venerdì 28 dicembre 2012

Sinisgalli, il cuore (introvabile) della poesia

Leonardo Sinisgalli, in una foto di Federico Patellani

Che libro meraviglioso è L'età della luna! Fu pubblicato nello Specchio mondadoriano nel 1962. Leonardo Sinisgalli, che ne è l'autore, aveva allora 54 anni, viveva a Roma e di tanto in tanto si recava a Montemurro, il paese della Lucania dove era nato e che torna spesso nei suoi versi. Era poeta, ingegnere, matematico, curava la pubblicità per Eni e Alitalia. In passato aveva diretto il settore pubblicità della Pirelli e fondato e guidato la rivista di cultura scientifica La civiltà delle macchine.
L'età della luna è un prosimetro, una raccolta di prose e poesie (ma forse sarebbe meglio dire testi poetici in prosa e testi poetici in versi), scritte tra il 1956 e il '62. Il testo che apre il libro, Poesia, si compone di un solo rigo (o è un verso?): “L'amore del Poeta è la realtà che egli distrugge”.
Nel corso del libro si parla spesso di poesia, con tono sentenzioso, sorpreso, ironico, divertito. In una prosa che fa parte della sezione L'immobilità dello scriba, Sinisgalli afferma che i critici svolgono “operazioni chirurgiche, alcune assai delicate (…) con la benda davanti alla bocca per arrivare al midollo spinale del povero poeta smidollato”. I critici “cercano la logica nei poeti”, ai quali giova però soprattutto “la loro innocenza”. Sinisgalli confessa: “Il mio sforzo di scrivere versi è stato appunto il disprezzo della mia saggezza”. E poi: “Credo di non sapere ancora quale sia precisamente il mestiere di poeta”.
Disprezzare la propria saggezza può anche significare non predisporre ma raccogliere. Il poeta insomma non si muove convinto verso un punto d'arrivo, verso l'obiettivo programmato, perché non ha un progetto. Non sa nemmeno capire perché il suo discordo sia partito proprio da quel verso, cosa l'abbia indotto a cominciare da lì.
Sinisgalli conclude: “I versi hanno una concatenazione che non si rivela in superficie. Convergono verso un punto che le stratificazioni possono nascondere a qualunque scandaglio, un cuore introvabile”.
Questo non significa che la parola della poesia debba essere oscura per statuto, ma solo che forse il mestiere del poeta, anche del poeta che più nitidamente ci consegna i suoi versi, è quello di rendere introvabile il cuore della poesia, di sapere che se una logica esiste è nascosta sotto le stratificazioni dei versi. Lì, in un luogo che non si rivela, c'è qualcosa che si muove continuamente, che cambia di forma e di colore.
Il mestiere di poeta (non lo dice lo stesso Sinisgalli ad inizio del libro?) è fondato intorno all'atto di distruggere la realtà, anzi intorno alla consapevolezza che, agli occhi di chi la ama, la realtà non può che apparire distrutta: scomposta, baluginante, rarefatta. E il poeta non può che tentare, all'infinito, di ricomporre in unità la parole, per dire la frammentazione della realtà.

lunedì 17 dicembre 2012

Febo Conti, fine di un'epoca


E' morto Febo Conti. Per molti è una notizia priva di significato, a me sembra sia finita un'epoca. La televisione era in bianco e nero, ai ragazzi era destinata la fascia oraria pomeridiana (un paio d'ore e non tutto il giorno: la Tv dei ragazzi, appunto), la parola telefono corrispondeva ad un apparecchio a muro, immancabilmente nero, ad altezza di adulto, la cui linea spesso veniva divisa con il condomino del piano di sotto. Erano tempi insomma di duplex e di poche telefonate, spesso precedute da richieste accorate perché venisse resa libera la linea. Esistevano ancora le macchine da cucire e quelle da scrivere, in cui il suono di un campanellino ricordava che bisognava andare a capo azionando l'apposita levetta. Il latte si comprava in latteria, restituendo una bottiglia (di vetro) vuota in cambio di quella piena.
Febo Conti diventò familiare nelle case degli anni Sessanta, perché presentava il programma Chissà chi lo sa?. Due squadre di ragazzi si confrontavano in una gara. Non cantavano canzoni imitando gli adulti, non ballavano, non raccontavano barzellette né confessavano i fatti propri, non erano futuri calciatori. Erano ragazzi come tanti altri, che rispondevano a domande alla loro portata, dimostrando soltanto di essere andati a scuola la mattina e di avere un po' di intuito.
Febo Conti tra i ragazzi a Chissà chi lo sa?
La scenografia del programma era semplicissima, su tutto campeggiava un grande punto interrogativo. La sigla cominciava così: “Ma chissà chi lo sa dove è nato Ali Babà, ma chissà chi lo sa dove vive Mustafà”. Non sono versi da ricordare, ma danno l'idea dello spirito del tempo. I presentatori avevano tutti un'espressione che li caratterizzava, Cari amici vicini e lontani..., Allegria! Quella di Febo Conti, pensate un po', era Squillino le trombe, entrino le squadre, una cosa a metà tra il libro Cuore e una rappresentazione di pupi siciliani.
Febo Conti vestiva sempre in grigio, non urlava, salutava i ragazzi stringendo loro la mano.
Anche oggi abbiamo un Conti presentatore (Carlo). Ma la sua televisione è a colori, lui è sempre abbronzato e occupa la schermo tutte le sere. L'altro Conti, quello vero (Febo, che nome!), si aggirava pallido per lo studio disadorno. E solo il sabato pomeriggio.


