lunedì 26 maggio 2014

Cordelli e le tribù dei letterati

Franco Cordelli su La Lettura del Corriere della Sera (domenica 25 maggio 2014) scrive che “la letteratura italiana degli ultimi vent'anni non è che una palude, in cui il bello e il brutto sono detti e sostenuti secondo un percorso prestabilito: pubblicazione (ma pubblicano tutti), recensione, premio”. Oltre questo schema “non c'è altro”, se non il riconoscimento da parte di una tribù. Appartenere alla tribù, della quale a volte si fa parte senza nemmeno riconoscersi all'interno del gruppo, è utile per un unico fine, “la sopravvivenza editoriale”.
Il critico Franco Cordelli
Franco Cordelli è così addentro alle cose del mondo letterario, e da così tanto tempo e con tale autorevolezza, per cui è opportuno, oltre che facile, dare credito alle sue parole. Insomma sono affermazioni che non vengono da un poeta deluso, che non riesce a collocare la sua opera presso un editore di prestigio, o da un bravo romanziere a cui viene negato perfino un premio minore, ma da uno scrittore e critico affermato, che frequenta la società letteraria con intelligenza e con occhio scaltro.
Cordelli conclude il suo articolo lasciandosi andare al gioco, del quale avremmo anche fatto a meno, ma che in verità ha una sua ragione d'essere, di fornire una mappa delle varie tribù, attribuendo a ognuna un certo numero di adepti (consapevoli o meno) e un nome che possa classificarla. Gli scrittori così irreggimentati sono settanta e sono scelti per il fatto di essere percepiti come “culturalmente significativi”. Tutti gli altri, i non classificati cioè, non ci sono perché “appaiono culturalmente irrilevanti” o perché “già acquisiti in una sfera di vera o presunta eccellenza”.
Al di là del tentativo, nemmeno tanto celato, di provocare al dibattito (ma chi reagirà nella palude, i citati o gli assenti?), le parole di Cordelli fanno riflettere su alcune questioni. Innanzitutto non si può che constatare come la società letteraria non esista più: chi scrive non si sente più parte di un mondo di persone che si scambiano opinioni, che cercano negli scritti degli altri qualcosa che li appassioni, che partecipano a una ricerca comune.
E' chiaro poi che una parte di coloro che scrivono è di fatto invisibile. E questo non dipende dal fatto che uno scrittore venga considerato o meno autore di opere di qualità, ma dalla sua contiguità con una o l'altra tribù. Se si è percepiti come membri del gruppo la visibilità è garantita.
La rappresentazione delle varie correnti (dal Corriere della Sera)
Sono solo cinque o sei i poeti presenti tra i settanta scrittori all'interno delle tribù indicate da Cordelli. Segno che la poesia rende invisibili, ma anche che la maggior parte dei poeti “ha rinunciato a dire qualcosa in più, oltre ai propri versi”. Resta da capire se la rinuncia nasca dall'impossibilità di far sentire la propria voce o dalla presunzione, comunque presente in molti, che la parola poetica sia permeata di sacralità e dunque preservi da qualsiasi altro intervento comunicativo.
L'impressione è che anche i poeti, nella loro invisibilità, da fantasmi insomma, si materializzino all'interno delle tribù (in particolare in quella definita da Cordelli dei Novisti e abitata da Cortellessa) o che ne abbiano formate di proprie, naturalmente del tutto “irrilevanti”, ma alla cui rilevanza loro credono tantissimo.
Infine se nella letteratura impaludata di questi anni è impossibile distinguere il bello dal brutto, questo è il risultato di una critica attenta quasi esclusivamente ai riscontri editoriali e alla visibilità, più o meno culturale, propria e degli amici della stessa tribù.




 

lunedì 19 maggio 2014

A scuola guardandosi in faccia

Lo scrittore Andrea Bajani svolge spesso attività a contatto con gli studenti delle superiori, frequenta il mondo della scuola, dialoga con alunni e insegnanti. In un recente volume, pubblicato da Repubblica e dall'editore Laterza, dal titolo inequivocabile di La scuola non serve a niente, si legge che, trasferitosi per qualche tempo in Germania, Bajani ha ha potuto constatare che in quel paese la lezione “è sempre dialettica”, cioè “l'insegnante fa lezione insieme ai ragazzi”. Invece che pretendere che gli alunni ascoltino in maniera più o meno passiva, l'insegnante “li interpella, li invita a contraddire e a criticare, a spiegare”. In questo modo, assicura Bajani, “è un continuo alzarsi di mani, un incalzare di precisazioni, esemplificazioni, richieste di chiarimenti”; del resto “quell'intervenire continuo contribuisce concretamente al voto finale”. L'atmosfera che si respira nelle aule tedesche è senza dubbio estremamente diversa da quella che caratterizza i nostri licei. “Nessuna interrogazione, nessun tribunale. Solo una dialettica continua, un parlare guardandosi in faccia, studenti con studenti, studenti con professori”.
Nella scuola italiana una lezione di questo genere è oggi impossibile. Innanzitutto perché nel nostro paese non siamo più capaci di confrontare le idee, nemmeno in un luogo a questo deputato come la scuola: ognuno di noi parte troppo spesso dal presupposto che parlare debba solo servire a convincere l'interlocutore a darci ragione. 
In secondo luogo una lezione “sempre dialettica” farebbe venir meno il presupposto, in questi ultimi anni sempre più diffuso, che i professori non sono al loro posto per trasmettere l'amore per la disciplina che insegnano, quanto per giudicare se chi è davanti a loro ha a disposizione una certa quota di conoscenze, se si è comportato correttamente, se ha capito cosa gli è stato spiegato.
Infine per parlare con i propri alunni, mettiamo di un romanzo, di un avvenimento storico o di un'opera d'arte, gli insegnanti dovrebbero dire invece che spiegare, cioè mettere in campo le proprie idee e le proprie convinzioni, altrimenti ogni contraddittorio risulterebbe impossibile. Ma in nome di una presunta necessaria estraneità dell'istituzione scolastica e dei suoi rappresentanti ad ogni coinvolgimento ideologico (“a scuola non si fa politica” abbiamo sentito spesso ripetere) si finisce per evitare di manifestare le proprie convinzioni. Anche di fronte a un racconto o a una poesia bisogna essere oggettivi, cioè asettici. In questo modo l'interlocutore, cioè lo studente, è portato a ritenere che può intervenire solo per dare risposte che servono ad essere valutato, risposte che vanno tradotte in voto.