sabato 26 gennaio 2013

Diego Valeri, la leggerezza del nulla

Il poeta Diego Valeri

Ho provato un grande piacere nel rileggere le poesie di Calle del vento, la raccolta che Diego Valeri pubblicò nel 1975, un anno prima della morte, nella collana Lo Specchio di Mondadori. Valeri, che era nato a Piove di Sacco il 25 gennaio del 1887, aveva allora 88 anni. Stupisce lo sguardo ancora curioso sul mondo, la freschezza del movimento che emana dai versi, la meraviglia di fronte ai quotidiani accadimenti.
I versi di Diego Valeri interrogano spesso la natura, anzi si posano su di essa, scoprendola abitata da semplicissimi eppure affascinanti, quasi miracolosi eventi: “C'è una carezza d'aria nell'aria, / un bagliore di sole / nel cielo senza più sole. / Queste sono le indicibili sere / della mezza estate” oppure “Un così grande bosco, un così grande / silenzio, per un uccellino / da nulla, talmente minuto / di corpo e di voce...”
La poesia di Valeri costituisce una lettura di grande interesse ancora oggi. Sono vicini alla sensibilità dei lettori di oggi il tono mai compiaciuto, il rifiuto di ogni oscurità, anzi una ricerca quasi ossessiva della luce, la leggerezza del linguaggio, raffinato e colloquiale insieme, l'asciutta determinazione delle immagini. Eppure i suoi versi sono assenti anche dalle antologie scolastiche, dove pure avrebbero diritto di cittadinanza, per la loro anacronistica contemporaneità, soprattutto linguistica.
Non si deve però credere che la poesia di Valeri risulti in fondo inconsistente nel suo nitore o che il suo sguardo meravigliato invogli unicamente a una felicità senza pieghe né chiaroscuri. Il passo di Valeri cammina con leggerezza verso il nulla, che poi in fondo si manifesta come la sola verità dell'esistenza. Come scrisse con felice intuizione il poeta Carlo Betocchi già nel 1937, “la migliore poesia di Valeri è delicatissimamente situata in una pausa, tra due estremi”. A questa pausa, tra la fragile bellezza del vivere e la condanna inequivocabile all'inconsistenza delle cose e delle vite, si aggrappa la poesia di Diego Valeri fino alle ultime prove, come dimostra la poesia che di seguito trascrivo.


Giù al fondo della valle
c'è il fiume e c'è la strada.
E c'è pure l'omino, eccolo là,
che cammina col fiume,
e poi si ferma e sta.
E' un punto, un nulla. Ma fa quel che vuole:
sempre nel giro del nulla, si sa.