venerdì 14 dicembre 2012

Cosa c'entra Pasolini con i capelli di El Shaarawy?


E cosa c'entra il poeta de Le ceneri di Gramsci con l'acconciatura irsuta di Hamsik, la cresta di Balotelli? Naturalmente niente. Pasolini del resto, che tanto amava il calcio, e malgrado il suo sguardo profetico, non avrebbe potuto immaginare la deriva in cui il gioco del pallone sarebbe precipitato, né come si sarebbero presentati in campo i suoi protagonisti. Sta di fatto che le zazzere di El Shaarawy di Hamsik, di Balotelli sono diventate immagine di culto, modello da seguire, argomento giornalistico.
Il un articolo del 7 gennaio del 1973 pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo Contro i capelli lunghi, poi raccolto negli Scritti corsari, Pasolini sostiene che la foggia della capigliatura rappresenta sostanzialmente un messaggio, espresso in un “linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi”. Nell'anno in cui scrive, il messaggio significa altro rispetto a qualche anno prima. Se un tempo era il segnale di una contestazione prima silenziosa poi sempre più rumorosa e numerosa contro la civiltà consumistica e i valori borghesi, in seguito quello stesso segnale, attraverso una serie di passaggi intermedi, era arrivato a comunicare tutt'altro. Pasolini racconta che l'anno prima si trovava nella cittadina di Isfahan, nel cuore della Persia: “per le sue strade, al lavoro, o a passeggio, verso sera, si vedono i ragazzi che si vedevano in Italia una decina di anni fa: figli dignitosi e umili, con le loro belle nuche, le loro belle facce limpide sotto i fieri ciuffi innocenti”. Ma una sera, camminando per la strada principale, Pasolini scorge “tra tutti quei ragazzi antichi, bellissimi e pieni dell’antica dignità umana”, due giovani che si muovono e si presentano in maniera diversa, “due esseri mostruosi” li definisce: “non erano proprio dei capelloni, ma i loro capelli erano tagliati all’europea, lunghi di dietro, corti sulla fronte, resi stopposi dal tiraggio, appiccicati artificialmente intorno al viso con due laidi ciuffetti sopra le orecchie”.
Il poeta traduce quello che quei giovani, per mezzo dei loro capelli, sembrano dire: «Noi non apparteniamo al numero di questi morti di fame, di questi poveracci sottosviluppati, rimasti indietro alle età barbariche. Noi siamo impiegati di banca, studenti, figli di gente arricchita che lavora nelle società petrolifere; conosciamo l’Europa, abbiamo letto. Noi siamo dei borghesi: ed ecco qui i nostri capelli lunghi che testimoniano la nostra modernità internazionale di privilegiati».
Il messaggio dei capelli di El Shaarawy e di Hamsik è analogo: voi siete dei perdenti – dicono i loro ciuffi - semmai continuate a credere che studiare possa essere la strada giusta per comprendere la vita e per la vostra affermazione sociale, ma non è così; noi invece siamo coloro che vincono, siamo internazionali e privilegiati, non leggiamo un libro e non ci importa niente del mondo come è stato fino a qualche anno fa, perché esso è profondamente cambiato rispetto a quello in cui hanno vissuto le generazioni precedenti, e sono cambiati i valori e i modi per far valere se stessi.
Pasolini afferma infine, guardando quei giovani degli anni Settanta, e chissà forse pensando anche a El Shaarawy, a Hamsik, a Balotelli e a tanti altri come loro, che “essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre”. E conclude: “È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda”. 
E' venuto anche per noi davvero il momento di dire che non ne possiamo più di capigliature scolpite e di tatuaggi mostrati come bandiere: “è orribile, perché servile e volgare”, questo modo di mostrare se stessi, con l'arroganza di chi vorrebbe sembrare straordinario ed è invece solo adeguato ai tempi e fedele al cliché che ci vuole un poco diversi dagli altri per essere dagli altri presi in considerazione. Ma siccome i calciatori di certo non si accorgeranno della sfrontata povertà dei loro messaggi, dovrebbero essere gli allenatori, i presidenti, gli stessi tifosi delle squadre di calcio a liberarli da questa ”ansia colpevole”. Cosa che non succederà. Del resto, tutto questo discorso è privo di senso. Cosa c'entra infatti Pasolini con i capelli di El Shaarawy?

