martedì 31 luglio 2012

Mercuzio: fine pena mai (ovvero Armando Punzo e la poesia)



L'attività di Armando Punzo all'interno del carcere di Volterra è giustamente nota. Anche quest'anno il regista ha presentato nella casa di reclusione di Volterra con la sua Compagnia della Fortezza un'opera densa, carica di significati, capace di pressare lo spettatore trasportandolo su un tapis roulant che scarta continuamente e induce ad una riflessione sempre significativamente divagante, ma che converge infine verso un unico quadro di insieme che genera un'intensa reazione emotiva. C'è da chiedersi da dove nasca questa forza, che cosa accade tra le mura del carcere perché l'esperienza teatrale che lì nasce e si produce riesca a stupire e a coinvolgere così tanto lo spettatore. Credo che dipenda dalla capacità di Punzo di costruire uno spettacolo che sappia essere popolare nello stesso momento in cui si presenta come un evento elegante ed extravagante; un'opera che riesca ad evocare la tradizione, anche la più consueta, quella appunto che appartiene al sentire comune di più generazioni e non è confinata nell'ambito intellettuale, proprio quando sembra allontanarsi dai percorsi abituali e tentare strade poco battute, che sia capace di parlare al cuore mentre si propone come operazione di alto livello culturale. E' il teatro, bellezza, e tu non puoi farci niente, direbbe il Bogart di Quarto potere. E' il teatro, con la sua magia, la follia, la commozione, la suggestione e il turbamento, i suoi luoghi deputati, come lo è diventato, ormai da tempo, il cortile del carcere di Volterra.
Mercuzio non vuole morire accende i riflettori su quella che, a detta di Punzo, è la vera tragedia del Romeo e Giulietta, cioè la morte di Mercuzio, il poeta che parla di nulla perché parla dei sogni, e che dunque non può vivere in una società dove la violenza e la sopraffazione, la volgarità che esse producono, tolgono forza alle parole, almeno quando queste intendono veramente comunicare. Punzo insomma, in quel suo modo visionario istrionico trepidante eccitato e a tratti scanzonato, parla della poesia e dell'arte, della sua necessaria sopravvivenza in un mondo che sembra andare in tutt'altra direzione, affidando le parole di Shakespeare (non solo dal Romeo e Giulietta), di Baudelaire, Cervantes, Dante, Majakovskji, alla sua scrupolosa compagnia di attori detenuti e facendo entrare all'interno del carcere il mondo di fuori, i paesaggi cittadini su enormi pannelli, e le persone cosiddette libere, chiamate ad essere a loro volta protagoniste dell'evento, salvo poi, come è avvenuto appunto quest'anno, ribaltare la prospettiva e condurre attori e spettatori fuori dal carcere per fare in modo che siano i cittadini a diventare a loro volta attori, le strade e le piazze il grande scenario in cui si consuma la tragedia.
Infine la forza emotiva dello spettacolo è anche nel personaggio di Mercuzio, verso i cui ideali, sottilmente evocati, Punzo e i suoi attori sospingono gli spettatori. Lo scambio di ruoli, il continuo scivolamento di prospettiva, il bagaglio di sensazioni e di parole si consegnano al pubblico in un equilibrio imprevisto, tenuto insieme da un filo tenue e solidissimo, che lega e dà sostanza ai diversi frammenti, ai brani e ai lacerti di cui la messa in scena si ciba e si appropria, scomponendo e ricomponendo l'immagine complessiva che lo spettacolo poco a poco costruisce.
Il filo evanescente e tenace, che avvolge e mescola, che avvinghia e avvince, è proprio la poesia. Armando Punzo ci dice che è in fondo la poesia (l'arte, se volete) a dare consistenza alla realtà, a rimettere insieme le parti, a ricostruire e riunire. Senza la parola, senza la poesia, i nostri sogni sarebbero vuoti e non saprebbero dirci in quale direzione proseguire il cammino, perché senza sogni diventa inconsistente ogni possibilità di cambiamento, impossibile crescere, difficile avanzare.

E Mercuzio? Il poeta che non partecipa alla tragedia di Capuleti e Montecchi, tanto da cadere in duello appena la contesa ha inizio, non vuole morire, e lancia, attraverso Punzo e i suoi attori, il suo grido innocente e disperato. Ma Mercuzio è costretto a morire, a ripetere all'infinito la scena della sua morte, a cadere esanime, per potere poi rialzarsi con nuova e altrettanto disperata vitalità. La pena di Mercuzio è quella che lo costringe ad assumere su di sé la sofferenza e i disastri del mondo, la bellezza e la grandezza senza spiegazione, e pertanto intollerabile, dell'esistenza, la vita e la morte. Ed è una pena che non ha mai termine.

lunedì 30 luglio 2012

AFFARI DI CUORE di Paolo Ruffilli (Einaudi)