venerdì 11 gennaio 2013

"Non so contro chi credere": il Cavaliere, il Giornalista e Mino Maccari

Peggio del teatrino della politica c'è solo il teatrino dell'informazione, soprattutto di quella televisiva di argomento politico. La tanto attesa partecipazione di Berlusconi alla trasmissione di Michele Santoro Servizio pubblico, annunciata con toni da evento epocale, si è dimostrata una messa in scena ben orchestrata e un tantino flaccida. Una commediola da filodrammatica, di quelle nelle quali si divertono e si emozionano solo coloro che sono sul palco, col pubblico che cerca di capire cosa stia veramente accadendo e quando si deve ridere, quando si fa sul serio.
Mino Maccari
Ha cominciato Santoro a farci capire, attraverso un'incomprensibile predica su Granada (la canzone, credo) e dintorni, complice in sottofondo la voce di Claudio Villa, che le parole possono portarci lontano, farci intravedere nuovi orizzonti, ma anche, tanto per rimanere in tema, costringerci a girovagare per i vicoli di Granada, senza indicare una via d'uscita, senza farci capire dove siamo diretti, né in quale luogo ci troviamo.
“Ho poche idee, ma confuse” gli avrebbe suggerito di confessare Mino Maccari, se fosse stato seduto nello studio televisivo, peraltro tetro nella sua scenografia essenziale da teatro di ricerca.
Il teatro di ricerca preferisce spesso i silenzi. Quante parole invece si sono detti il Cavaliere e il Giornalista! Anche brillanti, argute, da persone che non hanno fatto le scuole serali, tanto per riutilizzare una loro gag, e che sanno che essere in scena significa interpretare un ruolo, ripetere cose già dette, sera dopo sera, una recita dopo l'altra.
Il Cavaliere e il Giornalista hanno abusato del loro mestiere, hanno usato tutta la tecnica più scaltra e raffinata dei teatranti, sapendo che le parole, quando significano davvero qualcosa, non hanno bisogno di frizzi e lazzi, di acrobazie da guitti. Ma in questo caso bisognava fare spettacolo, non comunicare.
Le parole solo quando si sforzano di dire vanno diritte verso la mente e il cuore dell'interlocutore, sono brillanti senza voler piacere a tutti i costi, sono impegnative senza essere noiose.
Mino Maccari, che era un pittore e uno scrittore la cui opera irriverente e sarcastica ha attraversato il Novecento senza troppo clamore, avrebbe abbozzato un sorriso e, dal suo posto buio alle spalle del Giornalista, avrebbe riassunto il senso della trasmissione con uno dei suoi aforismi: “Non so contro chi credere”.

giovedì 10 gennaio 2013

Poeti e presidenti: se Blanco legge per Obama


Richard Blanco è un poeta di 44 anni. In questi giorni si parla di lui su tutti i giornali statunitensi. Blanco è stato infatti designato da Obama quale poeta ufficiale per l'Inauguration day, la cerimonia di insediamento del presidente degli Stati Uniti che si terrà il prossimo 20 gennaio. Blanco, che secondo Obama scrive poesie nelle quali è profondamente radicato il comune sentimento americano, leggerà versi composti per l'occasione.
Richard Blanco 
L'interesse dei media americani è dato dal fatto che Blanco è il più giovane, è il primo ispanico (è figlio di esuli cubani) ed è anche il primo gay tra gli scrittori di versi finora prescelti per un incarico così prestigioso. Ad inaugurare la presenza di poeti ai festeggiamenti per l'insediamento del presidente fu Robert Frost nel 1961. Sia stata l'emozione o il sole abbagliante che illuminava quel giorno Washington e che rendeva invisibile la tenue traccia di inchiostro che la macchina da scrivere aveva lasciato sul foglio intestato dell'albergo, sta di fatto che Frost, che aveva allora 87 anni, non fu in grado di leggere i versi di Dedication scritti per John Fitzgerald Kennedy, e dovette recitare a memoria The Gift Outright, la lirica in un primo momento scelta dallo stesso neo-presidente.
Che la poesia sia presente in un momento così importante della vita politica degli Stati Uniti è il segno evidente che essa è considerata elemento essenziale della vita sociale e culturale della nazione. I poeti leggono i loro versi sullo scenografico scalone del Campidoglio: la poesia sembra essere in grado di indicare la comune strada da percorrere; dice quello che serve e quanto invece è superfluo per la convivenza degli uomini.
Nel nostro paese farebbe già notizia la presenza di un poeta in un luogo istituzionale, durante una cerimonia ufficiale. La poesia infatti ha trovato radici in territori separati dal vivere collettivo, si nutre di parole che parlano soltanto a pochi, non vuole, spesso per supponenza, parlare al potere. Il potere, d'altra parte, non legge libri di poesia (in gran parte non legge e basta), ritiene la cultura una vicenda che non riguarda la politica, al pari del gioco degli scacchi o dell'alpinismo, si preoccupa solo della realtà nell'illusione di modificarla, e i poeti, si sa, non parlano della realtà e meno che mai sono in grado di cambiarla.
Sorrido al pensiero di Saba che legge al giuramento di Einaudi, di Ungaretti che strabuzza gli occhi sibilando istrionico dinanzi a Saragat, di Montale che bofonchia sornione mentre Giovanni Leone accenna qualche sbadiglio. E se fossero stati i presidenti del consiglio a festeggiare il loro insediamento? Non riesco ad immaginare chi avrebbe invitato a leggere poesie un politico della sensibilità culturale dell'uomo di Arcore (Bondi? Mariano Apicella?).
Da noi una lettura di poesie è atto imbarazzante, noioso, assolutamente avulso dalle vicende della nazione. Meglio il giorno dell'insediamento invitare una presentatrice tv, un comico, un calciatore, un attore di fiction.
Anche nei momenti significativi della nostra vita nazionale, è utile non pensare.


