mercoledì 30 aprile 2014

MADRE di Roberto Carifi (Le Lettere)

Alla figura della madre è dedicato per intero il libro di versi di Roberto Carifi di recente pubblicazione per i tipi di Le Lettere. Il poeta toscano torna su uno dei temi maggiormente frequentati anche nella prima fase della sua produzione. Le diverse poesie, sia pure distinte e ognuna capace di rappresentare un singolo e compiuto componimento, finiscono per delineare una sorta di poemetto, che prende di volta in volta il tono di una lunga e sofferta Lettera, di una accorata Supplica, di un monologo attraverso cui ricostruire gli eventi che hanno caratterizzato il rapporto con la persona amata, ormai raffigurabili solo sul terreno della Memoria e della Nostalgia, come suonano i titoli di alcune delle sezioni in cui è diviso il volume.
Madre è un libro di grande forza emotiva, una coraggiosa confessione di sentimenti, che si muove tra il ricordo della figura materna dolce e piangente al tempo dell'infanzia e della giovinezza e la sua compassionevole partecipazione nel presente, con la donna si direbbe ancora più vicina dopo la morte, avvenuta ormai in un'epoca che Carifi avverte come irrimediabilmente lontana. Dopo la morte della madre, c'è infatti l'evento che ha segnato come uno spartiacque la vita del poeta: “Dieci anni fa stavo per morire. Poi fui trasportato / in uno spazio di recupero, sprofondato in una sedia a rotelle / e non parlavo più. La notte sentivo che mi parlavi, avresti / voluto piangere o forse era la madre di un bambino morto, / pregavo per te, pregavo per tutti, a volte ti vedevo soltanto io / passeggiare come un'ombra”.
Il poeta intesse un pietoso e implacabile dialogo con la figura materna, a cui senza indugio mostra i segni della malattia che l'ha colpito e che lo costringe in un corpo deturpato. “Le distanze sono infinite, tra te che sei nel Nirvana / ed io che mi trascino in questo letamaio, ma poi / vita e morte sono identici e noi due diventiamo / uguali. Anch'io sono vicino e ti stringerò / come si stringe il Grande Nulla, il vuoto”. O ancora: “Piccola madre, quando sarai pura mente / e mi guarderai a distanza, ricordati di me, / lo sciancato, e passa come un velo / accanto al mio letto, piccola, grande madre / quando sarai nel Grande Vuoto pensa / a questo martirio ed alla Compassione / che mi porto dentro”.
La prossimità della morte, l'aspirazione della parola al silenzio, la comunicazione con un mondo che non è quello terreno, la ricostruzione a tratti diaristica delle epoche della propria esistenza, tutti temi che si presentano più volte nel corso della raccolta, delineano una sequenza dove i piani temporali si confondono, e presente, futuro e passato si intrecciano e si sovrappongono. La lingua della poesia predilige un verso più ampio rispetto a precedenti raccolte, diventando più narrativa, ma allo stesso tempo rarefatta, facendo percepire nella scelta lessicale e nel ritmo utilizzato che l'approdo cercato è quello dell'assenza dei rumori, della serenità e della segretezza. Scrive Carifi, in una delle liriche più intense e sofferte della raccolta: “Quaggiù gli inverni cominciano presto, / e di nuovo le preghiere incontrano il silenzio. / Avrai sentito parlare di questa rovina, / tutto ti apparirà remoto, un'altra storia, un altro tempo. / Lo capisco, Madre, e ti vorrei raggiungere. / Intanto mi sto abituando al silenzio, / ogni giorno mi esercito all'addio”.
La raccolta Madre, proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall'avvicinamento al buddismo, poi dalla malattia. Il linguaggio si è fatto più diretto, senza perdere incisività, le immagini calate in una realtà che quanto più è fatta di oggetti concreti tanto più rimanda ad altro.

pubblicato su Succedeoggi.it



martedì 22 aprile 2014

Un desolante paesaggio (scolastico)

