martedì 9 aprile 2013

Padri e figli, naviganti infelici


La rivista GeaArt, diretta dal critico d'arte Massimo Bignardi, mi ha chiesto di scrivere sul tema L'isola non trovata. Questo è il testo pubblicato sul n. 4 del bimestrale di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative.


In uno scritto che risale “ai primi giorni del '75”, come indica lo stesso autore, pubblicato poi postumo l'anno successivo ad apertura delle Lettere luterane date alle stampe da Einaudi, Pasolini delinea un ritratto dei giovani di quegli anni. “I loro occhi sfuggono – scrive -, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto ai loro coetanei di dieci o vent'anni prima, ma non abbastanza”. Hanno per esempio un bagaglio linguistico più ampio e corretto, ma “se da una parte parlano meglio, ossia hanno imparato il degradante italiano medio, dall'altra sono quasi afasici”. Pasolini, facendo riferimento a quello che considera uno dei “temi più misteriosi del teatro greco”, si chiede quali siano le colpe dei padri che sono ricadute sui figli, determinando il loro destino.
Lo scritto, che ha titolo I giovani infelici, rappresenta un mondo giovanile non tanto distante da quello attuale, almeno nella dose di infelicità e di miseria che aggrediscono lo spirito. Malgrado l'aspetto esteriore, che dà conto di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita, i giovani “sono regrediti – afferma il poeta de Le ceneri di Gramsci – a una rozzezza primitiva”. E' una condizione che scopriamo anche nei nostri figli. La somiglianza di quella generazione con coloro che oggi occupano le piazze notturne del divertimento, che mostrano con orgoglio le creste, le capigliature scolpite, pone anche noi, dunque, di fronte alla stessa domanda che ipotizza Pasolini: qual è la nostra parte di colpa? quale quella dei nostri figli?
I “giovani infelici” di oggi parlano meglio l'italiano, più speditamente e con maggiore sicurezza, e di certo hanno a disposizione la conoscenza di più lingue straniere; attraverso l'inglese possono comunicare con gli abitanti di buona parte del mondo. Sono più ricchi, il loro tenore di vita li pone in una situazione di maggiore serenità e agiatezza di quella delle generazioni che li hanno preceduti, eppure, siamo portati a dire con Pasolini, che essi non hanno “niente di personale che li caratterizzi di dentro” e che “la stereotipia li rende infidi”.
Qual è dunque la nostra colpa di padri? Quella, potrei dire, di aver fatto più grande l'universo e più piccolo il mondo, di aver ridotto, fino ad annullarla, la fatica degli spostamenti e, con essa, quella della conquista, di aver reso uguale il distante, di aver decretato che anche la felicità (per i nostri giovani infelici, figli di padri a loro volta infelici) ha sempre il volto del benessere e della soddisfazione che si ottiene attraverso il possesso dei beni, anzi di quei beni non necessari alla vita ma che risultano fondamentali per il riconoscimento sociale.
Abbiamo reso facile la navigazione verso sponde remote.
In questo modo siamo arrivati ben oltre le consuete rotte della navigazione, rendendo presente quello che era lontano e anticipando il futuro. Abbiamo insomma occupato tutte le isole, un attimo prima che i nostri figli nascessero. Abbiamo creduto che la nostra scienza, ed anche la consapevolezza e l'impegno politico, fossero in grado di condurci ovunque, rendere possibile ogni traguardo. Colpa ancora più grave, abbiamo fatto credere che l'Isola Non-Trovata non esiste.
L'isola per cui “invano le galee panciute a vele tonde, / le caravelle invano armarono la prora”, quella che “appare talora di lontano / tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero”, come scrive Guido Gozzano nella poesia La più bella!, si è forse per sempre inabissata, o peggio ha perso il suo aspetto favoloso, non scivola più sui mari. Su di essa non più “svettano palme somme”, né “odora la divina foresta spessa e viva, / lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...”. Insomma quell'isola, obiettivo politico e sociale nell'azione dei padri, prospettiva utopica ma in fondo insopprimibile del loro sforzo ad essere migliori, è priva ormai del suo misterioso segreto, è diventata a tutti accessibile.
La metafora della navigazione è oggi soprattutto abbinata all'uso della rete informatica, è usata per indicare la traversata nel mare di internet, oceano confuso e sorprendente, ma che tende a mostrare ogni approdo come già praticato. Le isole affioranti sono facilmente raggiungibili, ricche di lidi invitanti e di una vegetazione lussureggiante, ma tutte già occupate. Le attività dei decenni precedenti sembrano aver già tutto risolto, previsto, messo in ordine.
Il secolo che abbiamo sempre considerato breve allunga di fatto la sua ombra persistente fino al secondo decennio del nuovo millennio, negando il futuro a padri e figli. Il futuro è quello che non è dato conoscere, è lontananza nello spazio e nel tempo, ed è lì che si mostra, per poi nascondersi, l'Isola Non-Trovata.
Infatti 
 “se il piloto avanza, / rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell'azzurro color di lontananza”.

