martedì 24 giugno 2014

TUTTE LE POESIE di Giovanni Giudici (Oscar Mondadori)

Nel 1953, appena pubblicata la sua prima raccolta di versi, Giovanni Giudici, che all'epoca abitava nella periferia di Roma, aveva quasi trenta anni e nell'operazione aveva impegnato 25mila lire dell'esiguo bilancio familiare, pensò di spedirne la prima copia ad Umberto Saba, che si trovava allora in una clinica romana per curarsi. Lo racconta lo stesso Giudici nel prezioso e ormai introvabile Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, spiegando anche il perché di tanta sollecitudine: “Già da diversi anni egli era il poeta che più amavo e leggevo e, forse, il primo fra i contemporanei del quale avessi letto qualche poesia”, che è un modo anche per mettere in evidenza una filiazione, per mostrare un grado di parentela. Saba, per la cronaca, rispose al giovane allievo, dando così inizio ad una frequentazione che sarebbe durata negli anni successivi, i pochi anni che separavano il vecchio poeta triestino dalla morte.
L'episodio è riaffiorato alla memoria, mentre sfogliavo il ponderoso Oscar Mondadori dedicato all'intera opera poetica di Giovanni Giudici: oltre 1200 pagine di versi, a cui vanno aggiunte le cinquanta dell'introduzione firmata da Maurizio Cucchi, l'apparato bio-bibliografico e le circa quaranta pagine di indice. Tutte le poesie, che va ad affiancarsi al Meridiano pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2000, si propone come uno strumento importante per avvicinarsi o per rileggere l'opera di uno dei poeti che maggiormente hanno segnato con la propria continua ricerca linguistica e con la forte connotazione etica, il panorama poetico italiano della seconda metà del Novecento.
Come Saba ebbe a contrastare i bagliori delle avanguardie e la presenza fagocitante dell'ermetismo attraverso una propria particolare declinazione della lingua della poesia e del valore che essa viene ad assumere nel rapporto con il lettore, anche Giudici, che si trovò inizialmente stretto tra le propaggini del neorealismo e l'invadenza sperimentale del Gruppo 63, seppe costruire un proprio peculiare percorso, alimentato del rapporto con la tradizione, che viene recuperata in forme sempre originali. Si percepisce in Giudici la necessità di nutrirsi del passato della letteratura, di attraversarlo con tenacia e regolarità, ma insieme l'attenzione costante ad abbassare i toni che dalla tradizione provengono, ribadendo in tal senso in maniera singolare ed efficace l'esempio gozzaniano. Del resto nell'opera del poeta di La vita in versi, Autobiologia, Il male dei creditori, per citare alcuni dei titoli più noti, la lingua della poesia, sorprendentemente tesa a prelevare da vari registri e da diversi territori linguistici è sempre comunque disposta a fare i conti con il linguaggio della comunicazione ordinaria. Giudici crede fortemente nella forza evocativa della parola, ma sa anche che essa non può prescindere dalla necessità di un confronto serrato con il presente. Del resto la poesia è avvertita come dispositivo per liberare e nello stesso tempo controllare l'energia della parola. Scrive Giudici in una delle brevi prose contenute nel volume a cui prima si faceva riferimento: “Fare i conti con la lingua sarà in primis prendere coscienza del ricco e polivalente strumento di cui disponiamo. Fare poesia: utilizzare un materiale di esperienze fisiche e sentimentali per fabbricare oggetti linguistici multi-uso. Dominare la lingua è dominare, nei limiti della nostra finitezza, il reale. Lingua è il reale che entra in noi, si trasmette e si propaga”. Ed è questa un'affermazione che bene può accompagnare la lettura dei versi del poeta nato a Le Grazie, una frazione di Portovenere, sul mare di Liguria, e poi vissuto lungamente a Milano.
L'Oscar da poco pubblicato dà conto di un percorso poetico vario e polifonico, ma sempre indirizzato a cercare di ottenere il massimo effetto comunicativo facendo interagire i valori prosodici e sonori del verso (l'uso per esempio di rime e assonanze, il continuo ricorso ad un sistema di strofe, la scelta nella seconda parte della produzione di far iniziare ogni verso con la maiuscola, a segnalarne la compiutezza fonetica e di senso) con il naturale svolgimento, vicino alla prosa, dei registri linguistici. Ne nasce una lingua varia e complessa, una mobilità espressiva che si realizza, come scrive Cucchi, attraverso “una continua oscillazione di tono e nell'uso di materiali linguistici e stilistici eterogenei”.
La poesia di Giudici oscilla anche costantemente, denunciando ancora una volta il legame con l'antecedente sabiano, tra la tendenza alla narrazione e la forte tensione lirica, in qualche modo placata però quest'ultima dal ricorso all'ironia e all'autoironia e dall'allusione a un paesaggio ordinario e quotidiano, a volte anche dimesso e popolato di piccole cose.
Scrivere poesia è sempre comunque una promessa d'amore nei confronti della parola, un'umile ma faticosa e studiatissima prova di abilità artigiana, ma anche, e in questo risiede in parte il valore etico dell'atto, capacità di ascoltare l'energia, le interne armonie, i doni, che le parole portano con sé. In questo senso il poeta è insieme “alunno e fabbro”, come è detto nella lirica Un poeta, contenuta nella raccolta Quanto spera di campare Giovanni del 1993: “Uomo, sì, grazioso / Come si dice di colui che pure / Non grato all'apparenza si fa amare / Per le miti maniere in braccio alle sventure / O minima intenzione a fior di labbro: / Di ciò nel fare cose di parole / Alunno e fabbro”.


