domenica 29 aprile 2012

Cantanti che scrivono romanzi


Secondo Francis Ford Coppola qualcosa è veramente cambiato nel cinema “il giorno in cui invece di chiederci se un film era bello, abbiamo cominciato a chiederci quanto aveva incassato”. Da qualche anno la ricerca del successo commerciale ad ogni costo, non riguarda solo il cinema, ma anche la produzione letteraria, in particolare sul versante narrativo. Editor e agenti sono diventati fondamentali nel determinare le scelte delle case editrici, sempre meno interessate al risultato artistico. Come spiegare altrimenti il proliferare di romanzi, i cui autori sono volti noti in settori diversi dalla letteratura, e da quei mondi prestati alla narrativa? Soltanto nelle ultime settimane hanno visto la luce le opere narrative di Massimo Gramellini, Carlo Verdone, Flavio Insinna, Ligabue, Francesco Guccini, e degli immancabili Fabio Volo, Veronica Pivetti, Alba Parietti.
Niente di male, verrebbe da dire, se tutto questo non coincidesse con un evidente scadimento del livello medio della narrativa italiana, più impegnata suo malgrado a vendere (e dunque ancor prima, giustamente, a farsi pubblicare) piuttosto che a cercare di dire qualcosa. Viene da chiedersi se oggi avrebbero accesso alla pubblicazione autori come Landolfi e Pavese, Ortese e Morante, Pasolini e Bassani, o se invece si troverebbero a combattere contro l'opera censoria e la riscrittura di un agguerrito nugolo di editor.
Ve lo immaginate ai nostri giorni Livio Garzanti che cerca in tutti i modi di convincere il riluttante Gadda a pubblicare il Pasticciaccio? Insomma è chiaro ormai che fra gli addetti ai lavori nessuno si chiede se un romanzo è bello, ma quanto possa vendere. L'importante perciò diventa rispettare certe regole che puntano al gradimento da parte del lettore, condire la storia con i giusti ingredienti, non essere troppo noiosi ma nemmeno esageratamente superficiali.
Del resto, se a pubblicare i libri di cucina non sono più i cuochi, ma le presentatrici televisive, perché stupirsi se a scrivere i romanzi sono i cantanti? Resta da capire perché i narratori non comincino a cantare.

giovedì 26 aprile 2012

Morin: a scuola senza burocrazia


Bisognerebbe fare tesoro delle parole di Edgar Morin che, sollecitato da Armando Massarenti sulla Domenica del Sole 24 ore del 15 aprile scorso, a proposito dei disvalori che la burocratizzazione produce su scuola ed educazione, afferma: “I processi di burocratizzazione estendono al mondo dell'educazione la logica anonimizzante, frammentatrice e gerarchizzante della tecnica. Dev'essere rigenerato il valore della missione educativa, si deve tornare a quell'Eros che, come diceva Platone, è il requisito fondamentale per saper insegnare. E si deve promuovere il valore dell'unità del pensiero coinvolto nel processo educativo, che oggi soffre gravemente di due mali: il male della disgiunzione tra problemi e tra saperi, e il male del riduzionismo”.
Edgar Morin
Più o meno il contrario di quello che sta accadendo nella scuola italiana, sempre più attenta a un tecnicismo dell'insegnamento che non lascia spazio alla passione e alla presenza emotiva di chi ha il compito di insegnare e di coloro che dovrebbero apprendere. L'esteso materiale burocratico che un insegnante deve compilare e che dovrebbe servire a valutare il percorso di apprendimento appare vacuo e troppo spesso fine a se stesso. Si finge di credere che basti programmare, schematizzare, fornirsi di obiettivi stereotipati, per sapere cosa e come dire, per risolvere la questione tanto delicata e articolata dell'insegnamento. E' inevitabile così che saperi e problemi finiscano per ridursi a formule frammentarie, abbastanza pericolose quando si ritiene che possano essere risolutive.
Ciò è vero anche per l'insegnamento di quelle che un tempo erano le materie umanistiche, letteratura compresa. Si pretenderebbe parlare di Dante e Petrarca, così come di Montale e di Saba, solo finalizzando la conoscenza a una questione di verifiche, utilizzando tabelle e schemi invece che i testi letterari, proponendo semplificazioni e risposte certe, dove invece sono presenti complessità e solo domande.
L'insegnamento per non essere platonico, finge di essere concreto, perdendo in prospettiva e in capacità di offrire strumenti per la comprensione della realtà e per la risoluzione dei problemi.

