lunedì 27 maggio 2013

CARTE DA SANDWICH di Attilio Lolini (Einaudi)

All'amato Philip Larkin, con il quale condivide il gusto per l'imprevista sentenza e lo sguardo disincantato e divertito sull'opacità della vita quotidiana, Attilio Lolini affida, nell'ultima Imitazione che chiude la sua nuova bellissima raccolta di poesie Carte da sandwich, una sorta di definitivo ritratto di se stesso: “come sono sereno / come sono disperato”. La poesia di Lolini è tutta in questa paradossale confessione: insieme serena e disperata di fronte all'inconcludente nostra presenza nel mondo, non può più meravigliarsi né reagire con rabbia, poiché tutto è già saputo, pur restando ogni cosa irrimediabilmente sconosciuta. Ogni atto del nostro vivere, anche il più ordinario, dice che non esiste via di fuga, e dunque i versi del poeta possono solo registrare, con parole limpide e senza infingimenti, le immagini ripetitive del carcere in cui siamo costretti: “Le stagioni si ripetono / come dischi rigati // della libertà / ci siamo liberati”.
Non c'è da rimettere insieme i pezzi, non esiste ipotesi di ricomposizione, le nostre occupazioni sono “insensate”, le tappe “già segnate” (“Mi pare di sapere / come è andata // tutta la vita / una passeggiata / scombinata”), nemmeno il cielo regala consolazione (“Zoppica il sole / salendo verso il cielo // arranca e va di sbieco / come un uccello cieco”). Al poeta resta solo lo sguardo senza illusioni, il procedere beffardo e lieve sulle macerie, la consapevolezza che anche la poesia non ha parole definitive da offrire, anzi “la poesia abita / una vecchia culla / nasce felice / se non dice nulla”.
Il sentimento del comico nasce in Lolini proprio dalla costatazione dell'assoluta insensatezza delle nostre azioni. Il male di vivere è possibile raccontarlo solo prendendoci in giro, denunciando la nostra incivile, a tratti vile, arroganza di uomini che credono di avere un posto e una ragione che dia conto degli affanni che quotidianamente affrontano. Né può valere a qualcosa tentare di mettere ordine nel disordine generale, azzardare delle risposte, cercare rifugio in un'ipotetica superiore saggezza: “Tante citazioni presumo / da libri letti e abbandonati / la solita solfa di chi campa // con il solito finale: / poco ci è dato conoscere / quel poco sono errori di stampa”.
La poesia di Carte da sandwich ha la capacità di farci ridere proprio mentre contempliamo le nostre miserie. E' una poesia che genera un continuo senso di spaesamento: non permette al lettore di muoversi dalla linea tracciata, e in questo modo lo incatena al suo niente; lo illumina con splendenti motti di spirito ma solo per accecarlo. Insomma Lolini non è un poeta che utilizza le parole perché il mondo sembri più bello, non vuole consolarci né essere buono, anzi è consapevolmente cattivo, quando si aggira, sentenzioso e sorridente, cantando le sue ariette leggere, sereno e disperato, intorno ai nostri mali, costringendoci a riderci sopra. La sua poesia non cerca di sottintendere né alludere, non vuole ammansire la realtà con un linguaggio evocativo o oscuro, è da cantare a bassa voce, in una tonalità in minore, senza nessun accento declamatorio.
Non serve andare lontano per capire come va il mondo: l'epica di Lolini è delimitata a pochi oggetti vicini, ai paesaggi circostanti, tanto che ci si sente già senza patria in un'altra contrada, “dall'altra parte del fiume / nella remota rosticceria Tom & Jerry”, lì dove “gli esuli fischiettano canzoni”. Dai suoi versi a rima baciata, dai versicoli antiungarettiani, dal parodistico e irridente gioco melodico, emerge un personaggio, non più arrabbiato, come accadeva nelle sue poesie degli anni Settanta e Ottanta, ma malinconico e indolente, che ritorce lo sguardo malizioso anche contro se stesso: “Fui progressista / lessi i libri giusti, feci discorsi alla moda / davanti ai professori mossi la coda / sempre spinto da penose fantasie / da pensieri fuori corso // il tempo ci smembra come un coltello affilato / calcolo le sigarette che ancora fumerò / le inutili pagine che ancora stamperò”.

La voce di Attilio Lolini è una delle più intense e originali della poesia italiana degli ultimi decenni, le sue pagine non sono state e non saranno, ne siamo certi, inutili. Peccato che solo da pochissimi anni, complice il suo fare appartato e poco compiacente, la grande editoria si sia accorta di questo poeta nato nel 1939, fin dalle prime prove capace, come subito intuì Pasolini, di fotografare con spietata e leggerissima esattezza la nostra comune disperazione.

