mercoledì 30 luglio 2014

I libri che non si leggono

Tullio De Mauro interviene su Repubblica, con una lettera a Corrado Augias, in merito a una discussione sull’uso corrente della lingua italiana. Scrive tra l’altro De Mauro: “Negli ultimi decenni la vita sociale ci ha spinto ad acquistare l’uso parlato della lingua, ma non a leggere. La scuola di base ha svolto e continua a svolgere un grande lavoro, ma non così la scuola media superiore. Questa e poi l’università hanno ignorato e ignorano la pratica estesa della lettura e della scrittura come parti integranti e abituali dello studio. In queste condizioni è inevitabile che l’italiano parlato sia per molti un italiano orecchiato, ma non ben posseduto. Tale resterà finché scuola media superiore e università non cambieranno registro e finché i libri non entreranno nella nostra vita quotidiana”.
Tullio De Mauro
Tullio De Mauro
L’esperienza di insegnamento dell’italiano nella scuola superiore conferma queste affermazioni. I ragazzi di oggi parlano di solito in maniera sciolta e anche sostanzialmente corretta e precisa, ma scrivono in modo confuso, e comunque con risultati comunicativi al di sotto della loro espressione orale. Inoltre si trovano in difficoltà di fronte a un romanzo appena più complesso, linguisticamente o per costruzione narrativa.
E’ vero, a scuola si legge con estrema parsimonia. Non sono pochi gli studenti che arrivano all’esame di Stato senza conoscere integralmente nessuna delle opere sulle quali pure discorrono di fronte alla commissione. Gli insegnanti di scuola superiore, ormai irretiti dalle pastoie burocratiche e avviliti da riforme che li hanno allontanati dalla sostanza dell’insegnamento, sembrano aver dimenticato che la materia fondante della letteratura non sono le informazioni sulle opere, ma le opere stesse, i libri cioè, che spesso in aula entrano solo nella versione libro di testo.
Nella sua risposta alle “note” di De Mauro, Augias se la prende con la gara suicida tra destra e sinistra, a colpi appunto di riforme scolastiche, che “volendo dare all’istruzione maggiore ‘democrazia’ ha in realtà reso gli studi non più facili ma più faciloni”. Non so se l’affermazione di Augias risponda a verità (la questione andrebbe opportunamente approfondita: la scuola secondaria superiore offre molti più contenuti di qualche decennio fa, a scapito però dell’approfondimento), ma sicuramente non centra l’argomento. Il problema infatti non è se la scuola sia più o meno “facile”, ma se riesca, nello specifico nell’insegnamento della letteratura italiana, a generare curiosità nello studente, e se sia in grado di riportare il libro al centro del processo educativo.
Bisognerebbe che gli insegnanti trasmettessero la loro passione per la lettura (quando c’è) e che dimostrassero, prove alla mano, che il termine letteratura non comporta unicamente uno sguardo sul passato remoto. Due primi passi sono dunque possibili: leggere molto in classe insieme agli alunni e confrontarsi sui testi letti; indirizzare verso autori contemporanei lo stesso impegno destinato alle opere del passato. Che senso ha leggere Giambattista Marino e l’Alfieri, e non aver mai preso tra le mani un libro di Penna o di Caproni, nemmeno sapere che esistono Magrelli e la Cavalli? Come si fa a “possedere” la lingua se non si conoscono le opere di coloro che attualmente la nostra lingua smontano e rimontano?

lunedì 21 luglio 2014

LE POESIE di Roberto Mussapi (Ponte alle Grazie)


