa e supponente,
di certo non l'affido al cicalare
molesto fastidioso e fuori tono,
a quell'accento astratto e spirituale
che induce in tentazioni e pentimenti.
Lo tengo stretto il corpo, non sfinire
con la leggenda che il fisico è malfermo,
si trascina in affanno, mentre tu
volteggi certa di un destino eterno.


da La vita dei bicchieri e delle stelle (Campanotto Editore)



lunedì 10 giugno 2013

Cucine e altri universi. La poesia di Roberto Amato

Tempo fa mi fu chiesto un intervento per un libro sulla poesia di Roberto Amato. Quel libro non è stato poi pubblicato. Questo è il mio scritto.


In luoghi confinati, insieme familiari e misteriosi, si muove la poesia di Roberto Amato. La geografia di Le cucine celesti si sviluppa a partire da interni segnati dal trascorrere del tempo, da stanze ingombre, da cucine dove le donne si muovono con armoniosa e circospetta solerzia, da giardini immediatamente a ridosso delle case. Sono le terre conosciute e quotidiane, ma allo stesso tempo mitiche e dunque leggendarie, sulle quali agiscono personaggi dai nomi e di volti familiari, non si sa se veramente presenti o se vivi solo nella memoria.
Le cose, attestate in luoghi prossimi e consueti, e ancora di più i corpi degli uomini e degli animali, e le loro appendici, non sembrano però soddisfatti della loro posizione, o forse non sono del tutto consapevoli della condizione che loro attiene. Ci restituiscono infatti, come in un evocativo e incantato gioco di specchi, l'immagine di altre forme, di spazi lontani e sconosciuti, di sconfinate praterie siderali e di costellazioni. Il figlio Lapo, uno dei tanti personaggi di quel lessico familiare che si propone costantemente al lettore, si accorge “fin dal primo vagito” che il padre ha le mani fatte d'aria e che “nel vestito / non c'era quasi niente”, tranne la voce che è chiusa “nella bambagia della barba finta / e lunga / e sfusa / come i pappi dell'Orsa / e le lattigini / delle folte comete”.
Roberto Amato
Sembra insomma che uomini e oggetti non riescano a stare al loro posto, e che, situati davanti agli occhi del poeta, facciano di tutto per confondere la visione, per scivolare in territori a cui non appartengono, per evaporare verso l'alto, in cerca di un luogo diverso, del punto d'approdo a cui credono di essere destinati. Succede perciò che ancora la barba “è un cavolfiore così morbido / si svolge per tutto il firmamento // (per il dolce e fatale / Principio della Levitazione Universale)”.
Il Principio della Levitazione Naturale è, a ben guardare, il contrario della legge di gravità: per esso insomma le cose tenderebbero ad andare verso l'alto, a ritrovare una loro identità e un loro posto accanto alle nuvole, a contatto con uccelli e astri celesti. Il mondo terreno aspira a una leggerezza che si intravede nella difficoltà di uomini, animali e cose ad accettare la loro condizione e il loro posto. Tutto questo permette anche un fitto dialogo tra gli elementi, non importa di quale regno fisico essi facciano parte.
Nella poesia di Amato le presenze della natura lontana e quelle del mondo familiare, le figure varie, animate e non, che compongono la realtà di ogni giorno, si scompongono e si sovrappongono. Così in una drogheria la vegetazione nelle sue varie forme, ma anche gli animali e soprattutto gli uccelli, possono fare capolino tra alici sfilettate, prosciutti e capocolli. L'incanto non è solo nella mente di chi vede e poi restituisce gli elementi e la narrazione della visione, ma ingrediente stesso del mondo, che si presenta a noi confuso e disordinato, imperfetto o forse fornito di una perfezione che non abbiamo gli strumenti per intendere ed afferrare. Accade così che il droghiere che dovrebbe “dividere il creato negli scaffali”, finisce per fare confusione, per mescolare prodotti e cose provenienti da settori e da mondi diversi.
In effetti, quelle che a prima vista possono apparire immagini metaforiche, termini di paragone utili a comporre una figura retorica, nella lingua poetica di Amato entrano a far parte della realtà a pieno diritto, si sistemano con forza e convinzione accanto agli oggetti che per più antica consuetudine appaiono collocati nel posto che gli spetta. E' così che drogheria e cucine (che sono appunto, non dimentichiamolo, celesti, mettendo insieme l'alchimia quotidiana e tanto concreta della lavorazione del cibo con la spirituale evanescenza delle presenze immateriali e incorporee) diventano gli spazi dove si manifesta una speciale mitologia poetica, i luoghi protetti dove si mescolano ingredienti diversi e inusuali, per dare luogo a qualcosa di inaspettato, a volte di meraviglioso. Gli oggetti non sono nemmeno i correlativi di una nostra condizione esistenziale o i segnali di un sentimento comune universale, sono ancora se stessi, provocatoriamente e assurdamente se stessi, ma scivolati o appunto levitati verso un mondo altro, sorprendente e vago, o forse finalmente restituiti ad esso.