giovedì 19 aprile 2012

GABBIE PER NUVOLE di Roberto Deidier (Empiria)


Che l'atto del tradurre finisca inevitabilmente per tradire un testo e, di conseguenza, le intenzioni dell'autore, è cosa ormai nota. C'è da aggiungere che il traduttore , nella scelta dell'opera che vuole trasferire in altra lingua e nelle preferenza linguistiche e stilistiche per le quali opta, non può che a sua volta tradirsi, mettere a nudo cioè i suoi amori letterari, i percorsi interiori che ad essi conducono, le proprie predilezioni, molto spesso anche le passioni e le angosce.
Mi ha fatto pensare a questo, e a come ogni traduzione operata da uno scrittore o da un critico sia di fatto una sorta di confessione, la lettura di Gabbie per nuvole di Roberto Deidier. Il bel libro edito da Empirìa è in effetti un quaderno di traduzioni che il poeta e critico letterario Deidier sviluppa però in maniera del tutto originale, per nuclei tematici, dividendo il libro in sezioni, che non sono assegnate a singoli autori o a epoche specifiche, ma appunto si sviluppano seguendo un percorso interiore, una mappa personale e profonda, tanto che la paternità del libro che risulta così composto deve essere attribuita a chi traduce, prima ancora che agli autori tradotti. Insomma è come se Deidier avesse voluto non solo farci entrare nella sua officina di scrittore, ma anche invitarci in casa, facendoci accomodare in poltrona, per vedere se è possibile chiacchierare intorno ad alcuni temi, che non solo sono di grande interesse, ma risultano in definitiva vitali per il nostro tempo.
“Questo libro – scrive Deidier nella Premessa – è la mia personale mappa di amicizie e spaesamenti; una piccola geografia degli autori che mi hanno scortato nel tempo della scrittura, ora come compagni di viaggio, ora come incontri occasionali, imprevisti, o come veri e propri dirottamenti. Alcuni di questi, in seguito, si sono tramutati in amicizie durature, altri sono rimaste presenze legate a un periodo, o anche a un solo istante”.
Avvicinarsi a un autore nell'atto di tradurlo, così come nell'esperienza di una lettura in profondità, può rassicurarci, farci ritrovare in territori gradevoli e accoglienti, o determinare una sorta di spaesamento, costringerci a cambiare direzione, a rivedere i progetti. Gabbie per nuvole è tutto questo, il ritrovare la rotta e insieme perderla, arrivare a un punto d'approdo che ti invita subito a riprendere il viaggio: è “un diario di incontri e di esplorazioni non cercati” che diventa però anche “la storia del formarsi di una lingua”, che è quella appunto di chi traduce, cioè di chi vive, trasformando i testi, una sorta di profonda e personale trasmutazione.
Il risultato non è dunque un libro di traduzioni in cui l'autore, poeta a sua volta, dimostra la sua abilità di versificatore e la perizia tecnica: Deidier è rispettoso nei confronti dei poeti che traduce (soprattutto anglofoni, come Keats, Auden, Stevenson, Hardy, Larkin, ma anche Artaud e Apollinaire), non compie mai il peccato di indulgere in tentazioni di protagonismo, ma nello stesso tempo è sempre presente, con le proprie esperienze letterarie e di vita, e soprattutto con la propria lingua, quella cioè della propria poesia, che a sua volta ha assorbito le indicazioni linguistiche e di stile degli autori tradotti. Siamo così di fronte a un tracciato nitido ma non rettilineo, che si compone di testi, ai quali possiamo avvicinarci in compagnia del traduttore, progressivamente consapevoli di questo gioco complesso di regali e restituzioni che è in questo caso l'atto della traduzione.
“Sono i testi a scegliere noi, e non il contrario”, scrive Deidier. Di questo incontro si vorrebbe afferrare la pienezza e il senso ultimo della lingua. Ma i testi si propongono come “luci di passaggio, piccoli lampi”, tanto che “ogni tentativo di fermarli, di portarli nella nostra lingua, altro non è che la costruzione di una gabbia per nuvole”.

