lunedì 19 novembre 2012

Bartolo Cattafi, la poesia sotto il segno dell'imprevisto

Cattafi fotografato da Walter Mori nel 1972

A proposito ancora del mestiere di poeta, credo sia giusto rileggere uno scritto autobiografico di Bartolo Cattafi, che risale ai primi anni Settanta. Cattafi entra a pieno diritto in questo blog, che ospita spesso parole di poeti dimenticati: del poeta nato a Barcellona Pozzo di Gotto, che quest'anno compirebbe novant'anni non fosse stato portato via da un male incurabile già nel 1979, c'è poca traccia nella memoria dei nostri smemorati tempi e nelle antologie, scolastiche e non, che tratteggiano un indice e propongono un compendio della storia poetica del secolo scorso. Suonano perciò infauste, oltre che veritiere e ancora attuali, le considerazioni di Carlo Bo, pronunciate in occasione di un convegno all'indomani della morte del poeta: “Quando si tireranno le somme del libro della poesia del Novecento, a Cattafi spetterà un posto privilegiato e, ciò che più conta, ottenuto esclusivamente con le sue forze. Si vedrà che a volte vale assai di più una parola tesa all'assoluto che una fondata sul calcolo e su un'avvilente speculazione delle opportunità. Un caso unico, lo ripetiamo, e sarebbe giusto che tutti ormai lo riconoscessero”.
Il riconoscimento insomma tarda ad arrivare. Arriva per ora la notizia felice della prossima ripubblicazione del libro delle Poesie 1943 -1979, edito nel 1990 nella collana dello Specchio di Mondadori a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni.
Tornando alla sua pagina autobiografica, Cattafi scrive, a proposito delle sue prime prove poetiche avvenute nel mezzo della guerra: “Le mille cose che quella snervante primavera mi proponeva erano magicamente gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni. Come in una seconda infanzia cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo”.
Nell'immagine dell'ingenuo inventario del mondo, nella capacità di posare lo sguardo su oggetti minuti e situazioni marginali apparentemente insignificanti, e ricavarne, con lucida e temeraria chiarezza, necessità assolute, è la forza e la caratteristica forse prevalente della sua poesia.
La storia dei miei versi – scrive ancora Cattafi - non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell'intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l'impossibile colpo di dadi”.
Si tratta di una trasparente dichiarazione di poetica, sostenuta con coraggiosa consapevolezza in anni di sperimentalismo e di astruserie verbali.
Non mi riesce di capire il mestiere di poeta, i ferri, il laboratorio di questo mestiere. Quella del poeta è secondo me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini. Di là dagli schemi mentali, dalle velleità, dalle frigide volizioni e dalle sapienti masturbazioni, la poesia nasce sotto il segno apparente dell'imprevisto (vi sono misteriose maturazioni, catalizzatori non sempre identificabili, forze e forme insospettate che si liberano rompendo lo stato di quiete, che scattano e si scatenano secondo le linee d'un disegno naturale a cui bisogna con coraggio arrendersi, individuandolo e potenziandolo, per quanto consentito, con accorta vigilanza in mezzo alla selva allettante degli inganni, dei miraggi, delle false rappresentazioni). Poesia è dunque per me avventura, viaggio, scoperta, vitale reperimento degli idoli della tribù, tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale”.
Da scrivere sui muri. Da far copiare e mandare a memoria ai molti poeti e ai pochi lettori di oggi. Da raccontare ai ragazzi.


lunedì 12 novembre 2012

Professione: poeta


Quando muore un cantautore, semmai particolarmente apprezzato dal pubblico, si dice che se n'è andato un poeta. Succede anche quando si tratta di artisti che hanno firmato le musiche delle loro canzoni e non hanno mai scritto un testo. Del resto, amiamo dire che un regista cinematografico è un poeta se le immagini che confeziona e ci propone sono particolarmente evocative e affascinanti; o che un attaccante di una squadra di calcio è un “poeta del gol” se trova, pallone al piede, soluzioni impreviste e fantasiose.
Costantino Kavafis
In tutti questi casi, l'appellativo di poeta qualifica in positivo un modo di esprimersi, attraverso la propria opera o i propri comportamenti, genialmente immaginoso e inusuale.
Rimarremmo però con l'aria stupefatta e imbarazzata di fronte a qualcuno che, alla domanda “scusi, ma lei che lavoro fa?”, rispondesse “il poeta”. E' forse un mestiere scrivere versi? corrisponde ad una figura sociale riconosciuta e ben individuabile?
In effetti qualsiasi poeta identificato come tale, che abbia all'attivo la pubblicazione di più di una raccolta di poesie, aggirerebbe la domanda facilmente, fornendo uno status identificativo, forse meno vero ma sicuramente, agli occhi di un possibile interlocutore, più concreto. Valerio Magrelli, Biancamaria Frabotta, Alberto Bertoni, Roberto Deidier risponderebbero di essere professori universitari, Franco Marcoaldi e chissà quanti altri di fare il giornalista, Mariella Bettarini di essere stata, come Giorgio Caproni, maestra elementare, Claudio Damiani di insegnare in un istituto superiore. E comunque quasi tutti potrebbero dire, così da evitare ritegno ed impaccio, di essere critici letterari.
Di certo sulla carta di identità di nessuno di loro appare la qualifica di “poeta”.
Solo Costantino Kavafis, negli ultimi mesi della sua vita, riuscì ad ottenere che il suo mestiere fosse scritto chiaramente sul documento di riconoscimento. Professione: poeta. Pare ne andasse molto fiero.    

