lunedì 25 giugno 2012

NISCIUNA VOCE / NESSUNA VOCE di Mario Mastrangelo (Raffaelli Editore)


“Comme po' trase, vulenno, nu senzo / rint' 'o ppoco 'e sti vvite?” (Come può entrare, volendo, un senso / nel poco di queste vite?). Bastano questi due versi che fanno da incipit alla poesia 'O veliero a farci entrare nel vivo della poesia di Mario Mastrangelo e a fornircene una possibile chiave di lettura. In effetti le nostre vite, con il loro carico di fragilità e finitezza, hanno poco senso, o comunque la loro più profonda realtà finisce per sfuggirci e per nascondersi alla nostra comprensione, tanto da apparire come “grumo r'ombra rassignata”. Ma può accadere una specie di prodigio: allora improvvisamente una nuova visuale suggerisce un significato, che appare per un attimo risolutivo. A ben guardare si tratta di un punto d'approdo senza via d'uscita, certo improbabile e vago, così come inverosimile e assurdo è il veliero che noi vediamo dentro una bottiglia e che sembra comunque portare con sé tutta la memoria della sua meravigliosa esistenza, le tempeste, le vele, “'e sciate 'e viento e 'i vole r' 'e gabbiane”. Quel veliero “è passato magnifico e deritto / pe' chi sa quale 'mpruvvisa maggìa, / attraverso nu cuollo 'e vitro stritto”. Allo stesso modo le nostra vite, così inspiegabili e così prive di senso, portano, ognuna nella propria bottiglia, il carico di una incredibile verità.
Mario Mastrangelo è salernitano e scrive nel dialetto della sua città. Nisciuna voce Nessuna voce (Raffaelli Editore) è la sua settima raccolta di versi: si compone di trentasette liriche in doppia versione, dialettale e italiana, e si avvale di una nota introduttiva di Franco Loi.
La poesia di Nisciuna voce è soprattutto speculativa. Mastrangelo tende a indagare, a penetrare nel mistero del vivere, che è evidente innanzitutto nelle piccole cose che ci circondano. Il dialetto non si affida pertanto al gioco facile di una ricerca prevalentemente ritmica e musicale, né indulge nei toni leggeri e comici a cui viene ai nostri giorni spesso associato e relegato, ma è grumo consistente, ha pesantezza fisica, e conduce la poesia sul terreno, spesso impervio, e nei tempi rallentati della riflessione.
La vita è incanto, si diceva, scoperta continua. Può accadere che le gocce d'acqua, che durante un temporale rimbalzano violentemente sul selciato, generino una schiera di folletti (“na folla 'e munacielle”), che campano per un momento solo, “busciardo e misteriuso”. Per guardarli attraverso la finestra, sulle lastre appannate apriamo un varco di trasparenza con le dita (“cu 'e dete 'e trasparenza nu purtuso”). La poesia di Mastrangelo sembra offrire proprio questo varco di trasparenza, si pone come uno spiraglio che lascia intravedere una realtà che si mostra timida e quasi priva di consistenza, abitata da creature evanescenti, che non si sa se vere o frutto solo di svista o miraggio.
Del resto, scrive Mastrangelo in un'altra lirica, c'è un'altra realtà “miscata a chella toia”, una realtà che ubbidisce ad altre leggi e che comunque è presente nelle nostre esistenze, mette paura e sconcerto “pe' tutt' 'e labirinte r' 'o cerviello / quanno capisce ca tu, sì, staie ccà, / però appartiene anema e corpo a chella”. Insomma c'è un'altra realtà a cui noi apparteniamo senza rendercene conto.
In effetti il tempo è “cernicchio” (setaccio), che lascia passare solo la sabbia sottile, tanto che ci ritroviamo presenti alla nostra fragilità, quando arriva “'o scumpiglio r' 'e ventate” e noi “simmo già quase 'e polvere, / simmo già quase 'e cielo”. La vita sembra sapere qual è la sua meta lontana, che a noi sfugge, noi comprendiamo solamente che “nel mistero la vita si completa”.
Se ci fosse ancora qualcosa “rinto 'o suppingo” (in soffitta), “uno putesse fravecà nu Dio” (uno potrebbe costruirsi un Dio), o se ci fosse almeno un po' di pane nella credenza, si potrebbe farlo di pane, “nu Dio 'e pane, buono finalmente”, ma anche la credenza è vuota e l'uomo rimane solo nella sua ricerca, con le sue speranze e le relative delusioni.
Mastrangelo procede con passo sicuro, esplora la realtà, la rivolta e la scruta alla ricerca di una risposta che non arriva, ma che in fondo è già di per sé sufficiente a darci, leopardianamente, ragione della nostra presenza.
             