(pubblicato su succedeoggi.it)



lunedì 16 giugno 2014

MANCANZE di Alessandro Fo (Einaudi)

La poesia di Alessandro Fo si muove con rapida e stupefatta delicatezza tra le vicende del mondo, che tenta sempre inizialmente di risolvere nella linearità del racconto. Ma, come avviene nella lirica di Sereni, non appena il filo narrativo sembra cominciare a dipanarsi, e ad assolvere alla sua funzione ordinatrice, subito qualcosa (un pensiero laterale, un gesto inaspettato, lo sguardo che si posa su un oggetto apparentemente senza importanza) lo porta in altra direzione, lo spinge verso prode impreviste. Ne derivano preziose quanto pericolose sovrapposizioni di senso, che fanno sì che il lettore si trovi dinanzi una realtà pencolante, in fondo poco rassicurante anche se presentata con i toni della leggerezza e della sobrietà, dentro cui muoversi con l'occhio sorpreso di chi scopre dietro l'ordinarietà degli eventi l'incanto e la magia.
Ne troviamo conferma nella raccolta Mancanze, da poco edita da Einaudi. Il titolo traduce per approssimazione l'originario Reliqua desiderantur, l'appunto con cui si indicava, a margine dei testi antichi, la mancanza di qualcosa: il resto manca insomma, ma in quanto tale rimane appunto sotto forma di desiderio. Per esigenze editoriali (il latino non attrae e poi sarebbe stata troppo forte la rassomiglianza con il fortiniano Composita solvantur), Fo ha dovuto abbandonare l'idea iniziale, lasciando all'immaginazione del lettore l'anelito di quell'evanescente riferimento al desiderio che pure avrebbe già detto qualcosa sul contenuto del libro.
Perché in fondo la poesia di Fo, che si proponga sotto forma di preghiera, come nella prima sezione della raccolta, o che penetri con grazia all'interno del miracolo della musica di Chopin, come accade nella sezione che ha titolo Il tono blu (Variazioni Chopin), è sempre alla ricerca di quel particolare che manca alla realtà per definirla, quella zona celata ed ambita che sappiamo esistere in qualche luogo e in qualche forma, perché fa parte indiscutibilmente delle nostre esistenze, e da cui però ci sentiamo irrimediabilmente separati. La parola ha dunque il compito di svelare e di riportare in vita, di consolare e di mettere in evidenza le parti che mancano, di dare concretezza a ciò che è impalpabile. E' quanto avviene nella preghiera. Solo che quella declinata da Alessandro Fo è orazione tutta impregnata di una religiosità laica e mondana, sia pure composta in una pietà sincera e devota: “E non è cosa meno incredibile il pensiero, / a pensarlo davvero, / questo nulla che si fa verbo e moto, / il corso di parole / che esercita il diritto / di pronunciarsi muto / e sfocia qui trascritto, // l’immateriale / dentro il materiale / – o forse nel suo vuoto // – come la Grazia, / nel suo corpo mortale”.
Nei versi di Mancanze vita e morte dialogano incessantemente, così come si rincorrono i volti delle persone care con le presenze di angeli (a loro è dedicata un'altra sezione del libro), che possono anche essere figure intraviste, apparizioni destinate a svanire, delle quali poi si potrà sentire appunto solo il peso dell'assenza. Gli angeli delle poesie di Fo, che denunciano uno stretto grado di parentela con le fanciulle e i ragazzacci di Saba, sono creature terrene nelle quali bene si rappresenta l'evanescenza della realtà, il senso del miracolo, la consapevolezza di qualcosa che abbiamo perduto e di cui sentiremo per sempre la nostalgia (“Né lei, probabilmente, / saprà mai quanto deve / alla sua veste il minimo bagliore / che ne riflette forse questa via / d’inchiostro e carta in metrica: // ispira diffidenza la poesia, / non convince la delicatezza, / poca gente è all’altezza dell’affetto, / quasi niente è il rispetto dell’amore..”).
Così il poeta, riducendo in sintesi il rilievo attuale della propria esistenza, scrive: “Una minima scia / che già si spegne / resta, se resta, lontana in qualche mente / su cui mi sporgo ancora come aneddoto / legato a una passata professura / o come inesplicabile fessura / di nostalgia per un compagno assente. / Ma lentamente la figura che una volta / parlando in me si dava nome 'io' / collimerà in rima piena con oblio”.
Fo, che insegna Letteratura Latina all'Università di Siena e ha recentemente curato e tradotto l'Eneide sempre per i tipi di Einaudi, predilige un linguaggio semplice e un tono leggero, velatamente ironico, senza che questo però significhi rinunciare alla complessità, ma anzi lasciandola emergere con più forza proprio dove l'ordinarietà sembra prevalere. A questo proposito, i versi dedicati a Chopin possono diventare una sorta di dichiarazione di poetica: “Il valzer in do diesis / minore (opera 64, 2) / sembra in contraddizione. / Appassionata, eloquente confessione / molto espressiva, come per raccontare… // … e poi prende la pena, / la volge in leggerezza” o ancora “… come possono valzer cosí tristi / giungere a donare tanta gioia?”