giovedì 1 novembre 2012

Il maestro elementare Giorgio Caproni


Antonio Debenedetti, in un'intervista televisiva, racconta di essere stato allievo di Giorgio Caproni. Suo padre Giacomo, il ben noto critico letterario, l'aveva lasciato lungamente in giardino mentre era a colloquio con Benedetto Croce. Il piccolo si era ammalato e così Caproni, al fine di sdebitarsi per i consigli ricevuti da Debenedetti padre in merito alla traduzione della Recherche a cui stava lavorando, si era proposto di fare da maestro al bambino nei lunghi mesi invernali in cui sarebbe stato assente dalla scuola. Erano gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale.
“Con lui non è che si facessero proprio delle lezioni - ricorda Antonio Debenedetti – . Per esempio scrivevamo delle poesie a due voci oppure insegnava le divisioni attraverso una specie di filastrocca. Era un maestro straordinario e ironico”.
Caproni in una foto di Dino Ignani
Caproni è stato maestro elementare. Aveva iniziato a insegnare nell'anno scolastico 1935-36 a Rovegno. Trasferitosi a Roma, fu alle scuole elementari Pascoli e poi alle Crispi di Monteverde Vecchio. Vincenzo Cerami, che frequentò a lungo il poeta livornese, lo ricorda in un articolo di qualche anno fa come un maestro molto amato, che usava metodi singolari di insegnamento. Per esempio, scrive Cerami, “i bambini entravano in classe e si trovavano già seduto in cattedra un Caproni teso e preoccupato che subito chiedeva aiuto. Diceva: ragazzi, sono rovinato! Oggi dobbiamo studiare le campagne di Napoleone e non mi sono preparato abbastanza. Se lo sa il direttore scolastico mi licenzia. Come si fa? I bambini, impietositi dal furbo maestro, lo tranquillizzavano e gli rispondevano: non preoccuparti, maestro, ti aiutiamo noi a studiare Napoleone. Ti leggiamo il capitolo a voce alta così se entra il direttore vede che tu sei preparato e non ti licenza”.
Una volta si fece trovare indaffarato, mentre con il metro misurava la lavagna. “Il direttore vuole sapere la superficie della lavagna – disse il maestro – e non ricordo come si fa a calcolarla”. Base per altezza, suggerì qualcuno. “Perché?” chiese pronto Caproni. Ne nacque un'interessante discussione.
Caproni “era quasi un fratello maggiore per i suoi alunni”. Scrive Cerami che chi terminava per primo un problema o una composizione d'italiano, veniva mandato a comperare un quotidiano e i canestrelli. Con essi infatti venivano premiati il primo e l'ultimo degli scolari, quasi a sottolineare che ai suoi occhi avevano lo stesso merito.
Aiutava tutti, soprattutto chi era in difficoltà. Si intratteneva spesso con i ragazzi anche dopo l'orario scolastico, e non era contento finché tutti non avessero capito. Era sempre di un'allegria contagiosa, faceva studiare le poesie a memoria, ma ai suoi alunni non disse mai di essere lui stesso un poeta”.
Chissà se oggi, in una scuola troppo spesso asservita a farraginose pratiche burocratiche, il maestro elementare Giorgio Caproni avrebbe modo di utilizzare la sua ironica leggerezza, così capace di suggerire grandi contenuti, il suo animo di violinista, la profonda umanità di chi crede che la scuola debba servire proprio a tutti per essere migliori, ma soprattutto a chi della scuola sembrerebbe non sapere che farsene. Certo servirebbe almeno un Caproni in ciascuna scuola di ogni ordine e grado. Così, tanto per dare un'opportunità anche all'alunno svogliato, seduto all'ultimo banco, con il quale è inutile sforzarsi, “tanto non capisce”. O per vedere visi sorridenti di fronte a una poesia o a un problema di matematica.