sabato 23 giugno 2012

Pontremoli: la scuola è bocciata


Confesso: ho cercato sull'atlante, come si faceva una volta. Voglio la concretezza del foglio di carta, dei colori, il verde per le pianure, il marrone per le montagne, gli stessi di quando frequentavo le elementari. Voglio essere sicuro che sia proprio lì, dove ricordo. In Italia, a un passo dal Mediterraneo, ma nemmeno troppo lontana dal cuore moderno dell'Europa. Pontremoli in effetti è dove è sempre stata, in Lunigiana, tra Toscana e Emilia, uscita dell'autostrada A15, che da La Spezia porta a Parma.
In una classe di Pontremoli sono stati bocciati cinque ragazzi. Non sarebbe una gran notizia, se non fosse che si tratta di una prima elementare. Due italiani (uno disabile), tre figli di stranieri. Così sottolineano i giornali (che, in verità, parlano, forse più precisamente, di “tre stranieri”). Una scuola che costringe l'informazione a prodursi in una classificazione di questo genere ha già fallito. I cinque bambini sono stati bocciati due volte: lo scrutinio finale infatti è stato ripetuto su richiesta del Ministero.
E' stato presentato un ricorso al Tar, insomma ci sarà una battaglia legale, e qualcuno alla fine si pronuncerà sulla correttezza formale delle bocciature. Ma il problema mi pare sia un altro. E riguarda, più in generale, la scuola e l'idea di formazione degli studenti (e di educazione, parola oggi in disuso) che ne è alla base.
Il preside dell'istituto che ha bocciato i cinque bambini dichiara oggi a Quotidiano.net che le motivazioni della non ammissione sono da ricercarsi nel “mancato raggiungimento degli obiettivi minimi di apprendimento, scrittura, lettura e calcolo”, ma ha anche influito “la poca maturità riscontrata negli alunni”. Su La Repubblica leggo invece che in un dettato svolto a maggio nella prima A sono risultati “insufficienti” il 41 per cento degli alunni, nella sezione B il 65 per cento. Verrebbe fatto di pensare che forse gli obiettivi minimi erano sbagliati e che la parola insufficiente affibbiata ai compiti di alunni di una classe prima non sia la più adeguata. Mi verrebbe da dire che una scuola che cerca la maturità in bambini di sei anni ha forse poco compreso il proprio ruolo e i propri compiti, che sono appunto quelli di aiutare gli alunni a crescere e a maturare, e non a giudicare il grado di maturità di chi, per definizione, non può essere ancora maturo. Ma forse la penso così solo perché credo che la scuola debba comprendere prima di misurare freddamente, essere disponibile al dialogo invece che arroccarsi dietro formule distanti e spesso vuote di significato, e oggi invece si tende a voler dimostrare che la scuola è innanzitutto luogo austero e irto di difficoltà, scambiando l'intransigenza per autorevolezza.
Il dirigente scolastico tiene anche a sottolineare (la fonte è ancora Quotidiano.net) che le insegnanti, “riconfermando la decisione già assunta per il bene degli alunni, hanno dimostrato grande serietà e deontologia professionale”.
Non avevo dubbi. Il richiamo alla serietà lo aspettavo. Nella scuola degli ultimi anni “serietà” è parola ricorrente. Ma quando è che un insegnante e la scuola con lui dimostrano “grande serietà”? Quando si boccia, sembrerebbe. Serietà è spesso sinonimo si selezione e di distinzione, di rigidità e durezza. Ma è più seria la scuola che guarda davanti a sé e continua imperterrita il suo percorso verso il raggiungimento degli obiettivi (spesso sempre gli stessi, anno dopo anno), anche se buona parte dei suoi studenti non riesce a raccogliere la sollecitazioni, o quella che prova a far crescere tutti i ragazzi che le sono affidati, che si guarda intorno e ammette, quando è il caso, anche i propri sbagli?
Va da sé: la decisione della non ammissione alla classe seconda elementare è stata assunta “per il bene degli alunni” e dunque tutto questo discorso si vanifica. Infatti, come dice la legge, nella scuola primaria i docenti, con decisione assunta all’unanimità, possono non ammettere l’alunno alla classe successiva solo in casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione(art. 3 legge 169/2008). E qui, diciamolo, qualcosa di eccezionale sicuramente c'è. Ma non riguarda i cinque bambini di Pontremoli.