sabato 14 aprile 2012

La sfida di Piero Santi


Dirò ancora di Piero Santi. In effetti, a rileggere ora le sue opere, a distanza cioè di più di venticinque anni dalla pubblicazione del suo ultimo romanzo (Sic, Vallecchi; poi Transeuropa nel 1990, pochi mesi prima della morte di Santi, avrebbe pubblicato con il titolo di Cronos Eros una scelta di romanzi brevi e racconti, già precedentemente editi) si riscopre una personalità complessa, che si traduce in una forza narrativa molto originale, capace di trattare con grazia, ma senza mascheramenti, tematiche allora come oggi ritenute scabrose. Per Santi l'opera artistica deve in qualche modo aderire alla vita, a costo di risultare non del tutto risolta formalmente: deve insomma fare i conti con quei grumi di passione e di dolore, di eros e di commozione, che appartengono alle nostre esistenze. Non è la vita a dover diventare opera d'arte, secondo il ben noto presupposto dannunziano, ma la letteratura ad accettare al proprio interno le contraddizioni, la desolazione, le sofferenze che la vita contiene.
La sfida dei giorni è il titolo del libro pubblicato nel 1968 che raccoglie i diari del 1943-46 e del 1957-68. Sono pagine dense di ricordi, di spunti narrativi, di riflessioni che investono sia tematiche letterarie che di natura interiore, di carattere filosofico o politico-sociale.
A proposito dell'arte e della letteratura di quegli anni, Santi scrive in una pagina dell'aprile del 1968, come spesso artisti e scrittori siano troppo condizionati dalle attrattive di una scrittura che si risolve in un felice, ma a volte gratuito, esercizio formale. “Mentre dovunque - scrive Santi - si avverte il senso arido di una crisi che investe tutte le situazioni e tutte le strutture, ecco i nostri narratori a narrare di personaggi oh quanto poetici, di situazioni quanto mai liriche, di luoghi quanto mai amati fin dall'adolescenza. Mi pare che siamo cadaveri che respirano, mummie che camminano. Nessuno che pensi a una scossa violenta. (…) Credo che bisognerebbe operare in altro senso. A costo di fare dei libri non del tutto risolti, è necessario cercare nel fondo dei 'contenuti' contemporanei il motivo del nostro scrivere”.
Nel secondo dopoguerra Santi fu direttore del mensile di letteratura Ca balà, da lui stesso fondato insieme a Mario Novi. Sul giornale scrissero Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi, Giovanni Comisso, Sandro Penna, Antonio Delfini, Alessandro Parronchi e altri tra i più interessanti narratori e poeti di quegli anni. Qualche anno dopo Santi, nei diari, ricordò le ragioni che dettero vita al mensile e il fermento che il giornale produsse in Italia: “a noi – disse – interessavano di più i problemi che l'uomo con le sue azioni suscita in ogni tempo: importava tentar di conoscere a che punto l'uomo era arrivato di disperazione e di crudeltà: dare un perché ai fatti che ci avevano sopraffatto; chiedere 'chi è l'uomo? Chi siamo?' alla luce dei nuovi fatti, alla luce della tortura che era risorta proprio quando ci credevamo, almeno per certi lati, del tutto civilizzati: i nostri problemi, insomma, erano, se mai, di carattere esistenziale. (…) Di qui lo scandalo dei letterati italiani che hanno sempre considerato l'arte in modo più enfatico e formale”.
Piero Santi fu a lungo critico cinematografico (in un settore “dove i critici sono pochissimi e dove imperano i 'giornalisti' pronti a seguire gli ordini della 'produzione' o le facilonerie della moda”). Scrive ne La sfida dei giorni che, dopo Antonioni, “ci furono i nostri registi giovinetti, abili, allievi del Centro o meno, tutti attenti a guardare gli altri registi invece che la realtà, questa nostra esistenza contraddittoria, complicata, ansiosa, inquieta...”.
Non è forse questa la condizione che caratterizza tanti nostri letterati, spesso concentrati più su quanto dicono gli altri che su quanto ci propone l'esistenza? Del resto le questioni indicate da Santi sono le stesse che ancora oggi nel nostro paese narratori e poeti non riescono compiutamente ad affrontare. Di fronte alla crisi (“il senso arido di una crisi che investe tutte le situazioni e tutte le strutture”) la risposta è più ridondante che sostanziale, si concentra più sulle strutture formali invece di aggredire i problemi che la vita ci pone, si sofferma sulle piccole questioni dell'oggi piuttosto che “tentar di conoscere” a che punto “di disperazione e di crudeltà” l'uomo sia arrivato. Naturalmente sono diversi i narratori e i poeti che oggi percorrono una strada che rifugge da soluzioni facili e conduce al centro di quelli che Santi chiama “contenuti contemporanei”. Sono però gli stessi che meno facilmente trovano adeguate risposte tra coloro che operano le scelte editoriali.
D'altra parte non è un caso che il destino di Piero Santi sia precipitato verso la distrazione generale che si è abbattuta sui suoi scritti, cancellandone la memoria anche tra gli addetti ai lavori.  