Su La Lettura di domenica 20 aprile, Paolo Giordano annuncia che una serie di scrittori si occuperanno sulle pagine dell'inserto domenicale del Corriere della Sera di quello che a loro avviso è “un tema scottante che riguarda la scuola dell'obbligo”, sul quale avanzare “delle proposte concrete, o per lo meno delle provocazioni che siano costruttive”. Il primo a intervenire è Eraldo Affinati.
Io che scrittore non sono, non vivo facendo questo di mestiere, ma bene o male qualcosa ho pubblicato, insegno da trent'anni e su questo blog mi sono interessato più volte di questioni scolastiche, cercherò di dire la mia. Anche io a puntate, settimana dopo settimana.
Paolo Giordano dice, a ragione, che “quello che abbiamo di fronte non è un grande paesaggio”. Intende che la scuola italiana è alle prese con molti problemi, che negli ultimi anni sono andati ingigantendosi. E' vero. Io però, traducendo in termini reali la metafora del paesaggio scolastico, voglio innanzitutto parlare proprio del luogo dove studenti e insegnanti passano parte delle loro giornate. Insomma il paesaggio delle aule, delle sale insegnanti, dei corridoi, dei bagni all'interno degli edifici adibiti a scuole.
Negli ultimi tempi si è fatto un gran parlare della fatiscenza e della inadeguatezza di tali strutture. Si tratta in buona parte di costruzioni vecchie, realizzate decine di anni fa, o addirittura nate con altri scopi e adattate alle esigenze della vita scolastica.
Il dibattito sui fabbricati si è soffermato sulla loro pericolosità e non ha tenuto conto della bruttura degli ambienti, quasi sempre inospitali, soprattutto quelli destinati agli studenti più grandi. Nessuno di noi gradirebbe passare una parte delle proprie giornate in stanze dalle pareti sbiadite, che prendono luce da finestroni dagli infissi tetri, con tende che ricordano quelle esposte in uffici malridotti degli anni Sessanta, e forse risalgono a quell'epoca. Le mattonelle, solitamente di foggia diversa appena si passa da un ambiente all'altro, sono le stesse che hanno calpestato, una dopo l'altra, generazioni di studenti.
Ma come di fa a insegnare la bellezza delle opere d'arte e letterarie, l'esattezza della scienza, come si fa a porsi domande filosofiche e raccontare il fascino degli spazi diversi dal nostro in un paesaggio così antiestetico? Chi abita quotidianamente all'interno di queste strutture non avrebbe diritto ad altro, anche a prescindere dalla stabilità dei fabbricati e dall'adeguatezza alle norme antisismiche?
Chiunque dovesse entrare in un bagno come quelli che siamo soliti frequentare io e i miei alunni, se fosse collocato non in una scuola ma all'interno di un ristorante, si recherebbe subito dal proprietario per lamentarsene.
E' vero, le scuole erano così anche cinquanta anni fa. Ma mentre allora anche le nostre case erano più brutte, i bar meno accoglienti, i negozi di abbigliamento, le macellerie, gli studi dei dentisti tutti abbastanza sgraziati, ora non è più così. Sono diventati più gradevoli anche gli ospedali e le fabbriche, mentre gli edifici scolastici continuano ad essere dei luoghi abbastanza disgustosi, nel senso proprio che mancano di gusto.
Eppure vivere in uno spazio elegante e confortevole aiuta a essere migliori, ad apprezzare quello che abbiamo intorno, a trascorrere con più entusiasmo le nostre giornate. Perciò il mio primo suggerimento, che non so bene se è una proposta concreta o una provocazione, è rendere più belle le aule delle nostre scuole, farne del luoghi accoglienti.



sabato 19 aprile 2014

IL SANGUE AMARO di Valerio Magrelli (Einaudi)