lunedì 7 gennaio 2013

Registri elettronici e mangianastri vintage


Insomma, qualcuno mi chiede, ti piace o no il registro elettronico nelle scuole? E le pagelle? Serve a qualcosa il "Piano per la dematerializzazione delle procedure amministrative in materia di istruzione, università e ricerca e dei rapporti con le comunità dei docenti, del personale, studenti e famiglie", come pomposamente e burocraticamente viene denominato l'ingresso ufficiale dell'elettronica nelle scuole dello Stato?
Mi piace, a qualcosa serve, rispondo. Non si può andare avanti, facendo finta che internet sia solo un'ipotesi in un racconto di Asimov, che la bic nera sia più dignitosa di una tastiera, non è possibile continuare a vedere gli insegnanti di lingue che sfoggiano mangianastri vintage come preziosi supporti didattici. Ma proprio per questo mi sembra non ci si possa fermare a registri e pagelle, e che anzi se tutta la rivoluzione consistesse, come dai giornali appare, nella possibilità offerta ai genitori di verificare da casa presenza e performances dei propri figli, essa avrebbe il valore di uno starnuto durante la stagione invernale.
Il giusto obiettivo dell'efficienza viene tradotto, nella scuola italiana di questi anni, in un'attività da questurino e nel controllo esasperato della quisquilia. L'importante è che i ragazzi siano fermi al loro posto, che i genitori siano avvertiti in tempo reale di ogni inadempienza dei loro figli, che tutto risulti blandamente nell'ordine stabilito. Della qualità dell'insegnamento si può anche fare a meno, dell'efficacia del percorso educativo anche: basta che siano salve le procedure burocratiche.
L'elettronica nelle scuole dovrebbe dunque servire a mettere un freno ai ritardi e alle assenze, a evitare giustificazioni taroccate, a rendere più difficili le false informazioni sulle prestazioni scolastiche dei ragazzi. Si offre in questo modo l'immagine della scuola come di un luogo dove gli studenti guadagnano punti se riescono a prendere in giro gli insegnanti, e l'insegnante acquista merito se riesce a smascherare i sotterfugi, a sbaragliare complotti orditi a danno proprio o dell'istituzione. La fiducia, il dialogo, lo scambio libero e adulto delle idee? Roba d'altri posti. La scuola stimola gli alunni perché applichino questi valori nel mondo reale: in quello virtuale scolastico-informatico si dà per scontato che serve essere furbi, trovare l'espediente giusto, agire con malizia.
Insomma mi piacerebbe che l'elettronica non si limitasse al registro, che la tecnologia informatica non servisse a controllare, ma fosse uno strumento educativo consono ai nostri tempi e al mondo dei ragazzi. Sarei felice si parlasse di quanto potrebbe risultare vantaggioso e proficuo utilizzare l'informatica per lo studio della geografia e della storia, delle lingue e della letteratura italiana. Ma come si fa, se mancano anche i pennarelli per scrivere sulle lavagne e delle lavagne interattive multimediali si riesce a far uso solo dopo accurate strategie di aggiramento e interminabili iter di prenotazione? Nella scuola dove insegno almeno l'era del gesso è stata superata, ma le lavagne interattive sono in numero di due per oltre millequattrocento studenti. Mi accontento: credo che una lavagna multimediale ogni settecento allievi costituisca una media ben al di sopra di quella nazionale.