C'è qualcosa di limitato nella nostra condizione di uomini, se ci sforziamo con tanta determinazione perché la realtà non ci confonda con la sua insensatezza, se cerchiamo in ogni modo di essere concilianti con la visione parziale e circoscritta di quanto ci accade intorno, se della vita evitiamo con cura le vertigini, gli spostamenti di senso, i deragliamenti, gli sbandamenti, così provvidi e normali dice la poesia di Amato, dall'una all'altra condizione naturale: “... ma questo tempo incomprensibile / per noi che non abbiamo le ali / e che stupidamente / non dormiamo sugli alberi...”.
Naturalmente tra gli uomini c'è chi si mostra inadatto a comprendere, e sono i più, coloro che vanno sicuri delle loro certezze, della stabile e ordinata composizione della realtà: “Ho contemplato una balena / e mi pareva l'orsa / con un cesto di pesci e di comete // ho chiesto a un vecchio prete cosa fosse / quel carico di stelle // lui rimbambito / (si contava i bottoni della veste) / disse che non aveva visto niente”.
L'età dorata dove è possibile che la confusione dei ruoli e dei mondi diventi sistema ed anzi si manifesti, come se fosse norma, nella sua ovvietà e nella pienezza della significazione, è naturalmente l'infanzia. E' quello il periodo in cui possiamo crederci uccelli, fare prove di volo dimenando le braccia, correre e saltare fingendo di essere animali. Ed è l'età verso la quale la poesia di Le cucine celesti sempre fa ritorno, non per farne pascolianamente l'eden irricostruibile degli affetti, o anche lo strumento privilegiato della conoscenza: per Amato l'infanzia è la sola età in cui veramente si vive, in cui i mondi si rappresentano in un disequilibrio che non può essere messo in discussione, in cui il tempo non è un susseguirsi ordinato e irreversibile, ma compresenza di passato e presente. “... e cammina cammina / io in qualche posto andavo / e seminavo da per tutto / i fazzoletti / i piccoli bottoni / dal fischio dei calzoni / corti // (ora / saremo certamente tutti morti / ecco perché si sogna / tutto il giorno) // ma qualche volta torno / seguo la scia dei moccichini”.
Se è vero che anche il tempo mescola le carte e il poeta vive in un presente in cui continuamente avanzano figure provenienti da altre età, allora la famiglia diventa inevitabilmente un organismo allargato. Nonne e nonni, zie e zii, cugini, genitori e figli si cercano, si incontrano e si parlano, non importa se siano vivi o morti, abitano stanze e cucine che non si sa se appartengono alle case di oggi o sono solo luoghi della memoria. Roberto Amato racconta la sua famiglia come un cantastorie le vicende di paladini, con intrecci complicati e scompigliati, improvvise interruzioni e salti nello spazio e nel tempo, interventi magici che intralciano i progetti o lasciano intravedere uno scioglimento. La poesia si anima di personaggi che sembrano appartenere appunto a vicende eroiche e leggendarie: il nonno Efisio, Giardiniere di Boboli, la Zita, la lunghissima Ofelia, la Titina, la sorella Alina (“quella bambina sordomuta / che andavo coltivando insieme ai fiori delle zucche”, che ha gli occhi che volano “sopra le foglie nere / delle cicorie altissime”); e poi Lapo, l'Orca, la Clara, l'Alfira, Ezechiele, le Fate, ed Efisio il facchino che “non mi ricordo che abbia / proferito verbo, tranne quel suo cantare / da mezzosobrio / o alticcio / soltanto per lodare stoccafissi / o totani cuciti con un ripieno di frattaglie/ d'oche”.
Al disordine del mondo, al guazzabuglio ostinato dell'esistenza, la poesia di Amato non cerca di fornire un assetto più stabile e ordinato. Il compito del poeta è anzi quello di accettare lo stupore che la visione implica, di restituire al lettore il senso della meraviglia. Questo non significa che la poesia si conceda all'improvvisazione e alla spontaneità. Al contrario il verso è sempre misurato e controllato, e dimostra una lunga e ragionata consuetudine con i grandi autori del secolo scorso.


