martedì 26 marzo 2013

MI RICONOSCI di Andrea Bajani (Feltrinelli)


Antonio Tabucchi

La scrittura è tra gli strumenti privilegiati per attraversare il dolore. E' a volte terapia, più spesso percorso di analisi e di conoscenza per ricordarci quello che siamo, la nostra finitezza. E' attraverso la scrittura che siamo in grado di parlare della nostra fragilità, di fare i conti con essa, di guardarla negli occhi invece di evitarla. E' una materia difficile, il dolore: le parole si intimoriscono, vorrebbero fuggire, ma sanno che il loro compito è quello di affondare in questo tratto di umanità che ci appartiene e segna nel profondo le nostre esistenze. Ancora più difficile è dire la morte, raccontarla nella sua sconfortante semplicità. Gli uomini del nostro tempo non amano soffermarsi sui temi della fragilità e della morte. Vogliono credere che sia sempre possibile una soluzione, una via di fuga.
Non cerca scappatoie invece Andrea Bajani, che di fronte alla morte di Antonio Tabucchi, non può fare altro che penetrare all'interno del dolore per la scomparsa dell'amico, raccontandone la fine e riflettendo sul percorso comune di sussurrata complicità e di tenera amicizia che ha legato le loro esistenze. La morte di una persona cara, tradotta in letteratura, è materia difficile, scivolosa e che nasconde molte insidie. Soprattutto presenta il rischio di risultare molesta ai tanti che credono che la morte abbia diritto di essere descritta solo sulle pagine di cronaca dei giornali. Ma Bajani sa evitare retorica e sentimentalismo, si muove con delicatezza e decisione, sul filo di un equilibrio sottile costituito dagli avvenimenti reali e dalle suggestioni e dai fantasmi, altrettanto concreti si direbbe, che gli accadimenti suggeriscono.
La narrazione di Mi riconosci si sviluppa proprio a partire dal giorno del funerale di Tabucchi, dal corteo verso il cimitero del Prazeres a Lisbona, e segue il filo dei ricordi, senza che l'ordine cronologico possa disturbare l'altro ordine, più profondo e significativo, realizzato dalle direzioni che prende l'affetto e dal movimento malfermo ed ondeggiante della memoria.
Andrea Bajani
Lo scrittore giovane si rivolge direttamente allo scrittore famoso, quasi che il libro fosse una lunga lettera, riprendendo peraltro una modalità di scrittura tante volte utilizzata da Tabucchi nei suoi racconti. Bajani nelle pagine di Mi riconosci è in qualche modo Tabucchi stesso, ne assume lo sguardo e la scrittura, ed è il figlio che deve fare i conti con la scomparsa del padre, che cerca di ricostruire attraverso le parole il rapporto che l'ha legato all'amico-genitore-scrittore, con l'obiettivo, che di tanto in tanto si palesa, di chiarire innanzitutto a se stesso l'eredità affettiva e intellettuale che l'altro gli ha lasciato.
Si delinea pagina dopo pagina un ritratto di Antonio Tabucchi, costruito attraverso piccoli avvenimenti quotidiani: personaggio carismatico, dotato di grande ironia, ma anche di repentini annuvolamenti, comunque sempre in grado di stupire e totalmente affascinato dalla parola e dalle storie che la parola rende possibili.
Bajani racconta che dopo un breve soggiorno in Alentejo, Tabucchi accompagna l'amico a Lisbona. Una volta a destinazione decidono di di raggiungere Largo do Chiado. Bajani si accorge di aver lasciato il portafoglio in macchina e torna sui suoi passi. Quando poi raggiunge il caffè Brasileira, dov'è la statua di Pessoa seduto a un tavolino dello storico locale, non trova più Tabucchi. Mentre sta componendo il suo numero al cellulare, lo vede uscire, scrive Bajani, “dalla statua di Pessoa, come se per tutto il tempo che non ti avevo visto fossi stato chiuso lì e poi in quel momento ne fossi venuto fuori e ti fossi incamminato per la via. E ti avevo guardato allontanarti da quel corpo di bronzo da cui eri sbucato, partorito in mezzo a una notte lusitana”. Il giorno dopo lo scrittore più giovane prende l'aereo per fare ritorno in Italia. Dopo l'atterraggio accende il cellulare e trova un messaggio di Tabucchi. “Mi dicevi – ricorda – che in Portogallo si sentiva in maniera molto netta che ero passato per di là. Si sentiva il mio odore. E poi mi scrivevi un verso di Rilke dai Sonetti a Orfeo: Mi riconosci, aria, tu piena ancora di luoghi un tempo miei? Chiudevi dicendo Non sparire”.
La narrazione, spesso con i toni della confessione, spesso raccontando in termini quasi di leggenda, ribalta la richiesta di Tabucchi. Con il suo libro è Bajani a chiedere all'amico scomparso di non sparire. Perché la letteratura può attraversare il dolore anche in questo modo, rendendo ancora presente l'amico che non c'è più.