Pubblicato su succedeoggi.it



giovedì 12 giugno 2014

L'anima si incupisce



L'anima si incupisce se gli oggetti
di nessun conto, le lampade i bicchieri,
ci abbandonano, il corpo si protende
senza di loro sul ciglio dell'abisso,
il gesto si frantuma in reticenze.
Solo la mano cerca nella tasca
la moneta, la chiave, il punto fermo
che ci faccia sentire dentro casa
con la speranza che tazzine e brocche
non abbiano lasciato la credenza,
che siano al posto loro le ramine,
i calici in attesa delle bocche.




(da La vita dei bicchieri e delle stelle, Campanotto Editore)




mercoledì 4 giugno 2014

Alessandro D'Avenia, la scuola in diretta

Quando si parla di scuola affermando che la qualità dell'insegnamento non può prescindere da tre elementi indispensabili, “amore per ciò che si insegna, amore per il chi a cui si insegna, amore per il come si insegna”, e che lo studente deve essere riconosciuto come “soggetto di un 'inedito stare al mondo' e non come oggetto da cui ottenere prestazioni”, o si insegue l'interlocutore affrontandolo con argomenti simili, di solito si viene guardati dagli addetti ai lavori con l'accondiscendenza che si riserva a chi dice una cosa plausibile ma del tutto irrealizzabile, a chi propone una soluzione romantica per affrontare un problema, quello appunto dell'insegnamento, che ha bisogno innanzitutto di scelte tecniche. Ma dove vive questo, dicono gli occhi di chi insegna e vive ogni giorno la frustrazione alimentata da scarse soddisfazioni e da un'ancora più scarsa retribuzione, soprattutto se a pronunciare l'affermazione a favore dello scambio relazionale è un altro insegnante.
Deve aver subito occhiate del genere lo scrittore Alessandro D'Avenia, insegnante in un liceo milanese, quando ha pubblicato, un paio di settimane fa, un intervento nell'ambito del dibattito sulla scuola ospitato dall'inserto domenicale La Lettura del Corriere della Sera. Dice D'Avenia che istruzione ed educazione non sono separabili e che “non ci può essere educazione (né insegnamento) in differita, perché la relazione coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo, spirituale)”. Insomma “solo la vita integrale educa” e si insegna con tutto, “sguardo, tono di voce, movenze del corpo, disposizione dei banchi, brillare degli occhi, segni su un compito, cellulare spento... e parole”. Aggiungerei che fondamentali sono anche le caratteristiche del luogo che ci ospita, ma a questo ho dedicato un altro intervento a cui rimando: http://moscheinbottiglia.blogspot.it/2014/04/un-inospitale-paesaggio-scolastico.html. 
Sulla seconda parte dello scritto di Alessandro D'Avenia mi soffermerò in un prossimo post, intanto sottolineo alcune affermazioni che mi sembrano convincenti.
Innanzitutto mi piace che si parli di nuovo di educazione. Si può insegnare (o almeno si può insegnare ottenendo qualche buon risultato) solo se si è disposti ad accettare un assunto: senza mettere in atto un processo educativo non è possibile nemmeno l'insegnamento. Sta di fatto che oggi la parola educazione fa paura. Forse perché rimanda a un sistema di valori, che non riusciamo più a mettere a fuoco, o forse perché richiede un diverso atteggiamento di chi è parte attiva nella pratica quotidiana della relazione scolastica, professori studenti genitori: bisogna mettersi in gioco.
Altra questione: la qualità della proposta scolastica non si misura sul numero di prestazioni che sono richieste allo studente né sulla difficoltà che prova nel corrispondere alle richieste, ma nell'interesse che chi insegna riesce a determinare in colui che dovrebbe imparare, nella passione che scatena, nella curiosità che genera. Uno studente annoiato e impaurito è di solito il risultato non di un insegnamento serio e severo, ma di una scuola che ha rinunciato alla relazione attiva tra le sue componenti principali, diventando invece il luogo della burocrazia e della rigida ripetizione di formule.
Infine, lo studente è il soggetto dell'atto educativo, in quanto è colui che deve imparare a conoscere il mondo. In questo senso non può essere il punto d'approdo delle richieste di chi insegna, il destinatario senza diritto di parola di un ammaestramento a senso unico, ma è invece colui che deve pretendere di sapere. Perciò deve essere messo nella condizione di chiedere. Deve prima di ogni cosa saper formulare domande sui contenuti che gli vengono proposti. Una scuola che genera attenzione e fornisce motivazioni valide è quella che insegna a fare domande.