Non conosco personalmente Roberto Amato, ma so da uno scritto di Manlio Cancogni, tra i primi a leggere i suoi versi, che “pare uscito da un racconto nordico di maghi e stregonerie”. Io me lo figuro che “alto, magro allampanato” cammini spesso senza avere una meta precisa, anzi, se mai l'avesse, dimenticandola, ritrovandosi poi chissà dove, ma lontano, senz'altro lontano dal luogo dove sarebbe dovuto arrivare. Immagino che , se fosse a camminare per qualche sentiero di montagna, non andrebbe in cerca di funghi ma di fossili di conchiglie, delle tracce del passaggio di qualche pesce, sicuramente avvenuto in un'epoca remota, che lui crede ancora attuale; o alzerebbe gli occhi al cielo, avendo percepito il verso di un uccello marino in crisi di orientamento. Su una spiaggia invece non sarebbe attratto da stelle marine e ossi di seppia, ma da rami levigati e contorti, residui di un luogo lontano, testimonianza di una dimenticata foresta.

lunedì 27 maggio 2013

CARTE DA SANDWICH di Attilio Lolini (Einaudi)

All'amato Philip Larkin, con il quale condivide il gusto per l'imprevista sentenza e lo sguardo disincantato e divertito sull'opacità della vita quotidiana, Attilio Lolini affida, nell'ultima Imitazione che chiude la sua nuova bellissima raccolta di poesie Carte da sandwich, una sorta di definitivo ritratto di se stesso: “come sono sereno / come sono disperato”. La poesia di Lolini è tutta in questa paradossale confessione: insieme serena e disperata di fronte all'inconcludente nostra presenza nel mondo, non può più meravigliarsi né reagire con rabbia, poiché tutto è già saputo, pur restando ogni cosa irrimediabilmente sconosciuta. Ogni atto del nostro vivere, anche il più ordinario, dice che non esiste via di fuga, e dunque i versi del poeta possono solo registrare, con parole limpide e senza infingimenti, le immagini ripetitive del carcere in cui siamo costretti: “Le stagioni si ripetono / come dischi rigati // della libertà / ci siamo liberati”.
Non c'è da rimettere insieme i pezzi, non esiste ipotesi di ricomposizione, le nostre occupazioni sono “insensate”, le tappe “già segnate” (“Mi pare di sapere / come è andata // tutta la vita / una passeggiata / scombinata”), nemmeno il cielo regala consolazione (“Zoppica il sole / salendo verso il cielo // arranca e va di sbieco / come un uccello cieco”). Al poeta resta solo lo sguardo senza illusioni, il procedere beffardo e lieve sulle macerie, la consapevolezza che anche la poesia non ha parole definitive da offrire, anzi “la poesia abita / una vecchia culla / nasce felice / se non dice nulla”.
Il sentimento del comico nasce in Lolini proprio dalla costatazione dell'assoluta insensatezza delle nostre azioni. Il male di vivere è possibile raccontarlo solo prendendoci in giro, denunciando la nostra incivile, a tratti vile, arroganza di uomini che credono di avere un posto e una ragione che dia conto degli affanni che quotidianamente affrontano. Né può valere a qualcosa tentare di mettere ordine nel disordine generale, azzardare delle risposte, cercare rifugio in un'ipotetica superiore saggezza: “Tante citazioni presumo / da libri letti e abbandonati / la solita solfa di chi campa // con il solito finale: / poco ci è dato conoscere / quel poco sono errori di stampa”.
La poesia di Carte da sandwich ha la capacità di farci ridere proprio mentre contempliamo le nostre miserie. E' una poesia che genera un continuo senso di spaesamento: non permette al lettore di muoversi dalla linea tracciata, e in questo modo lo incatena al suo niente; lo illumina con splendenti motti di spirito ma solo per accecarlo. Insomma Lolini non è un poeta che utilizza le parole perché il mondo sembri più bello, non vuole consolarci né essere buono, anzi è consapevolmente cattivo, quando si aggira, sentenzioso e sorridente, cantando le sue ariette leggere, sereno e disperato, intorno ai nostri mali, costringendoci a riderci sopra. La sua poesia non cerca di sottintendere né alludere, non vuole ammansire la realtà con un linguaggio evocativo o oscuro, è da cantare a bassa voce, in una tonalità in minore, senza nessun accento declamatorio.
Non serve andare lontano per capire come va il mondo: l'epica di Lolini è delimitata a pochi oggetti vicini, ai paesaggi circostanti, tanto che ci si sente già senza patria in un'altra contrada, “dall'altra parte del fiume / nella remota rosticceria Tom & Jerry”, lì dove “gli esuli fischiettano canzoni”. Dai suoi versi a rima baciata, dai versicoli antiungarettiani, dal parodistico e irridente gioco melodico, emerge un personaggio, non più arrabbiato, come accadeva nelle sue poesie degli anni Settanta e Ottanta, ma malinconico e indolente, che ritorce lo sguardo malizioso anche contro se stesso: “Fui progressista / lessi i libri giusti, feci discorsi alla moda / davanti ai professori mossi la coda / sempre spinto da penose fantasie / da pensieri fuori corso // il tempo ci smembra come un coltello affilato / calcolo le sigarette che ancora fumerò / le inutili pagine che ancora stamperò”.