giovedì 5 aprile 2012

Ricordo di Piero Santi


Mi capita spesso in questi giorni di pensare a Piero Santi, alle giornate trascorse nella sua casa all'Erta Canina, alle lunghe chiacchierate passeggiando per le vie di Firenze, la città che tanto amava e di cui soffriva la progressiva trasformazione. Ricordo le cene in compagnia degli amici: i fiorentini, più assidui, e gli altri che raggiungevano quel luogo ospitale provenienti da ogni parte d'Italia. Lo vedo sorridente nella sua poltrona accanto alla finestra, soddisfatto della visita dell'amico, della vista degli ulivi, sul colle che da piazzale Michelangelo digrada dolcemente verso l'Arno. In quella casa era ancora possibile, in quegli anni Ottanta che già lasciavano intravedere il precipizio di indifferenza in cui saremmo a breve precipitati, parlare di letteratura con passione vera e mal contenuta eccitazione, senza lasciarsi condizionare da mode critiche e dalla ricerca a tutti i costi di apprezzamenti e consensi.
Piero Santi (al centro) con Gadda e Sandro Penna
Di Piero Santi ricorre oggi il centenario della nascita, ma non se ne ricorderà credo nessuno. Era nato a Volterra, il 5 aprile del 1912, e la sua famiglia si era trasferita presto, lui ancora bambino, a Firenze, la città che avrebbe poi rappresentato, insieme alla Versilia, il paesaggio ideale delle sue opere.
Santi è stato tra i protagonisti di una delle stagioni culturali più intense e vive di Firenze. Negli anni che immediatamente precedettero il secondo conflitto mondiale, a Firenze si era formato, scrive Alessandro Parronchi in un intervento del 1976, un particolare e vivace ambiente letterario, “di cui proprio Santi costituì il centro di gravitazione”. Erano in quegli anni a Firenze Eugenio Montale, che fino al '38 sarà direttore del Gabinetto Vieusseux, Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Romano Bilenchi, Franco Fortini, e poi Palazzeschi e Cancogni, Carlo Cassola, Luzi e Delfini e ci vivrà, negli anni della guerra, Umberto Saba. Saranno in compagnia di Piero Santi, prima e dopo gli anni bui del conflitto, a cena spesso all'Antico Fattore, storica trattoria di via Lambertesca, gli amici Gadda e Landolfi, che Santi ricorderà nel romanzo Il sapore della menta, forse il suo maggiore successo letterario, pubblicato da Vallecchi nel 1963.
Santi, il cui primo libro Amici per le vie risale al 1939, era uno scrittore rispettoso della tradizione ma capace di grande modernità. Costruiva le sue opere spesso combinando e impastando cronaca e autobiografia, racconto e riflessione. Valgano ad esempio, oltre al già citato Il sapore della menta, il Ritratto di Rosai (De Donato, 1966), che è anche il resoconto dell'amicizia che legò Santi al pittore fiorentino, le vicende dell'alluvione di Firenze