Gli esordi di Roberto Mussapi risalgono alla metà degli anni Settanta con la partecipazione alla rivista Niebo e successivamente con la pubblicazione nel 1979 delle poesie de I dodici mesi nei Quaderni della Fenice di Guanda, poi confluite in La gravità del cielo del 1984. A distanza di trenta anni da qual primo libro di versi, l'editore Ponte alle Grazie dedica ad una delle voci poetiche più significative e più originali degli ultimi decenni il volume Le poesie, che include tutti i versi fino a L'incoronazione degli uccelli nel giardino e a Il capitano del mio mare, i due poemetti di più recente pubblicazione destinati al pubblico dei ragazzi. La raccolta di oltre 500 pagine è introdotta dagli scritti di Wole Soyinka e di Yves Bonnefoy e si avvale di un ampio e circostanziato contributo critico di Francesco Napoli, fondamentale per sviluppare una riflessione generale sull'opera di Mussapi.
Mentre la voce dei poeti contemporanei spesso si muove all'interno di un paesaggio essenzialmente esistenziale, e a volte ripiega su un io claustrofobico, la poesia di Mussapi, anche quando si sviluppa a partire da un dato legato all'esperienza, trasforma presto l'evento in una conoscenza che trascende la sfera individuale. Il lettore è chiamato a partecipare alla ricostruzione di una sorta di memoria comune, di un archetipico sentimento del mondo e della vita, che va in qualche modo dissotterrato, liberato dalle incurie e dalla superficialità in cui l'ha costretto il nostro vivere quotidiano. La poesia in Mussapi è azione di scavo: riporta in luce qualcosa che ci appartiene nel profondo, le nostre comuni verità nascoste, come appunto in ogni tempo avviene nella poesia di carattere epico. La poesia libera gli oggetti e gli eventi dalle incrostazioni che li appesantiscono e li opprimono, e questi, una volta affrancati, non solo appaiono più leggeri, ma diventano altro da quello che erano, propongono una nuova storia, mirano a una verità che non ci aspettavamo.
La lingua di Mussapi accenna alla prosa ma sempre se ne distingue, è racconto epico che propende incessantemente verso una sponda lirica. La tensione narrativa assume spesso la forma del racconto del mito, nella duplice direzione del mito antico che si fonde e si confonde con la nostra vita abituale, offrendole senso ed arricchendo i gesti di un valore metafisico, ma può anche proporre volti e vicende del quotidiano, che assurgono alla potenza del mito. Ordinario e visionario si uniscono per dare vita a un dettato molto equilibrato, ma capace di produrre quelli che Soyinka definisce “shock improvvisi”. La lingua della concretezza e del racconto procede di pari passo con quella della rarefazione e della rivelazione. In questo senso i punti di riferimento vanno ricercati solo marginalmente nella tradizione italiana (in particolare in Foscolo), maggiormente in esempi derivanti dalla letteratura di matrice anglosassone, come i più volte dalla critica citati Coleridge e Dylan Thomas, Yeats e i romantici inglesi.
In Mussapi il mito è naturalmente strumento di conoscenza del mondo, ma anche rito iniziatico: si può conoscere insomma diventando altro da quello che si è (il bambino che diventa adulto: non è un caso che in Le poesie, con una scelta molto felice, non si distingua tra poesia rivolta agli adulti e “per l'infanzia”), assumendo altre forme, facendosi personaggio. Diventare un altro è premessa alla visionarietà, così come ad uno sviluppo drammatico della parola poetica, che costringe l'io lirico a presentarsi di frequente nelle vesti di un io monologante.
Tutto ciò è la premessa perché la poesia di Roberto Mussapi sia compassionevole e pietosa, e che dunque miri, come scrive Bonnefoy, a “levare gli occhi dagli accidenti della propria specifica condizione per abbracciare con lo sguardo l'intero orizzonte umano”. Del resto anche la percezione del tempo non è esperienza individuale in Mussapi e dunque guardare al passato significa aggiungere elementi di coscienza e consapevolezza collettiva alla durata privata della percezione temporale. Leggiamo in La canoa, tratta da La stoffa dell'ombra e delle cose: “Ricordi il buio, la grotta, la paura, / la paura che ci mutò in specie, specie abbracciata, / e il fuoco, e oltre il fuoco i primi confini? // Ricordi come piangevamo vedendo un cavallo, / sentendo nella sua corsa la forza del dio? / E come volevamo correre in lui, / e superare la vita, non morire?”.
La poesia ha anche questo compito: indicare la strada del ritorno, come scrive acutamente Napoli, che ci permetta di rifiutare e sconfiggere l'idea del nulla da cui siamo assediati. La poesia di Mussapi, suggerisce ancora Bonnefoy, possiede quel “genere di verità che perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l'amore, il semplice amore tra persone, si rivela all'ultimo momento come la sola verità”. Così l'anima del tuffatore di Paestum, protagonista del celebre dipinto funerario del V secolo a. C. può concludere in questo modo il discorso rivolto al figlio: “Ma ora che dormi come quando in una culla / sembravi cercare i segreti del mondo, / ora che hai spalle più larghe e più radi i capelli, / ascolta le parole della mia anima: / non so molto di lei – di me stessa - / (è presto, figlio, non conosco abbastanza, / ho appena iniziato, sto nuotando), / non pensare al mio corpo (è tardi, / perle, quelli che furono i miei occhi, e le mie labbra contratte in corallo), / ma ho conoscenza del loro matrimonio, / di quando vivevano all'unisono nel mondo / e io, anima di tuo padre, il tuffatore / ti consegno solo questa esperita certezza / (dal fondo dell'abisso, nel brivido del tuffo): / che anche l'uomo può amare eternamente”.