(pubblicato sulla rivista Il Grandevetro)

martedì 21 maggio 2013

Gadda in una poesia di Piero Santi

Gadda, Santi e Sandro Penna negli anni Quaranta all'Antico Fattore

Carlo Emilio Gadda morì a Roma il 21 maggio del 1973. Il giorno dopo lo scrittore Piero Santi, che era stato legato all'autore del Pasticciaccio da un'amicizia sincera e schiva, puntellata da piccoli episodi di affettuosa e complice condivisione, scrisse una poesia che sarà poi pubblicata in Diario con gli amici, edito nel 1980 dai Quaderni di Barbablù di Attilio Lolini.
Santi aveva già parlato di Gadda nel suo libro di maggior successo, Il sapore della menta (Vallecchi, 1963), dove lo scrittore milanese si cela dietro il personaggio di Bonetti.
Gadda aveva vissuto a Firenze tra il 1940 e il '50. Tra i letterati e gli artisti che animavano le discussioni al caffè delle Giubbe Rosse c'erano anche loro, Gadda e Piero Santi, che spesso abbandonavano la compagnia per continuare a parlare di letteratura e d'altro, passeggiando lungo l'Arno o spingendosi fino al giardino d'Azeglio.
Carlo Emilio Gadda










Questa di seguito è la poesia che Santi scrisse all'amico il giorno dopo la sua scomparsa.




a Carlo Emilio Gadda

Non ti voglio vedere vecchio
gli occhi fissi la pelle grinza
come ti ho visto alla tivù,
che sei morto ieri ventuno maggio;
nella stretta-serpe che gli strinse la gola.
Forse quando sarai
nella bara sarà meglio,
non flaccido smorto ottantenne,
sarai come quando mi portasti un giorno d'estate
la coperta da letto gobelin
e salisti le mie scale
col peso sulle spalle,
o quando ti scovai nell'atrio
di Santa Maria Novella
tra il rumore stridore dei treni
a guardare cùpido ansioso
chi ti sedeva accanto.
Sul lungarno una notte gridavi
contro il cielo nero e contro le tue nere fantasie,
io fuggi dalla tua solitudine,
perfino capii che quella stretta spalletta-sasso
era il rifugio della tua
esistenza sola e maledetta.
Non voglio ricordare più
la tua faccia gesso alla tivù.
Venga pure, verrà, il coro
di chi non conobbe i tuoi mali,
i tuoi libri saranno
il pasto delle arpie strutturali
delle parche sociologiche
de professori stilistici.
Neppure io forse saprò tenerti
nel muscolo rosso e inerte;
u sei ancora, m'illudo, nella via Blumensthil
perduto nella città remota e deludente,
lasciate le notti-nido del giardino d'Azeglio,
la brezza acida di Firenze,
il giro attorno alla vasca della Fortezza
dove si consumava la tua angoscia

- e la tua tenera viltà.

lunedì 13 maggio 2013

Non c’è dubbio che l’universo espande


Dal mio nuovo libro di poesie, La vita dei bicchieri e delle stelle, edito da Campanotto. Questa è la poesia che apre il volume.



Non c’è dubbio che l’universo espande
giorno per giorno, metro dopo metro, un poco
più universo avanti e indietro, in ogni
lato cresce ad ogni ora. La stella
che era l’ultima (prima di che cosa?)
ora non scorge più alcun confine
tra sé e il vuoto, sempre s’aggiunge
cielo al cielo, dilata il buio, nero
dopo nero. Sto qui in pensiero. Non era
l’universo già infinito?
Non era forma chiusa
ed assoluta? Ma se cammina
anche l’infinito, verso dove
si muove e come fa
a diventare più d'ora illimitato?
Rimango speculando sul pianeta,
che orbita tediato ed esitante,
da tempo più distante da qualcosa
che non sappiamo, insomma barcollante,
disorientato dentro l’universo
che si allontana e che diventa grande,
che giorno dopo giorno un poco espande
in soffi e leggerissime carezze,
miti bisbigli che aggiungono frammenti
di luce al buio, notte a antica notte.
Immagine ripresa dal sito Eso





Giuseppe Grattacaso
La vita dei bicchieri e delle stelle, Campanotto Editore

sabato 11 maggio 2013

MANCARSI di Diego De Silva (Einaudi)


