giovedì 30 gennaio 2014

QUANDO AVRO' TEMPO di Anna Maria Carpi (Transeuropa)

Il nuovo libro di poesia di Anna Maria Carpi, Quando avrò tempo, pubblicato come il precedente L'asso nella neve da Transeuropa, contiene, camuffata da cronaca di una serata di poesia, una dichiarazione di poetica in negativo. L'aria è spettrale, le vie deserte, è tardi, già le dieci passate. Anche in sala la gente è poca, le luci rade. La Carpi è spettatrice della lettura e non sa capire “ciò che vogliono dire questi giovani / o solo mezzi giovani nati ormai nei 70”. La conclusione è amara: “E' come in una chiesa sconsacrata, / è un rosario / di non credenti, recitano cose proprie e arcane. / Chiedere cosa intendono? / A occhi bassi ascolti / e ti guardi le mani.”
La poesia di Anna Maria Carpi si muove su strade opposte. Evita che la parola precipiti in un arcano insondabile per il lettore, rifiuta di muoversi in zone private e dunque inaccessibili, cerca sempre il conforto di una situazione esterna con cui dialogare, è disposta a credere e a farci credere che le proprie personali inquietudini abbiano valore solo se si consegnano a un tempo che non è quello unicamente di chi scrive. C'è una costante nella poesia della Carpi, ed è proprio la grazia con cui dialogano l'interno con l'esterno, l'interiorità del poeta con gli eventi, grandi o piccoli che siano, del mondo reale. Con un passo delicato e partecipe gli oggetti e le circostanze della vita quotidiana s'immergono nell'intimo delle nostre giornate, animano il corpo, si siedono nei pensieri.
In Quando avrò tempo la presenza degli altri, spesso animali, ancor più spesso uomini e donne estranei all'io che scrive, visti semmai una volta soltanto, serve a ricordare lo scorrere inesorabile delle ore, e che la nostra vita si muove tutta all'interno della consapevolezza della caducità di ogni cosa, pur nella ricerca di un assoluto che non è però raggiungibile, di un tempo “senza tempo” che possiamo solo desiderare, di uno spazio vitale remoto e incontaminato. Gli storni che volano all'impazzata quasi fossero stati lanciati da una mano gigante, “sbandano, ritornano, / nel loro giubilo d'essere nessuno”. La loro incoscienza ci pone di fronte alla nostra condanna: “Tutti via, poi il gioco ricomincia, / il gioco in alto, al freddo, senza tempo. // Non c'è gioco per noi, noi giù nel tempo / per le vie del quartiere”.
Verso gli altri l'io poetico indirizza il proprio sguardo amico, un anelito di speranza. “I cari altri” sono tutti quelli che sono “a due passi da me e non mi vedono, / non sanno che ci sono, / che sogno e in sogno parlo con loro, / e che non c'è la morte / se non ci viene tolto di parlarci”. Ma è anche vero che la spinta verso l'esterno deve fare i conti con una realtà desolante e per nulla consolatoria. Il mondo è fatto spesso di silenzi e dell'impossibilità di comunicare: “ora è tutto un tacere, / domandi e non ti ascoltano e tu stesso / se ascolti l'altro è alla svelta e per calcolo.”
Anche di fronte alle affermazioni più crudeli, agli atti inconsulti e perciò devastanti, la parola di Anna Maria Carpi sembra possedere una lente filtrante che rende immacolate le nostre miserie, anche se non per questo esse appaiono meno assurde e terribili. Il mondo che ci viene presentato è fatto di relazioni laceranti e comunque prive di senso, di aeroporti dove voli in ritardo mettono a nudo la mediocrità di uomini con il mondo sul tablet, che ad ogni istante guardano l'orologio e che non riescono più a godersi un attimo di ozio; o ancora di navi da crociera immense, “quei lenti mostri che oscurano il sole” e sulle quali è possibile vivere una “immortalità di pochi giorni”.
La Carpi non si adatta al male del mondo, sa che non c'è via di uscita eppure continua a crederci, o finge di farlo. Ci saranno occasioni in cui tutto potrà accadere, “quando avrò tempo dico / e so che non l'avrò”. Anche della mancanza della possibilità di dare un senso all'esistenza possiamo sbarazzarci con un gesto gioioso, con l'inconsapevolezza propria degli animali, volgendoci dall'altra parte: “Tenetevi per voi la vostra fine, io non ci credo. / Verrà una sera di temporale / di lampi e tuoni sopra la casa, / sulla mia via che finisce sul parco, / la mia stanza, il silenzio, la mia intatta / capacità di gioia. // Che è la fine se non un girarsi / dall'altra parte, dove il guanciale è fresco?”.

pubblicato su succedeoggi.it

lunedì 20 gennaio 2014

COME FRATELLI di Andrea Carraro (Barbera Editore)