lunedì 25 marzo 2013

La vecchiaia di Natalia Ginzburg (e la nostra)


Natalia Ginzburg parla della vecchiaia in una prosa di Mai devi domandarmi, libro del 1970 composto di brevi saggi di argomento diverso, che ancora oggi risultano di grande interesse e di piacevole lettura. “La vecchiaia – scrive – vorrà dire in noi, essenzialmente, la fine dello stupore. Perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli altri. Noi non ci meraviglieremo più di niente, avendo passato la nostra vita a meravigliarci di tutto; e gli altri non si meraviglieranno di noi, sia perché ci hanno già visto fare e dire stranezze, sia perché non guarderanno più dalla nostra parte”.
Secondo la Ginzburg, questa incapacità di stupirci ci farà penetrare nel “regno della noia”. La vecchiaia infatti “s'annoia ed è noiosa”. Tuttavia questo processo per cui “a poco a poco veniamo cadendo nell'immobilità della pietra” è molto lento. Insomma, pur dentro a una stagione che è già vecchiaia, conserviamo l'abitudine a “crederci i giovani del nostro tempo”.
Coloro che invecchiano sono lentissimi nel “cambiare faccia e abitudini”, mentre il mondo invece vortica e muta con estrema velocità: con rapidità “si trasformano luoghi e crescono giovani e bambini”. Avviene così che il mondo che abbiamo davanti agli occhi “ci sfugge e ci appare indecifrabile”, e noi riusciamo a decifrare soltanto “le poche e pallide tracce di quanto è stato”.
Natalia Ginzburg
“Il mondo che abbiamo davanti e che ci appare inabitabile – scrive ancora la Ginzburg – , sarà tuttavia abitato e forse amato da alcune creature che amiamo”. Ma il fatto che esso sia destinato ai nostri figli e ai figli dei nostri figli “non ci aiuta a capirlo di più, ma anzi aumenta la nostra confusione”. Così “misuriamo le immense distanze che ci separano dal presente” e ci stupiamo, noi che più di nulla ci meravigliamo, di come i nostri figli “riescano ad abitare e a decifrare il presente mentre noi restiamo “assorti a sillabare ancora limpide e chiare le parole che incantavano la nostra gioventù”.
Le pagine della Ginzburg mi hanno molto colpito. Innanzitutto perché hanno il dono di penetrare con rara forza di analisi nell'argomento, attraverso una prosa limpida e precisa, ma forse anche perché il tema affrontato mi riguarda da vicino. Mi chiedo quando cominci la vecchiaia, se il suo limite, come affermano da qualche anno esperti e giornalisti, si sia veramente protratto nel tempo, se sia vero cioè che si diventa vecchi più tardi. Il fatto che mi ponga questa domanda sulla vecchiaia è probabilmente già un indizio che ci sono dentro, o che mi sto muovendo molto vicino al confine.
Natalia Ginzburg scrisse la prosa La vecchiaia nel dicembre del 1968, all'età di cinquantadue anni, qualche anno in meno dei miei attuali. Non c'è dubbio che la scrittrice stia parlando dell'argomento in generale, ma anche della sua propria vecchiaia, di un sentimento, e forse di un avvilimento, che sente crescere in sé. Ce lo dicono la prima persona plurale che caratterizza tutto il testo e il passaggio dal futuro al presente, quando dall'analisi di quello che sarà la vecchiaia si passa alle domande e alle riflessioni proprie di un'età che si avverte appunto di passaggio, quando il confine, così labile e evanescente, potrebbe essere stato già superato.
E' fuori di dubbio che oggi i corpi invecchiano più lentamente, almeno a guardare l'immagine che siamo in grado di fornire di noi stessi. Ho davanti agli occhi una foto di mio nonno, che risale alla meta degli anni Cinquanta. Sembrava già un vecchio (più o meno come me lo conserva la memoria, che fa riferimento però a un po' di anni avanti) ed aveva più o meno l'età della Ginzburg quando scrive il suo testo.
Bisogna riconoscere che il mondo agisce con fretta sempre più irrefrenabile e che le cose mutano così velocemente che niente è come venti o trenta anni fa, tanto che i nostri figli non conoscono gli oggetti che hanno animato la nostra giovinezza, e dunque non possono produrre pensieri che riguardano quegli oggetti, con i quali comprendere atteggiamenti e modi di vivere, quelli che hanno caratterizzato la nostra esistenza, avvertiti come lontani, anzi da loro di fatto inavvertiti.
Tutto questo forse vorrà dire che il nostro scollamento con il presente è già iniziato e con esso anche la nostra vecchiaia, ma che non ce ne accorgiamo perché siamo preda di un corpo che è costretto a sentirsi ancora giovane. Noi insomma restiamo “a sillabare limpide e chiare le parole che incantavano la nostra giovinezza”, come scrive Natalia Ginzburg, come se fossero le parole dell'oggi, ma esse appaiono vuote di senso. Non le capiscono i nostri figli, che in genere sono più giovani dei figli dei nostri nonni e dei nostri padri, ma in parte non le capiamo più nemmeno noi, impegnati come siamo a tenere testa ad un corpo che agisce ancora da giovane.
Il mondo procede con troppa fretta e dunque “le scialbe tracce del tempo di prima”, a cui si rivolge ancora la nostra attenzione e che alimentano i nostri errori, sono in effetti segni che si stanno dissolvendo o sono già spariti. Anche per questo la nostra vecchiaia, anche se più tardiva, sarà sicuramente più faticosa, perché siamo costretti a non apparire vecchi, a guardare con occhi interessati i cambiamenti vorticosi che il mondo produce, mentre vorremmo solamente accompagnare con paziente indolenza l'avanzata del tempo, guardare con serena incomprensione il mutare delle cose.
Insomma succede che il nostro passato appaia sempre più lontano e dunque, più giovani nell'immagine che offriamo di noi, siamo però costretti a constatare la nostra lontananza dal presente, segno incontrovertibile di una vecchiaia che appare improvvisamente vicina, senza che ne sia data notizia sui giornali.