Il nuovo romanzo di Diego De Silva, titolo Mancarsi tanto per alimentare subito qualche interrogativo, narra una storia d'amore. Anzi dice di quelle strane pieghe, dei mille dubbi e delle mille mezze verità, delle smanie e delle gioie, che nell'animo umano possono manifestarsi, quasi sempre si manifestano, nella vita di coppia. E insieme racconta quello che accade prima che una storia abbia inizio.
Diego De Silva
Il mancarsi del titolo fa infatti riferimento alla difficoltà di incontrarsi dei due protagonisti, entrambi reduci in modo diverso e diversamente traumatico da proprie vicende coniugali. I due, pur non conoscendosi, sembrano quasi cercarsi: frequentano infatti lo stesso bistrot, lì attratti non dalla cucina, ma dalle caratteristiche dell'ambiente, dalle gentilezze del cameriere, che ha per l'uno e per l'altra un occhio particolarmente attento e quasi affettuoso, e soprattutto da una foto di Buster Keaton, davanti alla quale tutti e due amano sedere. Ma l'uomo e la donna appunto si mancano, non hanno gli stessi tempi, sembra quasi non vogliano incontrarsi.
D'altra parte il termine mancarsi potrebbe anche alludere a una sorta di incapacità di centrare se stessi, o anche proprio potrebbe significare “mancare a se stessi”, non ritrovarsi, sentirsi fuori dalla propria stessa esistenza, inutili e stranieri alla propria vita, che è poi la condizione che vivono Irene e Nicola nelle distinte situazioni.
De Silva sa delle insidie e dei trabocchetti di cui è disseminata la narrazione, quando questa voglia parlare d'amore e delle complicate dinamiche del rapporto di coppia. L'argomento esige mano sicura: troppo facile scivolare nel sentimentalismo, farsi fagocitare dai luoghi comuni. De Silva sceglie dunque un tono leggero, che gli permette di non arretrare anche davanti ai contenuti più patetici; a tratti la narrazione si fa disincantata ed ironica, ma evitando esagerazioni e soluzioni facili. Il narratore segue i suoi personaggi con passo lieve e con partecipazione, accompagnandoli nelle loro meditazioni, nei cavilli mentali, anzi addentrandosi in essi (da qui l'uso estremamente ricorrente delle parentesi). Vincenzo Malinconico, l'avvocato protagonista dei suoi ultimi fortunatissimi romanzi (Non avevo capito niente, Mia suocera beve) non è passato invano, perché Irene e Nicola, le cui due vicende si snodano separatamente e in qualche modo in parallelo, tendono come l'avvocato alla riflessione, ammassano pensieri, propongono ricordi, ritardano le azioni mentre intrecciano teorie sull'esistenza. Insomma si guardano vivere, ma lo fanno con la consapevolezza che la vita sia anche pausa, momento d'attesa, e che la passione, per quanto dirompente, non debba essere per forza gridata.
Irene e Nicola cercano la risposta alla loro domanda d'amore, ma lo fanno senza clamore, senza sbandierare i sentimenti e senza nemmeno credere che essi siano un diritto. Anche per questo sono personaggi che osservano se stessi e gli altri, dei quali non gradiscono gli atteggiamenti esibiti, le modalità di relazione costruite sui modelli televisivi, le ovvietà e i luoghi comuni che condiscono i rapporti tra i due sessi. Per loro la parola gentilezza assume ancora un valore genuino e fondamentale, e si presenta come un misto di attenzione verso l'altro, timidezza e rispetto delle forme.
Così quando Pavel, il cameriere del bistrot, prima di tendergli la mano, se la asciuga sul grembiule, Nicola scopre nel gesto un “atto antico, deferente e confidenziale insieme” e ripensa al nonno che nei campi si puliva la mano sulla canottiera, prima di metterla sulle spalle del nipote che si era recato a chiamarlo per il pranzo. “Non gli sembrava tanto un atto di umiltà, dovuto alla vergogna di fare un lavoro che sporca, e neppure un automatismo. Nell'insufficienza igienica di quel gesto, nel suo valore tutto sommato simbolico, Nicola riconosceva piuttosto uno stile, un azzeramento dei convenevoli, una traduzione immediata della forma in sostanza”.
L'immagine che meglio rappresenta questo stile è forse proprio quella di Buster Keaton, la cui foto tanto attrae Irene e Nicola: l'immagine del comico che seppe essere elegante senza mai vestire bene, seppe far ridere senza abbozzare nemmeno un sorriso, continuò a mostrare tutta la leggerezza della sua figura anche al centro di inenarrabili e caotiche situazioni, e fu capace di muoversi con armonia anche nel pieno di un capitombolo.


(pubblicato sul sito Giudizio Universale)