martedì 2 aprile 2013

Leggere poesia: Billy Collins e il topo


I lettori di poesia nel nostro paese, si sa, sono pochissimi. E' possibile fare qualcosa perché il loro numero cresca? Bisogna lavorare sui giovani, diranno in tanti: è la scuola che deve formare i nuovi lettori. Non sono sicuro che l'insegnamento della letteratura, e della poesia in particolare, così come è stato concepito negli ultimi anni, possa realizzare questo obiettivo. Anzi, sono portato a credere che i pochi lettori di poesia siano tra coloro che non si sono lasciati fuorviare dalle lezioni scolastiche sulla poesia.
Billy Collins
Eppure a scuola viene dedicato parecchio tempo allo studio del linguaggio poetico, oggetto di indagine accurata per esempio nel primo biennio della scuola superiore. I libri di testo propongono la propedeutica acquisizione dei più importanti strumenti retorici, distinguendo tra figure del significante, del significato, dell'ordine delle parole, quasi che senza di queste non fosse possibile accedere alla lettura. Bisogna inoltre essere in grado di scomporre i versi in sillabe, sapere di sinalefe, dialefe, sineresi, individuare lo schema metrico, la successione degli accenti ritmici. Su ogni cosa vengono proposti esercizi, noiosi e in gran parte inutili. Gli insegnanti, raramente lettori di poesia che non sia quella delle antologie e dei manuali scolastici, quasi mai di poesia contemporanea, non possono che concedersi alle indicazioni del testo.
Gli alunni ricavano l'idea che la poesia per sua natura sia decifrabile (e innanzitutto che vada decifrata) solo se in possesso di determinati strumenti di decodifica, che sono di natura tecnica e del tutto indipendenti dalla sensibilità del lettore e dalla sua familiarità con la poesia stessa. Invece, come ogni lettore di poesia sa, c'è bisogno di una quotidiana consuetudine con i versi per comprenderne la musica e la complessità.
Per questo a scuola andrebbero innanzitutto lette tante poesie. Ai ragazzi bisognerebbe farlo ogni volta ad alta voce, permettendo loro di apprezzarne, in questo modo, anche le qualità metriche e sonore. Solo dopo tanta lettura e tanti versi detti a se stessi e agli altri, si può cominciare a giocare con le figure retoriche, molte delle quali saranno già chiare prima di saperne il nome e i meccanismi di funzionamento. Conoscere tali strumenti retorici non significa comprendere la poesia, tanto meno saperla scrivere, ma avere la possibilità di penetrare più in profondità nei suoi strati di significazione, una volta appurato che essi esistono e sono carattere essenziale dei versi.
Il lavoro scolastico produce il risultato che i ragazzi si avvicinano ai versi con l'idea, del tutto impropria, che ci sia un significato definitivo nascosto da qualche parte, che la poesia voglia dire altro da quello che leggiamo.
Alla poesia non ci si può avvicinare armati di sonde e scandagli. Il tesoro, se c'è, non è collocato in un luogo preciso, piuttosto è disseminato e si confonde con oggetti abituali e quotidiani. Meglio dunque procedere con la curiosità e il piacere di chi vuole farsi guidare in nuovi mondi, sapendo che la scoperta consiste proprio nel variare continuamente prospettiva e meta. Perché i versi ci dicano qualcosa bisogna “gettare un topo nella poesia / e osservarlo mentre cerca di uscire”.
La bella e preziosa immagine, più forte e chiara di tutte le mie precedenti parole, è di Billy Collins, poeta newyorchese tra i più amati negli Stati Uniti, autore di numerose raccolte di versi, professore di letteratura inglese al Lehman College della City University di New York.



Introduzione alla poesia

Chiedo loro di prendere una poesia
e di tenerla in alto controluce
come una diapositiva a colori

o di premere un orecchio sul suo alveare.

Dico loro di gettare un topo nella poesia
e osservarlo mentre tenta di uscire,

o di entrare nella stanza della poesia
e cercare a tentoni l'interruttore sul muro.

Voglio che facciano sci d'acqua
sulla superficie di una poesia e salutino
con la mano il nome dell'autore sulla spiaggia.

Ma la sola cosa che loro vogliono fare
è legarla con una corda alla sedia
e estorcerle con la tortura una confessione.

La picchiano con un tubo di gomma
per scoprire che cosa davvero vuol dire.


La lirica Introduzione alla poesia è tratta dal libro The Apple That Astonished Paris del 1988, in Italia inserita nella antologia A vela, in solitaria, intorno alla stanza, edita da Medusa nel 2006 a cura di Franco Nasi che è anche il traduttore dei versi. I versi raccontano del lavoro del professore poeta e delle aspettative degli studenti di fronte alla poesia.
Di Billy Collins nel 2011 l'editore Fazi ha pubblicato Balistica.