(pubblicato su succedeoggi.it)




giovedì 17 luglio 2014

La Capria e le anatre

Ho sempre apprezzato di Raffaele La Capria la fluidità dello stile. Di fronte a una sua opera letteraria di maggiore spessore, su tutte il romanzo Ferito a morte, come a uno degli articoli, con i quali puntualmente sembra sorridere del mondo offrendo una lettura apparentemente a margine, e invece così inequivocabilmente necessaria, di eventi già di per sé apparentemente marginali, sono attratto dal procedere quasi distratto, eppure così preciso e nitido, dalla capacità di mostrare la complessità in modo lieve, rappresentandola però senza mezze misure e scorciatoie. Siamo forse in un guazzabuglio, ma procediamo diritti e sicuri. Insomma, per usare un'espressione cara allo scrittore napoletano, la sua scrittura è come una Bella Giornata, una tersa mattinata di sole che fa più bello il paesaggio e sembra rendere facile adattarsi alle asprezze del mondo. La Bella Giornata è “anche un'idea di scrittura – ha scritto recentemente La Capria in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera -, quella della semplicità che arriva dopo la complessità”.
Per meglio spiegare in cosa consista questa idea di scrittura, La Capria torna su un paragone già utilizzato, mettendo a fuoco quello che lui chiama “lo stile dell'anatra”: “l'anatra che fila liscia sulla superficie dell'acqua e sembra spinta da una forza astratta, non fisica, e invece è data dal lavoro delle zampette palmate sotto il livello dell'acqua, un continuo lavorio delle zampette che però non si vede, non si deve vedere, come non si deve mai vedere lo sforzo nello stile di uno scrittore”.
E' un'idea di scrittura che trovo molto affascinante: esprimere con semplicità la complessità del mondo, operazione difficilissima e che richiede costante applicazione e grande fatica, e fare in modo che il lavoro dello scrittore non risulti visibile, che la scrittura sembri quasi spinta da una forza astratta. La teoria potrebbe classificare, senza con questo esprimere giudizi di valore, le esperienze letterarie degli ultimi decenni.
Se penso alla poesia italiana della seconda parte del Novecento mi sembrano dotate dello stile dell'anatra le poesie di Penna e di Caproni, per fare un esempio tra i più facili, sicuramente quelle di Cattafi e Valeri, meno il Pasolini poeta, molto più anatra nel romanzo Ragazzi di vita.