Paolo Ruffilli ha costruito le sue ultime raccolte di versi (tra le quali vale la pena ricordare il notevole esito di La gioia e il lutto) intorno ad un'idea forte centrale, un tema dal quale sviluppare le singole riflessioni. Accade lo stesso anche con Affari di cuore, il volume recentemente pubblicato per i tipi di Einaudi.
Attingendo alla lunga tradizione del canzoniere d'amore, con lo sguardo particolarmente puntato alle origini cortesi, stilnoviste e petrarchesche, Ruffilli manifesta fin dai primi versi una propria idea dell'atto amoroso, rivolto non verso una singola figura di donna, semmai idealizzata, ma considerato quale sentimento puro e durevole pur nelle sue molteplici manifestazioni e nei vorticosi e spesso contraddittori accadimenti. L'amore insomma se è tale non può essere circoscritto dentro esiti prevedibili e codificati, ma è scoperta continua, combinazione imprevedibile di bene e male, dialogo disarmonico e dissacrante tra spinta spirituale e vertigine erotica. L'amore riesce a fornire una ragione alle nostre esistenze, attraverso la presenza della persona amata, che diventa obiettivo e fine delle nostre azioni, ma anche minaccia, trasalimento, composizione impossibile di felicità e disperazione. Nel cammino verso la persona desiderata cerchiamo la possibilità di riconoscerci nell'altro, di pervenire all'impossibile conciliazione degli opposti: “E non volere / più niente d'altro, / se non essere te / dentro di te / nel cuore del tuo cuore, / diventato parte / del tuo stesso odore”.
L'amore sottrae dalla vita e dunque difende l'amante dai violenti assalti della quotidianità. Sembra che nulla possa davvero far male, tranne l'amore stesso, ma in effetti il mondo aspetta fuori dalla porta “benevolo e indulgente / con le nostre vite”, ma alla fine il gioco è smascherato, perché “il mondo vince sempre / tutte le partite”.
Gli esiti più felici della raccolta vanno trovati proprio in questa dialettica continua tra il rassicurante circolo chiuso in cui vive la coppia e l'inevitabile presenza del mondo, tra il bisogno di infinito che nell'amore sembra realizzarsi e la finitezza che ogni atto della vita porta inevitabilmente con sé (“l'idea di un infinito / perfino quotidiano, / lasciato in sorte / al corpo dell'amore”), tra la straniata condizione dell'innamoramento che ci fa prigionieri e il piacere di sentirci incatenati ed alienati.
Nella poesia La traccia ad esempio, ripercorrere i tratti amati del corpo della donna sembra offrire una possibile via di scampo, una soluzione alla nostra fragilità. Ma si tratta di una traccia destinata a svanire: “Solo il dettaglio / nel farsi oggetto / e luogo circoscritto / ai nostri sensi, / rende presente / e non più astratto / né più evanescente / o spento e vano / l'istinto a opporre / al tempo un'immanenza / fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che la traccia / slitti via / cadendo a fondo”.
Ruffilli privilegia un tono popolare, che sa comunque guardare alla tradizione letteraria della canzone e che introduce nella sequenza cantilenante del linguaggio quotidiano una serie di metafore che vengono assorbite nell'evento e prontamente smascherate.


(pubblicato sul sito Giudizio Universale)  

venerdì 27 luglio 2012

Alessandro Parronchi: una poesia per Nadia Comaneci


Cominciano oggi le Olimpiadi di Londra. A me è venuta in mente una poesia che Alessandro Parronchi scrisse nel 1976, contenuta nella raccolta Replay, pubblicata da Garzanti nel 1980. Parronchi era nato a Firenze nel 1914. Nella stessa città è morto nel gennaio del 2007. Ha pertanto vissuto da protagonista, sia pure in un suo modo gentile e appartato, una stagione culturalmente viva e significativa, segnata da presenze ed esperienze importanti. A Firenze Parronchi ha sempre vissuto e ha insegnato all'Università, è stato un critico d'arte di grande sensibilità e intelligenza e ha dedicato studi fondamentali all'arte e all'architettura del Rinascimento, fino poi ad essere testimone sempre più ai margini degli anni della decadenza della città, così profonda da modificarne, almeno in parte, l'identità morale.
Era Parronchi un signore d'altri tempi, dotato di un aplomb anglosassone, a disagio appunto negli ultimi anni, ma sempre estremamente curioso delle vite degli altri, disposto a un confronto serrato anche con le manifestazioni più ordinarie dell'esistenza.
Della sua garbata e limpida pietas, è esempio la poesia A Nadia Comaneci, incerta sul cavallo. Tutti ricorderanno la giovane ginnasta rumena che alle Olimpiadi di Montreal del 1976 vinse tre medaglie d'oro e fu la prima al mondo ad ottenere il punteggio complessivo di 10 dopo una strepitosa prestazione alle parallele asimmetriche.
Trascrivo, senza altro aggiungere, ma con una forte dose di commozione e di nostalgia, le due ultime strofe della poesia. Vale la pena solo accennare alla triste successiva parabola della vita della Comaneci (che la poesia sembra in qualche modo presagire), fino alla fuga negli Stati Uniti nel 1989 e al definitivo riscatto.
Nadia Comaneci alle Olimpiadi di Montreal del 1976