La voce di Attilio Lolini è una delle più intense e originali della poesia italiana degli ultimi decenni, le sue pagine non sono state e non saranno, ne siamo certi, inutili. Peccato che solo da pochissimi anni, complice il suo fare appartato e poco compiacente, la grande editoria si sia accorta di questo poeta nato nel 1939, fin dalle prime prove capace, come subito intuì Pasolini, di fotografare con spietata e leggerissima esattezza la nostra comune disperazione.

(pubblicato sulla rivista Il Grandevetro)

martedì 21 maggio 2013

Gadda in una poesia di Piero Santi

Gadda, Santi e Sandro Penna negli anni Quaranta all'Antico Fattore

Carlo Emilio Gadda morì a Roma il 21 maggio del 1973. Il giorno dopo lo scrittore Piero Santi, che era stato legato all'autore del Pasticciaccio da un'amicizia sincera e schiva, puntellata da piccoli episodi di affettuosa e complice condivisione, scrisse una poesia che sarà poi pubblicata in Diario con gli amici, edito nel 1980 dai Quaderni di Barbablù di Attilio Lolini.
Santi aveva già parlato di Gadda nel suo libro di maggior successo, Il sapore della menta (Vallecchi, 1963), dove lo scrittore milanese si cela dietro il personaggio di Bonetti.
Gadda aveva vissuto a Firenze tra il 1940 e il '50. Tra i letterati e gli artisti che animavano le discussioni al caffè delle Giubbe Rosse c'erano anche loro, Gadda e Piero Santi, che spesso abbandonavano la compagnia per continuare a parlare di letteratura e d'altro, passeggiando lungo l'Arno o spingendosi fino al giardino d'Azeglio.
Carlo Emilio Gadda










Questa di seguito è la poesia che Santi scrisse all'amico il giorno dopo la sua scomparsa.




a Carlo Emilio Gadda

Non ti voglio vedere vecchio
gli occhi fissi la pelle grinza
come ti ho visto alla tivù,
che sei morto ieri ventuno maggio;
nella stretta-serpe che gli strinse la gola.
Forse quando sarai
nella bara sarà meglio,
non flaccido smorto ottantenne,
sarai come quando mi portasti un giorno d'estate
la coperta da letto gobelin
e salisti le mie scale
col peso sulle spalle,
o quando ti scovai nell'atrio
di Santa Maria Novella
tra il rumore stridore dei treni
a guardare cùpido ansioso
chi ti sedeva accanto.
Sul lungarno una notte gridavi
contro il cielo nero e contro le tue nere fantasie,
io fuggi dalla tua solitudine,
perfino capii che quella stretta spalletta-sasso
era il rifugio della tua
esistenza sola e maledetta.
Non voglio ricordare più
la tua faccia gesso alla tivù.
Venga pure, verrà, il coro
di chi non conobbe i tuoi mali,
i tuoi libri saranno
il pasto delle arpie strutturali
delle parche sociologiche
de professori stilistici.
Neppure io forse saprò tenerti
nel muscolo rosso e inerte;
u sei ancora, m'illudo, nella via Blumensthil
perduto nella città remota e deludente,
lasciate le notti-nido del giardino d'Azeglio,
la brezza acida di Firenze,
il giro attorno alla vasca della Fortezza
dove si consumava la tua angoscia

- e la tua tenera viltà.

lunedì 13 maggio 2013

Non c’è dubbio che l’universo espande


Dal mio nuovo libro di poesie, La vita dei bicchieri e delle stelle, edito da Campanotto. Questa è la poesia che apre il volume.



Non c’è dubbio che l’universo espande
giorno per giorno, metro dopo metro, un poco
più universo avanti e indietro, in ogni
lato cresce ad ogni ora. La stella
che era l’ultima (prima di che cosa?)
ora non scorge più alcun confine
tra sé e il vuoto, sempre s’aggiunge
cielo al cielo, dilata il buio, nero
dopo nero. Sto qui in pensiero. Non era
l’universo già infinito?
Non era forma chiusa
ed assoluta? Ma se cammina
anche l’infinito, verso dove
si muove e come fa
a diventare più d'ora illimitato?
Rimango speculando sul pianeta,
che orbita tediato ed esitante,
da tempo più distante da qualcosa
che non sappiamo, insomma barcollante,
disorientato dentro l’universo
che si allontana e che diventa grande,
che giorno dopo giorno un poco espande
in soffi e leggerissime carezze,
miti bisbigli che aggiungono frammenti
di luce al buio, notte a antica notte.
Immagine ripresa dal sito Eso





Giuseppe Grattacaso
La vita dei bicchieri e delle stelle, Campanotto Editore