lunedì 11 marzo 2013

Inutilità utilità della poesia


E' considerata utile in questi anni più di ogni altra cosa la tecnologia, in particolare applicata alle comunicazioni, e poi la genetica, che può dirci come sarà la nostra vita, prevedendone e risolvendone i problemi. Sono utili i farmaci, la beneficenza, la stravaganza quando è combinata alla moda, l'economia, i mercati finanziari, le statistiche, i sondaggi, tanto che attraverso un sondaggio potremmo capire cosa è ritenuto veramente utile al giorno d'oggi.
Foto Elisabetta Scarpini
E' da disprezzare, perché grandemente inutile, la capacità di impostare i problemi, senza poi risolverli, e con essa il pensiero che si sviluppa in lucide trame che non portano in nessun luogo concreto. Sono in fondo ritenute inutili la fisica astronomica, la filosofia, la poesia. E' da sfaccendati passeggiare senza avere una meta, che so dimagrire o raggiungere un negozio per un acquisto, nel quale ultimo caso si parla di shopping. E' del tutto inutile scrivere, se attraverso l'atto della scrittura non si comunica qualcosa di concreto o si cerca di fare un po' di soldi (per esempio scrivendo un libro di ricette di cucina, un romanzo di successo, una guida su come risparmiare). Sono molte le cose che vengono considerate inutili: tutte quelle che non portano un giovamento tangibile a se stessi, qualche volta agli altri, almeno nelle forme in cui siamo disposti a figurarceli.
Nell'opinione comune la velocità è utile, la lentezza inutile; la precisione è utile, la vaghezza inutile.
La poesia, che pure è massimamente inutile perché non risolve nessun problema e non comporta per chi la pratica, ma nemmeno per chi la legge, miglioramenti concreti, potrebbe in quest'epoca di velocissime tecnologie e di puntuali sondaggi, ritagliarsi un proprio piccolo spazio di utilità. La poesia, che sa essere estremamente rapida e dovrebbe essere per definizione precisa e rigorosa, potrebbe essere strumento privilegiato alla diffusione dell'idea che le cose inutili sono oggi necessarie alle nostre esistenze, perché ci permettono di rallentare, di errare prima di raggiungere la meta (pratica che può risultare utilissima al fine di una scoperta casuale), ci danno modo di spostare lo sguardo, di sviluppare nuove visioni, tutte cose che alla lunga potrebbero risultare grandemente utili e concrete.
Bisogna però che i poeti del nuovo millennio si sforzino di considerare la poesia non come pura astrazione, come atto avulso da ogni contesto e libero da un interlocutore, privatissima esternazione, e ne avvertano invece la straordinaria forza comunicativa.
Troppo spesso l'assioma della inutilità della poesia è un alibi per restare chiusi nel recinto, per continuare a parlare solo a se stessi, per sentirsi quelli che hanno raggiunto la verità o che potrebbero farlo solo in quanto poeti. L'inutilità della poesia permette ai poeti di sentirsi appagati, di non aver bisogno degli altri, nemmeno dei lettori.
Ma se così fosse, se la poesia conducesse alla verità e ad una condizione di soddisfazione e completezza almeno per chi scrive, essa allora sarebbe considerata utile.

