lunedì 24 febbraio 2014

POESIE 1986 - 2014 di Umberto Fiori (Oscar Mondadori)

Umberto Fiori è una delle presenze più riconoscibili e significative del panorama letterario italiano degli ultimi decenni. Alla sua opera in versi, a partire dalle poesie della raccolta Case del 1986 fino ad arrivare ai versi di Voi del 2009, la casa editrice Mondadori dedica un Oscar, rendendo così possibile uno sguardo complessivo sulla produzione di un poeta che ha cercato e risolto in maniera senz'altro originale il confronto con la tradizione lirica novecentesca. Il volume è completato dalle prime quattordici sezioni del poemetto inedito Il Conoscente.
A rileggere ora le raccolte di Fiori, tra le quali vanno ricordate anche le prove di Esempi del 1992, Tutti del 1998, La bella vista pubblicato nel 2002, se ne ricava un percorso poetico di grande coerenza e forza, sempre modulato attraverso una voce che si esprime, fin dagli esordi, con sicurezza e risoluta e semplice accordatura, alle prese con una lingua che predilige il lessico quotidiano e il registro basso, e che evita di scivolare in meccanismi ostili per il lettore, così come nell'ostentata articolazione di un linguaggio astrattamente poetico. La poesia di Fiori si iscrive a pieno titolo in una linea che prende le mosse da Saba, come suggerisce Andrea Anfribo nell'introduzione al volume (dal poeta triestino comunque non eredita la tendenza all'autobiografismo né la passione per una lingua retrodatata), e che, attraverso la lezione dell'ultima produzione montaliana, percorre le strade della scuola lombarda, Sereni innanzitutto nei suoi esiti più “narrativi”, e si sofferma sulle soluzioni espressive care a Caproni del verso breve e brevissimo, e dell'uso imprevisto e risolutivo di rime a assonanze.
L'universo di Fiori è innanzitutto cittadino: la realtà che ci presenta è fatta di case, di muri, di macchine in sosta, di cartelloni pubblicitari, di gas di scarico, di balconi e finestre che sono il teatro sul quale si intravede un'umanità anonima, attraente proprio per questa sua impersonale piattezza. E' un paesaggio che si presenta per rapide immagini, lacerti dai quali sembrerebbe possibile ricavare un senso; un territorio che un fascio di luce inatteso, un evento repentino consegna all'ipotesi di una brusca e incerta epifania. Ma il prodigio si risolve in un piccolo evento marginale, in un avvenimento senza grande esito e che certamente non reca alcun conforto che non sia quello di una speranza presto delusa. Il male di vivere si manifesta allora con i connotati dei poveri fenomeni quotidiani, assume la fisionomia di presenze ricorrenti e almeno all'apparenza insignificanti. Scrive Fiori nella poesia Slargo, contenuta nella raccolta La bella vista: “Chi potrà più trovarci, / chiedere conto, / domandare perché, / dove, cosa? Noi siamo / tre piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. // Siamo il busto di bronzo, / la targa del furgone, l'altra bottiglia / che porta il cameriere. // Chi ci potrà più dare / torto o ragione?”.
L'evento prodigioso lascia tutto com'era: il panorama è ancora frammentato, scheggiato. Aspettavamo la consolazione di una risposta, che invece stenta a rivelarsi.
L'io lirico che fa da protagonista alle poesie di Fiori è comunque sempre in attesa che un miracolo possa compiersi. Vigile e solerte spia i movimenti degli altri, dei montaliani “uomini che non si voltano”, della massa che si compone di individui “ognuno / occupato dall'attimo che passa”, per usare invece le parole di Sbarbaro. E' proprio nel loro anonimato, nell'oscurità ripetitiva di vite a cui non siamo destinati, nella loro incapacità di scoprire una realtà che non sia quella che si vede, che risiede la forza che attrae e che ci lascia intravedere un possibile segreto.
Così nella poesia Treno (in Esempi) il viaggiatore può scorgere, mentre il convoglio che percorre una curva si inclina verso un palazzo, persone che “apparecchiano al terzo. A pianterreno / vanno a prendere un piatto e li vedi fermi”. Nell'odore di mare, mentre “passano armadi, tovaglie, televisori”, si presenta improvvisa una scoperta: “Mentre le stanze passano / e se ne vanno, viene / come una spinta dentro, / come un'invidia. / Ci si sente mancare, / in questa scene. Si è come tenuti fuori. // Ma in fondo poi / vedere come tutto / procede bene / anche senza di noi, / fa quasi ridere. // E si diventa liberi, leggeri: / non si è più lì, si ragiona / come già morti, come / mai nati. (…) // Eppure questo, / questo che tutti vedono / là, nei soggiorni / e nelle camere, non smette di mancare: / essere così chiari / senza saperlo, / stare soprappensiero / un attimo, nel pieno dell'attenzione”.
Umberto Fiori, come sanno i suoi lettori abituali, è stato il cantante degli Stormy Six, storico gruppo del rock italiano degli anni Settanta. Anzi lo è tuttora, visto che negli ultimi tempi la band si è ricomposta, dando vita a rare e acclamate esibizioni. Nei giorni scorsi il gruppo ha tenuto uno spettacolo in compagnia di Moni Ovadia al teatro Elfo Puccini di Milano. In scena l'opera Benvenuti nel ghetto, che aveva debuttato qualche mese fa a Reggio Emilia, dedicata agli avvenimenti nel ghetto di Varsavia dell'aprile del 1943 e dalla quale è stato ricavato un cd audio e un dvd.