Andrea Carraro
I protagonisti di Come fratelli sono Andrea e Dario, i due amici che il narratore segue, con occhio impietoso e sempre partecipe, dalla fine dell'adolescenza fino alla morte di Dario, fino a quando cioè lo scrittore Andrea comincia a raccontare la vita dell'amico in un romanzo biografico, che poi sembra essere proprio quello del quale noi lettori in quel momento stiamo per terminare la lettura. I due amici sono persone diverse per carattere ma egualmente inquiete, perennemente in bilico lungo i margini di un'esistenza che vorrebbero cogliere in tutta la sua pienezza, ma che crudelmente e inevitabilmente sfugge loro. Andrea è capace di trovare un proprio equilibrio, anche se questo comporta la rinuncia ai sogni e alle passioni, ma la smania inespressa continua a intravedersi sottopelle; Dario insegue aspirazioni sgangherate e illusorie, ideali tanto attraenti quanto posticci, fino a diventare un predicatore televisivo di una religione da lui stesso inventata, che guarda a Xiva come al luogo della beatitudine e della realizzazione di ogni utopia. Ed è forse proprio quello dell'utopia, dell'impossibilità anzi di realizzazione di ogni progetto di trasformazione del reale, per una generazione che ne aveva fatto il simulacro intorno al quale costruire le proprie azioni, il terreno sul quale si muovono le storie e le frustrazioni dei due amici.
Andrea continua a seguire quasi con accanimento le vicende esistenziali dell'amico, anche quando la loro fratellanza si frantuma sotto i colpi di una età adulta che porta entrambi a non riconoscere l'altro, se non nel deragliamento fallimentare delle aspettative e nello sfilacciamento della confidenza che li aveva resi vicini.
Attraverso lo sguardo ormai disincantato di Andrea e le azioni spesso caotiche che vedono protagonista Dario, Andrea Carraro ci porta all'interno delle vicende italiane degli ultimi anni, senza raccontarcele direttamente, se non in trasparenza, e senza emettere giudizi, ma facendone chiaramente percepire gli effetti. Gli ultimi decenni del Novecento e il primo scorcio del nuovo millennio conducono la società italiana a prodursi in una sorta di cattiveria maldestra e viscida, in una progressiva ricerca di soluzioni facili e di ideali comodi e sconclusionati, così come assurdo e senza costrutto è il percorso religioso che conduce Dario ad una notorietà che lo mette a capo di una schiera di seguaci inconcludenti e confusi, non si sa bene se tanto furbi da credere al loro disordinato messaggio solo per ricavarne un vantaggio, o tanto ingenui da cercare dio dove c'è solo falsità e sciocchezza. Nelle pagine di Come fratelli si intravede un paese cialtrone e ciarliero, schiavo di un delirio mediatico che colpisce indistintamente tutti e non permette più di vedere l'assurda realtà nella quale siamo precipitati.
Ed è proprio la realtà con le sue incongruenze e i suoi legami sconnessi, con le sue fragilità, con la consumata e ormai abituale volgarità, a diventare il centro della narrazione di Andrea Carraro, che non mette ripari per il lettore, non lo difende, ma anzi lo lascia nel pieno del marasma di un paesaggio umano snaturato e senza più equilibrio. Anche per questo la lingua della narrazione non nasconde i mali comunicativi dell'epoca, ma li riproduce, lasciando campo ad un parlato ordinario e ostentatamente inelegante. Carraro racconta una società metropolitana, quella romana in particolare, con un proletariato che non sa più di esistere e una borghesia che non si concede alcuna possibilità di riscatto e vive con rassegnata indolenza la propria incapacità di offrire un senso all'esistenza, che non sia quello della fuga o della disperazione.

(pubblicato su Giudizio Universale)

sabato 4 gennaio 2014

La poesia non si vende

Wisława Szymborska
La poesia non si vende. Sembra non sia possibile cominciare un discorso sulla poesia prescindendo da questa affermazione. Lo fa oggi su Repubblica Walter Siti, ricordando, proprio ad inizio di articolo, che “la poesia è un'aria depressa”. Pochi gli editori che se ne occupino, e di solito evitando l'impegno di un'accettabile distribuzione, pochi i lettori. Resta però da capire quali delle due povertà sia conseguenza dell'altra.
Siti annuncia che ogni domenica per un anno sulle pagine dello stesso quotidiano rileggerà un classico della poesia lirica. Operazione benemerita, ma che probabilmente non servirà a niente. Perché, come del resto dice lo stesso autore di Resistere non serve a niente (appunto!), gli unici libri di poesia che danno buoni esiti editoriali sono da ricercarsi tra i classici, in particolare tra i poeti più celebrati del secolo scorso. Cioè in buona parte tra gli autori che saranno interessati dal progetto di Siti. Del resto, qualche anno fa lo stesso quotidiano mise in vendita, insieme al giornale, una serie di libri di poesia (partendo, se non ricordo male, da Neruda, ovviamente, Garcia Lorca e Montale). Va da sé che all'interno del quotidiano, anche in quel periodo, era difficile leggere la recensione di un libro di poesia di un autore contemporaneo. Insomma, mi impegno nella diffusione della poesia, basta non sia quella che si scrive oggi.
Walter Siti
La poesia non si vende, ma è pur vero che manca da decenni una seria politica editoriale in proposito. L'impressione è che le collane di poesia, sempre più sparute, dagli editori maggiori siano considerate quasi un obbligo morale o la modalità di contropartita di qualche vantaggio realizzato in altro settore, per cui inutile investirci più di tanto; dagli editori minori siano vissute come un ripiego, un mezzo di sopravvivenza, un luogo, come dice Siti, “dove i poeti se la cantano e se la suonano”.
La poesia non si vende, ma su di essa si investe poco, quasi niente. Eppure basta che Saviano una sera legga la Szymborska in prima serata e le traduzioni italiane della poetessa polacca balzano in classifica a fianco dei soliti Camilleri e Fabio Volo.
Dice Siti che “il pop e il rock hanno raccolto il bisogno inesauribile di musica verbale, di rimare e ritmare le emozioni”. Se questo bisogno è inesauribile, sarebbe necessario capire se ancora qualcuno tra coloro che scrivono poesie sia in grado ancora di rappresentarlo. Chi è tra i poeti italiani che ancora sa parlare ai lettori, che è capace di interpretare l'urgenza di una parola che sappia dire anche musicalmente? La risposta dovrebbero fornirla gli editori, i critici, gli organi di informazione.