mercoledì 2 luglio 2014

Docenti, indocenti, indecenti

Avevo anticipato che sarei tornato sull'articolo di Alessandro D'Avenia, pubblicato il 25 maggio scorso sull'inserto domenicale del Corriere della Sera. Lo faccio con piacere, e con un po' di apprensione, perché l'autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue, riferendosi alla sua esperienza di insegnante, ma forse, vista la sua giovane età, ricordando anche gli anni vissuti da studente, riflette sugli atteggiamenti e sulla pratica didattica di chi insegna, distinguendo tre categorie.
I docenti in atto sono quelli che “pongono le condizioni dell'imparare, non lo pretendono”, ma soprattutto “svincolano il sapere dalla pur necessaria prestazione e lo orientano a diventare vita”. Sono gli insegnanti che sanno che la cultura deve essere uno strumento per leggere la realtà e sono anche quelli che “non smettono di studiare, prestano libri, offrono un caffè ad uno studente in crisi, fanno lezione fuori dal programma, dedicano tempo fuori dalla lezione...”. D'Avenia conclude che “la loro classe è convivio, hanno l'autorità di chi assapora la vita e la porge”.
Ci sono poi gli indocenti, che per vari motivi (tra i più diffusi certamente la stanchezza, l'insoddisfazione e l'inadeguatezza dello stipendio) hanno competenza, ma non riescono a trasmettere il proprio sapere. L'indocente “non insegna perché non impara dai ragazzi, la sua classe si appiattisce sulla prestazione”. In questo caso, il programma e l'esame sono “l'orizzonte di autorità”. Aggiungerei che le loro indubbie conoscenze sono l'unica luce che illumina il percorso didattico, ma è una luce che a volte abbaglia, deforma le figure e porta fuori strada. L'errore più grande, in questo caso, è far credere che sia approdo quello che è solo una tappa (il compito, l'interrogazione) per verificare se si sta procedendo correttamente in un viaggio anche piuttosto lungo e complesso. I ragazzi in questo caso credono di aver raggiunto il proprio scopo ottenendo un voto che li soddisfi, si sentono inadeguati se questo non avviene. Non è così.
Infine ci sono gli indecenti, che “non conoscono ciò che insegnano e trasformano la classe, presto connivente, in chiacchierificio e poltiglia educativa”.
Se si dà per vera la conclusione di D'Avenia che di docenti “ce n'è almeno uno nella nostra vita e gli dovremmo, se non il doppio dello stipendio, almeno un grazie” (e come non pensare che “almeno uno” nella vita è un po' poco) se ne deduce che la categoria senz'altro più numerosa è quella intermedia. Tra gli indocenti mi sembra particolarmente nutrita, o almeno in grande crescita, la sottocategoria che potremmo definire dei docenti burocrati, che ritiene che l'insegnamento possa essere risolto nella precisione con cui si aderisce alle norme e al fantomatico programma. Sono gli insegnanti, per intenderci, che credono che le prove somministrate (termine recentemente entrato prepotentemente nel gergo ministeriale; da notare che finora abbiamo creduto possibile somministrare una medicina, i sacramenti...) siano il cuore pulsante del proprio lavoro, non lo scambio quotidiano con gli alunni, che ogni uscita dall'aula, anche per il più nobile fine, sia una “perdita di tempo”, e che sia necessario attenersi rigidamente alla media dei voti ottenuti (“Fantozzi, non sei sufficiente, hai solo la media del 5,75”). Quasi sempre amati dai dirigenti, sono costantemente impauriti da possibili ricorsi e dall'atteggiamento di genitori ritenuti quasi sempre incompetenti, pronti, a loro dire, a difendere acriticamente e anche disonestamente i propri figli.
Ma cosa fare? Bisognerebbe che gli indocenti diventassero docenti. Invece la scuola premia chi si guarda dal promuovere curiosità e motivazione, se questo significa rivedere almeno in parte il ruolo di chi insegna e la propria posizione nella relazione all'interno della classe. Eppure basterebbe, per tornare alle affermazioni di D'Avenia, che la materia nelle ore di lezione venisse considerata “terreno comune di ricerca, non trincea”.