(pubblicato sul sito succedeoggi.it)

lunedì 10 febbraio 2014

LO STADIO DI NEMEA. Discorsi sulla poesia di Giancarlo Pontiggia (Moretti&Vitali)

Il dibattito sulla letteratura nel nostro paese è asfittico, anzi quasi del tutto assente. Si parla di libri quasi unicamente sulla scorta di qualche polemica legata a un premio letterario oppure dentro i confini rassicuranti di una recensione. Poca saggistica, spesso a carattere divulgativo, pochissima poesia, spesso per attenzione nei confronti di un amico, soprattutto nessun discorso di carattere più ampio che possa soffermarsi sulle modalità generali dell'espressione letteraria, sulle scelte che distinguono la scrittura dei nostri tempi. A farne le spese è soprattutto la critica più attenta, ormai segregata, al pari della poesia, in luoghi periferici, dai quali, anche a voler alzare la voce, è impossibile farsi sentire. Insomma i libri di critica letteraria sono rari e i pochi che arrivano nelle librerie non sono destinati a sollevare discussioni, e non certo per propri demeriti.
Peccato. Di un dibattito più ampio, non tanto sulle poetiche, che forse nemmeno più ci sono, quanto sui valori stessi che sono alla base del fare letteratura, si gioverebbero narratori e poeti, e più in generale la platea culturale che, almeno qui da noi, è anch'essa ormai sedotta dal chiacchiericcio fine a se stesso, dal rumore di fondo petulante e improduttivo che anima le nostre giornate.
Pensavo a tutto questo leggendo Lo stadio di Nemea. Discorsi sulla poesia di Giancarlo Pontiggia, pubblicato da Moretti&Vitali, che raccoglie interventi sulla poesia destinati a pubblici diversi e pensati per svariate occasioni, scritti dal 2004 al 2012. Pontiggia, che è anche un poeta di misurata e vigile produzione, esordisce sul finire degli anni Settanta prima come redattore della rivista Niebo e poi curando, con Enzo Di Mauro, la fortunata antologia feltrinelliana de La parola innamorata.
I vari interventi raccolti in Lo stadio di Nemea pur nella loro eterogeneità, convergono su alcune linee portanti, che ne fanno un libro unitario e di sicuro spessore critico. Per Pontiggia la poesia svolge ancora oggi un ufficio importante, che è quello di dare una risposta all'esigenza di comunicazione che il mondo reale ci consente solo in modo effimero. La poesia insomma ci salva “dal caos, dall'approssimazione e dalla prepotenza del discorso improvvisato”. I versi ci consegnano, per definizione, a luoghi più stabili, a una ricerca della verità. Ma per fare questo, la poesia, oltre che guardare con rinnovato interesse alla tradizione, deve uscire “dall'imbuto esistenzialistico in cui si è insaccata”, “distanziarsi dall'universo privato, quotidiano, empirico, viscerale del singolo individuo”. Che è come dire a buona parte della lirica italiana degli ultimi anni di liberarsi della veste più spesso indossata, di evitare che lo sguardo indugi troppo sulla propria figura e che la lingua diventi un codice riservato e perciò escludente. La poesia non può dunque manifestarsi esclusivamente come linguaggio dell'emozione, ma deve essere un esercizio della complessità. “Se non c'è pensiero, non c'è poesia” sostiene Pontiggia, “proprio come, all'inverso, non c'è poesia senza retorica, suono, profondità di stile e di linguaggio”. Ma attenzione, la complessità non deve per forza generare difficoltà: “la materia della poesia è semplice: complessa semmai è la sintesi di immaginazione, pensiero e linguaggio cui dà vita”.
Nei brevi saggi che compongono il libro c'è materiale a sufficienza per alimentare una discussione seria sul fare letteratura. Ma a chi interessa? Certo non alle centinaia di scrittori di versi poco disposti a mettere in discussione il proprio lavoro. Quello che quotidianamente viene proposto alla lettura è difatti in buona parte “un'arte antiumanistica, una bottiglia lanciata nel gran mare dell'essere per un lettore fantascientifico che non c'è e probabilmente non ci sarà mai”.
Il risultato è che al pubblico restano solo i prodotti di più facile fruizione e di scarsa qualità, che però sono in grado di parlare di problemi che ci riguardano più da vicino e che in ogni caso riusciamo a comprendere. Dunque la peggiore calamità dei tempi in cui viviamo, almeno nel campo della letteratura, “è che gran parte dei poeti scrivono versi che non sono da leggere, nei quali anzi vengono deliberatamente innestati meccanismi ostili non solo al lettore comune ma all'idea stessa del leggere”.

(pubblicato su succedeoggi.it)