mercoledì 4 giugno 2014

Alessandro D'Avenia, la scuola in diretta

Quando si parla di scuola affermando che la qualità dell'insegnamento non può prescindere da tre elementi indispensabili, “amore per ciò che si insegna, amore per il chi a cui si insegna, amore per il come si insegna”, e che lo studente deve essere riconosciuto come “soggetto di un 'inedito stare al mondo' e non come oggetto da cui ottenere prestazioni”, o si insegue l'interlocutore affrontandolo con argomenti simili, di solito si viene guardati dagli addetti ai lavori con l'accondiscendenza che si riserva a chi dice una cosa plausibile ma del tutto irrealizzabile, a chi propone una soluzione romantica per affrontare un problema, quello appunto dell'insegnamento, che ha bisogno innanzitutto di scelte tecniche. Ma dove vive questo, dicono gli occhi di chi insegna e vive ogni giorno la frustrazione alimentata da scarse soddisfazioni e da un'ancora più scarsa retribuzione, soprattutto se a pronunciare l'affermazione a favore dello scambio relazionale è un altro insegnante.
Deve aver subito occhiate del genere lo scrittore Alessandro D'Avenia, insegnante in un liceo milanese, quando ha pubblicato, un paio di settimane fa, un intervento nell'ambito del dibattito sulla scuola ospitato dall'inserto domenicale La Lettura del Corriere della Sera. Dice D'Avenia che istruzione ed educazione non sono separabili e che “non ci può essere educazione (né insegnamento) in differita, perché la relazione coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo, spirituale)”. Insomma “solo la vita integrale educa” e si insegna con tutto, “sguardo, tono di voce, movenze del corpo, disposizione dei banchi, brillare degli occhi, segni su un compito, cellulare spento... e parole”. Aggiungerei che fondamentali sono anche le caratteristiche del luogo che ci ospita, ma a questo ho dedicato un altro intervento a cui rimando: http://moscheinbottiglia.blogspot.it/2014/04/un-inospitale-paesaggio-scolastico.html. 
Sulla seconda parte dello scritto di Alessandro D'Avenia mi soffermerò in un prossimo post, intanto sottolineo alcune affermazioni che mi sembrano convincenti.
Innanzitutto mi piace che si parli di nuovo di educazione. Si può insegnare (o almeno si può insegnare ottenendo qualche buon risultato) solo se si è disposti ad accettare un assunto: senza mettere in atto un processo educativo non è possibile nemmeno l'insegnamento. Sta di fatto che oggi la parola educazione fa paura. Forse perché rimanda a un sistema di valori, che non riusciamo più a mettere a fuoco, o forse perché richiede un diverso atteggiamento di chi è parte attiva nella pratica quotidiana della relazione scolastica, professori studenti genitori: bisogna mettersi in gioco.
Altra questione: la qualità della proposta scolastica non si misura sul numero di prestazioni che sono richieste allo studente né sulla difficoltà che prova nel corrispondere alle richieste, ma nell'interesse che chi insegna riesce a determinare in colui che dovrebbe imparare, nella passione che scatena, nella curiosità che genera. Uno studente annoiato e impaurito è di solito il risultato non di un insegnamento serio e severo, ma di una scuola che ha rinunciato alla relazione attiva tra le sue componenti principali, diventando invece il luogo della burocrazia e della rigida ripetizione di formule.
Infine, lo studente è il soggetto dell'atto educativo, in quanto è colui che deve imparare a conoscere il mondo. In questo senso non può essere il punto d'approdo delle richieste di chi insegna, il destinatario senza diritto di parola di un ammaestramento a senso unico, ma è invece colui che deve pretendere di sapere. Perciò deve essere messo nella condizione di chiedere. Deve prima di ogni cosa saper formulare domande sui contenuti che gli vengono proposti. Una scuola che genera attenzione e fornisce motivazioni valide è quella che insegna a fare domande.







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