E ora, prima che la cresta
dell'onda si sia ripiegata
- prima che un rotocalco
sveli la tua vita privata,
o ti riduca a schema
come una rotellina del sistema -
sii quale appari, perfetta
forma di giovinetta,
col ritmo del tempo coinciso
il tuo ritmo e il tuo sorriso
quando, un attimo vinta
la resistenza la spinta,
torna a dar consistenza
alla terra la tua cadenza.

Ma fino a quando – a me lo chiedo -
potrai lanciarti come viva foglia
che inventa il vento da cui viene avvinta
in mulinello, senza
che il ritornare a terra ne scomponga
la compattezza aerea?
E' gioia d'un istante: anche se vera
non dura una preghiera.
E forse a ogni stagione, in ogni età
il più di sé può darlo
solo chi crede al vento che trascina
il mulinello d'immondizie,
chi non si salva, chi non si sottrae,
un ramo vivo, strappato
a una pianta che si credeva morta,
uno, con l'estro ancora di rispondere
ai perché d'una volta.  

sabato 21 luglio 2012

Aria pubblica, aria privata


Patrizia Cavalli

Luglio: le strade del centro cittadino sono occupate da una serie di insignificanti appuntamenti, che gli amministratori locali si sforzano di chiamare eventi culturali. Nello slargo, davanti a quello che una volta fu un Caffè elegante e ora è un triste locale deserto, quattro persone parlano di cibi sani e di qualità della vita. Urlano nei microfoni, le loro voci lottano con l'evento che si consuma cinquanta metri più in là, dove tra un bar, un negozio di intimo e una profumeria (nei centri storici delle città di provincia puoi trovarti senza pane, ma non ti mancherà mai una mutanda e un dopobarba) una cantante cinquantenne dal trucco esagerato e dalla capigliatura improbabile si esibisce in una sequenza di classici da discoteca. Poco più avanti è stato allestito un karaoke, nella via d'angolo una scuola di danza ha appena finito la sua esibizione: la strada è ancora chiusa dalle transenne, malgrado l'evento sia ormai da un po' terminato. Nella piazza del Duomo il palco che per tre settimane ne ha occupato un lato ha lasciato da qualche giorno posto alla pista in terra battuta dove si svolgerà l'immancabile, e storicamente poco accreditata, giostra medievale. Ci aspettano corteggi, cavalieri con gli occhiali, sbandieratori sbandieranti e dame in abiti di broccato che hanno trascorso il pomeriggio dal parrucchiere.
La piazzetta dove quotidianamente si svolge il mercato è diventata un grande ristorante all'aperto, al quale si accede però solo se invitati da non so quale associazione di commercianti. Per raggiungerla devo attraversare un mercatino di chincaglierie di vario genere, tra sentori di incenso, olezzi di saponi che dovrebbero curare l'insonnia e effluvi che provengono dal furgone del paninaro.
E' mezzanotte e schivando accaldate orde schiamazzanti, transenne e gruppi musicali petulanti, faccio rapido ritorno a casa: per sentirmi meno inadeguato di fronte allo spirito dei tempi mi è venuta voglia di rileggere Aria pubblica, il poemetto di Patrizia Cavalli, prima pubblicato nei sassi di Nottetempo e poi raccolto nell'einaudiano Pigre divinità e pigra sorte.

L'aria è di tutti, non è di tutti l'aria?
Così è una piazza, spazio di città.
Pubblico spazio, ossia pubblica aria
che se è di tutti non può essere occupata
perché diventerebbe aria privata.
Ma se una piazza insieme alla sua aria
è in modo irrevocabile ingombrata
da stabili e lucrose attività,
questa non è più piazza e la sua aria
non è che mercantile aria privata.

Comincia così il poemetto della Cavalli. Mi sento meno solo nella mia rabbiosa incapacità ad accettare un'estate dove il divertimento passa attraverso il rumore che si riesce a produrre, lo spazio che si deve riempire, la fetta di notte che si deve occupare, eliminando la possibilità che altri possano divertirsi e trascorrere la notte in modo diverso.

I delegati a conservare il bene
di tutti, cittadini e forestieri,
fuggono il vuoto come peste nera,
per loro il vuoto è vuoto di potere.
Non c'è piazzetta slargo o marciapiede
strada o rientranza che, sequestrata,
non si trasformi in gabbia. Da riempire.
Che cosa la riempie non importa:
chiasso puzze concerto promozioni
i cinquemila culturali eventi
fiere-mercato libri chioschi incensi
corpi seduti o in piedi nella mischia,
purché sia tutto pieno, dura festa.