venerdì 1 marzo 2013

L'Aula Museo


I ragazzi hanno delle belle facce, quando si muovono dal banco e vengono verso la cattedra. Uno alla volta, devono presentare e leggere ai compagni una poesia che loro stessi hanno scelto. Sono giustamente concentrati, un poco emozionati. Al di là della finestra finalmente il mondo brilla per una bella giornata di sole. Risplendono le chiome degli alberi del giardino attiguo alla scuola. Anche il brutto palazzo di fronte, che si alza poco austero ma molto invadente dall'altra parte della strada, sembra meno indifferente alle vicende degli uomini.
Basta però riportare lo sguardo all'interno dell'aula, spostarlo dai volti degli alunni all'ambiente che li accoglie, e ci si ritrova subito a lottare con un senso profondo di tristezza, una cappa grigia che invade lo spirito, come sono grigi i muri che vorrebbero apparire bianchi, come sono grigie e impolverate le tende alle finestre, tristi, tristissimi gli attaccapanni. Il piano della cattedra è rivestito di un materiale che ricorda la fòrmica, un laminato plastico che negli anni Sessanta si usava per i mobili di cucina, ma chissà in effetti di che sostanza si tratti.
Concentrati su altri problemi, altre mancanze ben più importanti ed essenziali, degli arredamenti delle nostre scuole si parla poco. Eppure i nostri figli passano una parte consistente delle loro giornate in ambienti deprimenti, quando non addirittura opprimenti. Le aule sono brutte, quasi sempre insufficienti a contenere le persone che vi sono stipate; i corridoi, cupi e miseri, ricordano quegli degli ospedali più tristi; i bagni sono inguardabili, tetramente lontani dagli standard a cui siamo abituati. Dovessimo entrare in un bagno di un ristorante con queste caratteristiche, ci allontaneremmo subito dal locale, inveendo contro il gestore.
Ragazzi e ragazze declamano poesie di Neruda e della Dickinson, di Shakespeare e Montale, e io sento che i versi appassiscono quando si posano sui banchi, frenano terrorizzati prima di arrivare alla mezza scatola di cartone che dovrebbe essere un contenitore per i pennarelli che servono per scrivere alla lavagna.
L'ora termina. Gli studenti sono stati bravissimi: sono riusciti a far vivere le parole, lasciandole sospese a un metro dalle piastrelle fuori tempo dei pavimenti anacronistici. Vado a ricevere i genitori nell'Aula Museo.
Si tratta di un lungo stanzone appesantito da tavoli dal design antiquato e da scomodi seggioloni, che nessuno vorrebbe più in casa, ingombranti e sproporzionati come sono. Le tende a liste sono in gran parte inservibili. Il tutto offre il senso di una sgraziata disarmonia.
La denominazione del luogo si spiega col fatto che su alcuni ripiani sono conservate vecchie macchine da scrivere e altri vari attrezzi, calcolatrici col rullo di carta ad esempio o microscopi, di qualche vecchiume e di nessun valore. Alle pareti le stampe delle banconote in vigore fino a qualche anno fa. In una libreria sono ammassate centinaia di videocassette donate da non so quale istituzione pubblica, ormai inservibili, visto che manca e non è più in vendita un lettore per utilizzarle.
In fondo è questa l'aula centrale della scuola, ma non di questo istituto, proprio di tutta la scuola italiana, dico al genitore che mi siede di fronte, che per la verità mi guarda un po' spaventato. E' l'Aula Museo l'anima della scuola, che ha dilagato con il suo torpore per i corridoi, si è impadronita delle aule, ha congelato i bagni in un passato indefinito. Non lo sappiamo ma passiamo le giornate in una esposizione permanente di anticaglie. Apriamo la bocca per dire di letteratura e di scienza e le nostre parole diventano già vecchie. Mostruosamente, appena a contatto con l'ambiente avvizziscono, si coprono di rughe.