ricordate in Da un tetto e nelle strade (De Donato, 1967), la testimonianza diaristica confluita nel volume La sfida dei giorni (Vallecchi, 1968), una raccolta di pagine di grande intensità, che costituirebbero ancora oggi una lettura fondamentale per comprendere i processi culturali e sociali che precedettero e fecero seguito alla seconda guerra mondiale, e quello straordinario libro che è Ombre rosse (Vallecchi, 1954), in cui i cinema di Firenze diventano oggetto ed essi stessi in qualche modo protagonisti di una narrazione che sonda il mistero e la semplicità degli uomini, che nel buio delle sale cinematografiche si mostrano più veri o forse solo più tesi alla ricerca della propria verità.
Piero Santi con Aldo Palazzeschi
Così, a Napoli – scrive Santi in Ombre Rosse -, il garzoncello che entra, un poco impaurito, per la prima volta solo, al “Sannazzaro” e poi sfiora i muri cieco in mezzo al pallore rosso della sala, ombra rossa lui stesso: e ode la voce improvvisa di qualcuno che gli indica un posto e gli parla a bassa voce: quel ragazzo non avrà avvertito qualcosa che prima era chiuso dentro di lui come in una valva intangibile? Si accorge, è certo, che la vita non è solo chiarezza e evidenza: che vi è bensì qualcosa di inafferrabile e di imprevedibile. Che al di là degli oggetti che ci circondano, oltre i nostri gesti stessi che crediamo di compiere in piena coscienza, qualcosa si avvolge, che è oscuro e segreto.
Cosa ha fatto in modo che Santi venisse relegato a un ruolo marginale e poi dimenticato già prima della morte, avvenuta nel 1990? Non fu d'aiuto certo la sua omosessualità, sempre dichiarata, sia pure senza esibizione e compiacimento. Né dovette giovargli essere più attento al giudizio e all'affetto degli amici che alla valutazione dei critici. Non badò molto agli interessi editoriali e gli mancò insomma la capacità di proporsi, di costruire di sé un'immagine accattivante, soprattutto se questo doveva costargli la rinuncia anche a una minima parte delle sue convinzioni. La superficialità che si è poi impadronita anche del mondo della letteratura ha fatto il resto. E pensare che Carlo Bo aveva scritto in occasione della pubblicazione del Diario nel 1950: “Se un libro come questo fosse stato presentato all'estero, il fatto Santi sarebbe diventato tipico del nostro tempo, si può essere certi che in breve ne avrebbero fatto un testimonio simbolico e leggendario dei nostri giorni”.
Ma appunto Piero Santi non era nato in un altro paese e ora che di testimoni non abbiamo più bisogno, tantomeno leggendari e simbolici, di lui e della sua opera si può trovare traccia solo nella memoria degli amici, dei suoi libri si può andare in cerca, ad averne voglia, nei polverosi fondi di magazzino di qualche antica casa editrice.