venerdì 15 giugno 2012

Alberto Bertoni: la poesia a scuola è materia museale


I bambini riescono a costruire un rapporto diretto con la poesia, per la quale manifestano attitudine e capacità di comprensione che potremmo definire fisiche. Infatti le costruzioni linguistiche proprie del linguaggio dei versi “sgorgano in loro spontaneamente”. Non appena però la poesia approda alla scuola secondaria, “diventa disciplina, programma obbligato e svogliatamente svolto, materia museale, storia della poesia”. Allora il rapporto si incrina, spesso irrimediabilmente, e “quella spinta giocosa e istintiva impallidisce e declina, diventa peso, fatica, archeologia del linguaggio, modo ampolloso e complicato di ornare concetti semplici”.
A partire da queste riflessioni si sviluppa il primo capitolo di La poesia contemporanea, il libro del poeta e critico letterario Alberto Bertoni appena pubblicato per i tipi de Il Mulino. La questione dell'insegnamento della letteratura e della poesia, in particolare nelle scuole secondarie, è in effetti l'inevitabile punto di avvio di ogni discorso che voglia analizzare il posto che occupa la poesia nella percezione sociale. Ne ho spesso parlato in questo blog, in quanto ritengo che oggi i poeti non possono continuare a considerare il problema della fruizione della poesia (e quello, per così dire ad esso associato, dell'assenza di lettori) come non degno di una loro attenta valutazione, una problematica che tende cioè a sviarli da altre e ben più significative meditazioni.
Alberto Bertoni con la consueta chiarezza sviluppa un accurato ragionamento, assolutamente necessario se si vogliono poi approfondire altre questioni di natura più squisitamente critica sulla presenza della poesia nella società contemporanea.
Sta di fatto che quando agli insegnanti si chiede di fare il nome di un poeta dei nostri giorni, fa seguito solitamente un silenzio deciso, nemmeno tanto imbarazzato. E' evidente dunque che “il venir meno della coscienza e della cognizione dell'esistenza e della necessità di una poesia contemporanea, oggi in Italia, concerne e coinvolge il corpo docente molto più e molto prima di quello discente”.
Una nebbia diffusa nasconde, agli occhi della maggior parte degli abitanti del nostro paese, anche di coloro che a vario titolo si occupano di argomenti culturali, l'esistenza di una poesia dei nostri giorni. Le cause vanno cercate certamente nella progressiva incapacità, particolarmente evidente nelle generazioni più giovani, di trovare piacere nella lettura concentrata e solitaria, ma anche in una sorta di venir meno di quella che Bertoni giustamente definisce la destinazione sociale della poesia. La poesia infatti può presentarsi in maniera complessa e profonda, ma non può rinunciare alla sua natura comunicativa, la sua parola è “condannata a svanire subito, se non raggiunge l'Altro”. “Aborrisco – scrive Bertoni – un'idea chiusa della poesia: l'idea di un'operazione segreta, misticheggiante, limitata alla setta degli 'eletti', autoreferenziale”.
Del resto se anche siamo di fronte ad un “analfabetismo di ritorno indotto dagli abusi mediatico-televisivi e da un potere che, anche nelle nostre democrazie occidentali, favorisce e provoca in tutti i modi gli esercizi più perfidi e subliminali di distrazione collettiva”, è altrettanto vero che “la poesia – se trasmessa con competenza e passione – può essere un genere tutt'altro che estraneo alle nuove modalità recettive”. Perché la nostra società si riappropri delle sue voci poetiche è necessario che l'insegnante sia egli stesso, in primo luogo, come lo definisce Bertoni, un “Lettore autentico”. Credo inoltre che un ruolo importante potrebbe spettare agli stessi poeti, se solo avessero voglia di mettersi maggiormente in gioco e di proporsi come interlocutori delle istituzioni scolastiche. Nelle scuole secondarie si assiste oggi a un paradosso: nei primi anni si parla di poesia forse più di qualche anno fa, ma si riduce l'attenzione a una fredda, e spesso inconcludente, analisi di figure retoriche, a una scomposizione meccanica, che si conclude inevitabilmente con un questionario a punti. Si privilegia poi un approccio del tutto cronologico, che tende a inserire i singoli autori (di cui si leggono pochissimi testi) in una dimensione storica. E la storia, per quanto riguarda la poesia, si conclude con Montale. Il resto è avvolto nella nebbia, da cui emerge qua e là qualche nome, a volte, se si ha fortuna, qualche verso. 
La poesia rimane così spesso lontana dalle aule scolastiche.