Una volta, parlando a cena di questo argomento, Patrizia Cavalli mi raccontò, in quel suo modo sarcastico e falsamente innocente, della sua vita romana a due passi da Campo dei Fiori, di come era cambiata negli ultimi anni, dell'aggressione di cui ci si è vittime quando appunto non si riesce a oltrepassare una piazza senza sentirsi, invece che in un luogo pubblico, in “un lugubre infinito lunapark”. E concluse: “sono furiosa, buon per te, che vivi a Pistoia”.  

venerdì 6 luglio 2012

Alfonso Gatto al Giro, sognando di volare


Gatto e Pratolini (secondo e terzo da destra) al Giro
Giro d'Italia del 1947, il secondo dopo la pausa bellica. Sono gli anni della rivalità tra Bartali e Coppi, delle imprese eroiche su strade appena praticabili, dell'entusiasmo genuino della gente, che nasce dalla speranza e dalla voglia di superare gli eventi terribili della guerra. Tra i corridori si muove in una larga tuta azzurra, sulla quale campeggia la scritta L'Unità, il poeta Alfonso Gatto. Ha trentotto anni, proprio come il Giro. Con la corsa ciclistica che rappresenta gli italiani ha condiviso dunque sofferenze, aspettative e illusioni. Al suo fianco un narratore di successo, una delle firme allora più amate della sinistra: Vasco Pratolini, inviato al Giro del Nuovo Corriere.
Gatto era un abile nuotatore, amava il ciclismo oltre al gioco del calcio (grande tifoso del Milan e di Rivera in particolare, mentre Pratolini naturalmente teneva per la Fiorentina), ma non sapeva andare in bicicletta, condizione assai strana in un'epoca in cui uomini e donne si muovevano soprattutto pigiando sui pedali. Tra i ciclisti che si lanciano lungo discese da capogiro, che scalano montagne dondolando come ballerine e soffrendo come pugili, un uomo che non sa andare in bici fa sicuramente notizia. E infatti, quando la voce si diffonde tra capitani e gregari della carovana, il poeta salernitano diviene il caso da additare e da guardare con commiserazione.
Lo scrive lo stesso Gatto in un articolo da Pescara, del 6 giugno, raccolto, insieme ad altre cronache del poeta dal Giro e dal Tour, in un volume del 1983, ormai introvabile, curato da Luigi Giordano per conto delle edizioni Il Catalogo di Lelio Schiavone.
Quel giorno Coppi, “che è un bravo ragazzo” scrive Gatto, propone di fargli da maestro. “Si immagini quale onore per me – risponde l'autore de Il capo sulla neve -; ma è come se un bambino che deve frequentare la prima classe abbia per maestro un professore d'Università”. Il campione insiste e i due si danno appuntamento per una lezione. Anche davanti all'insigne professore, Gatto non riesce a stare in equilibrio, ha paura di fallire, si sente inadeguato. “Mi lasci scendere”, supplica. E' troppo tardi, il poeta crolla per terra, mentre Coppi scuote la testa e decine di curiosi “non si azzardano nemmeno a ridere per la soggezione di vedersi lì Coppi davanti con l'aria del maestro”. “Ma io so nuotare” cerca di spiegare Gatto a Coppi e agli altri, senza ottenere però nemmeno un'alzata di spalle.
“Intanto tutta la città parla e sparla di me – conclude Alfonso Gatto -, i miei colleghi non sanno come comportarsi. Ma di una cosa sono certo: che se io sapessi andare in bicicletta sarei un campione. E' ridicolo che ci si serva di quella macchina da angeli per camminare come fanno tutti. Cadrò, cadrò sempre fino all'ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare”.
Fausto Coppi vince il Giro d'Italia del 1947
Che lezione viene da questa caduta di bicicletta! E che grande esempio di giornalismo è questo! Non tiene conto forse di quei princìpi che vengono insegnati nelle scuole che devono formare i professionisti dell'informazione, ma l'articolo è straordinariamente pieno di forza vitale, di umanità, di una curiosità che riesce a dare valore ad ogni avvenimento, anche il più futile. Coppi, vestito da maestro, e Alfonso Gatto, con l'aria dell'alunno un po' discolo, rappresentano un'immagine che dovrebbe restare scolpita nel cuore del nostro Paese. E poi: le biciclette che diventano “macchine da angeli” e dunque non possono servire solo a camminare sono come le parole per il poeta Gatto, anche quando scrive da giornalista: non possono servire solo a comunicare, ma devono aprire nuovi orizzonti, permetterci di cadere per sognare di volare.