E' del poeta il fin la meraviglia. Anzi l'obiettivo non è tanto quello di destare stupore nel lettore, quanto di riuscire ancora a meravigliarsi, guardare il mondo con gli occhi di chi indaga e scopre una realtà imprevista, utilizzare i sensi non certo per mettersi alla ricerca del rassicurante e del noto, ma per svelare arcani legami, relazioni nascoste che generano disorientamento e sorpresa. La poesia di Valerio Magrelli si muove da sempre con questa tensione, con l'intento della scoperta che sappia aprire scenari stupefacenti, capace di trovare il meraviglioso nel quotidiano, la rivelazione, a volte suggerita solo da parole che si richiamano nella sonorità, tanto più sorprendente e impressionante perché avviene proprio in quel luogo dove non ci saremmo aspettati altro che visioni ordinarie. Questo modo di procedere, che appare evidente anche nei libri in prosa, sempre più frequenti nella produzione dello scrittore romano, è significativamente accentuato nella nuova raccolta di liriche, Sangue amaro (Einaudi), dove lo sguardo del poeta appare più aperto ad assumere punti di vista diversi dal proprio, che provengono dai personaggi che animano le liriche, e dove la voce è disponibile a confrontarsi con i diversi interlocutori, cui spesso sono indirizzate le parole di chi scrive.
Se il mondo non riesce a stupirsi più di nulla, poiché tutto sembra già accaduto, di ogni avvenimento abbiamo informazioni a sufficienza, tanto che ci sembra di poter dare una spiegazione ad ogni cosa, le indagini di Magrelli suonano dunque come una sfida, che il poeta affronta senza la supponenza di chi ha in tasca una verità da sciorinare, nemmeno con l'energia e il vitalismo di chi è sicuro delle proprie opinioni, ma con il passo lento dell'uomo ancora disposto a fermarsi di fronte alle cose, che sa che per guardare veramente bisogna liberarsi dall'idea che la realtà sia così come sembra e che possa essere svelata da un'occhiata fuggevole. In questo suo nuovo libro, Magrelli avanza verso le sue scoperte con la razionalità vigile e disincantata che da sempre caratterizza i suoi versi, ma anche con il sorriso spesso sconsolato che spinge a ironizzare sulle proprie debolezze e sulle sicurezze altrui. Il risultato è un accorato senso di appartenenza al dolore che lega tutte le esistenze o l'impietosa e rabbiosa condanna che va a colpire coloro che avanzano per la propria strada senza curarsi del malessere comune. Una poesia insomma di afflato civile, anche quando l'attenzione si posa sugli avvenimenti o sui piccoli oggetti della quotidianità.
Emblematica è la poesia Rumore, fa' silenzio!, che apre la sezione intitolata Otobiografia. Attento come sempre ai segnali del corpo, Magrelli comincia col notare che mentre “C'è gente che trova figure / nascoste nella carta da parati / o nelle nuvole”, a lui succede con i rumori. Anzi più nello specifico col vecchio phon che utilizza per asciugarsi i capelli. Sarà l'elica difettosa o i cuscinetti a sfera “ma so che inizia a intonare una trenodia, / o meglio, a sussurrarla sottovoce. // Prima si avvertono solo suoni indistinti, / una folla che fugge, moto che si avvicinano, / ma facendo attenzione / appaiono via via urla, richiami”. E più avanti : “Sento dialetti slavi, minacce, spesso spari: / un giorno sono rimasto ad ascoltarlo quasi dieci minuti / per seguire le fasi di un rastrellamento / in un lontano villaggio dei Balcani”. Il poeta si dice che forse tutto questo è solo “un miraggio uditivo, un'impressione”. Ma non è così, “La verità è diversa: / mentre mi punto alla tempia quell'attrezzo / che sembra una pistola, / viene fuori il racconto di storie terribili, / fucilazioni, il pianto di bambini. / E' come una confessione non richiesta, / una registrazione spedita per errore. / Che c'entro, io, con tutto questo sangue, / io che mi voglio solo asciugare la testa?”.
La poesia di Magrelli costruisce, verso dopo verso, un'impalcatura ordinata e beffarda intorno al lettore, fatta di giochi di parole e di scivolamenti verso la prosa, di volute barocche e di lapidarie sentenze, che costringe a sentirsi meno sicuri, a chiedersi dove finisca la poesia e cominci la gabbia che ci imprigiona. Se il mondo ragiona per luoghi comuni, il poeta tende a scomporli, se è superficiale e disattento di fronte ai valori della convivenza, reagisce con sarcasmo e amarezza. “Meteorologica è l'unica, vera / coscienza che noi abbiamo dello Stato, / immagine sgargiante / di isobare come panneggi / che corrono su una nazione / circondata dal nulla” afferma con contrarietà Magrelli. Di fronte all'annebbiamento collettivo che sembra aver colpito le nostre coscienze, infine non c'è altro che provare strazio e tormento. Nella poesia che dà il titolo al volume, Magrelli scrive: “C'è chi fa il pane. / Io faccio Sangue Amaro. / Che chi fa profilati d'alluminio. / Io faccio Sangue Amaro. / C'è chi fa progetti per lo sviluppo aziendale. / Io faccio Sangue Amaro. / Io mi faccio il Sangue Amaro. / E' una specialità della casa, fin dal lontano 1957”. Che è poi l'anno di nascita del poeta.


(Pubblicato su succedeoggi.it)