lunedì 10 dicembre 2012

ADDIO A ROMA di Sandra Petrignani (Neri Pozza)


L'ultimo libro di Sandra Petrignani è molte cose insieme – inchiesta, narrazione, riflessione critica, ricostruzione di un ambiente sociale – e come tale è un prodotto abbastanza atipico per la nostra letteratura. In Addio a Roma (Neri Pozza editore) i vari elementi della storia, che l'autrice utilizza con accortezza e partecipazione, compongono un quadro unitario, ricchissimo di dettagli e nitido nei particolari, del mondo culturale romano nel periodo che va dai primi anni Cinquanta al Sessantotto, protraendosi fino a un Epilogo che si conclude con l'evento, dolorosissimo e inquietante, della morte di Pasolini, vero spartiacque culturale e sociale della vita collettiva del nostro paese.
Vacanze romane: il film è del 1952
A condurci per mano nella dinamica e vitalissima vicenda artistica romana di quegli anni straordinari, è il personaggio fittizio di Ninetta (nei cui panni non è difficile intravedere la stessa Petrignani), che si muove comunque a suo agio tra i personaggi, questi invece reali, che furono gli animatori delle vicende culturali del periodo. A noi, che abitiamo e ci confondiamo nelle vicende tristemente mediocri, nel confronto sguaiato e inconsistente di questo inizio millennio, sembra davvero un'epoca lontana e piena di fascino quella che vide protagonisti scrittori ed artisti che si ritrovavano, con il gusto sano e civile della discussione e del contraddittorio, intorno ai tavoli delle osterie come nelle gallerie d'arte e nelle redazioni di riviste culturali che furono al centro del dibattito culturale e politico.
Sandra Petrignani allunga su quelle vicende e sui suoi protagonisti uno sguardo affettuoso, a volte nostalgico a volte garbatamente ironico, riuscendo sempre a restituire quel misto di grande arte e di tenera follia, di geniali idee sull'esistenza e di esistenze spesso perse dietro umane gelosie e ancora più umani innamoramenti, quell'inevitabile mescolarsi di arte e vita, che costruirono uno dei tratti più significativi del fermento della Roma di quei decenni.
Amelia Rosselli negli anni '60
E' un mondo di pettegolezzi e di tenerezze, di tradimenti e di affetti, ma soprattutto di grande fervore artistico, in cui si muovono Moravia e la Morante (che non vuole essere definita la moglie dell'autore de Gli indifferenti), Pier Paolo Pasolini e Sandro Penna, Calvino, Natalia Ginzburg, Gadda, e poi l'affascinante direttrice della Galleria d'arte moderna Palma Buccarelli, De Chirico e Guttuso, Fellini e Flaiano, Parise e Arbasino, Wilcock ed Elio Pecora. Le loro vite si cercano, si intrecciano e si rifiutano, sempre comunque manifestando una voglia di dire, di capire fino in fondo il senso dell'epoca in cui era loro toccato vivere. Il lettore si trova di fronte un universo, insieme delicato e severo, generoso e crudele, ravvivato da piccoli segreti e da grandi dibattiti pubblici, comunque estremamente effervescente, in qualche modo entusiasmante, se confrontato con la miseria culturale di oggi.
Di quelle vicende Sandra Petrignani ci restituisce tutto il fascino nascosto, perché sa affondare la narrazione anche nelle piccolezze del quotidiano proprio mentre il suo discorso approfondisce aspetti critici o sociali.
Emergono così ritratti inconsueti, come nel caso dell'intensa e sorprendente storia d'amore tra Amelia Rosselli, “bella e strana”, che allora ha solo vent'anni, non ha ancora scritto niente e “deve combattere con il fantasma di Beethoven che vede dentro lo specchio ogni volta che si guarda”, e Rocco Scotellaro, il “poeta contadino”, come viene chiamato, “figlio di ciabattino, ex sindaco di Tricarico”. Lui scrive “Mi sento schifoso a confronto della sua bellezza” e poi, più tardi: “Ho avuto ciò che volevo: la più grande batosta dell'anima”.
 Il libro ci lascia con l'immagine di Pasolini, attento a sondare gli aspetti sempre più allarmanti della società che si sforza caparbiamente di analizzare e sempre più preoccupato della propria incolumità, e con le parole di Ennio Flaiano (scritte ad un amico nel 1957!): “La nausea di questo maledetto momento che stiamo attraversando! Tutto diventa materia di esibizionismo e di rotocalco. Tutto viene preso sul serio in questo maledetto paese eccetto le cose serie”.

lunedì 19 novembre 2012

Bartolo Cattafi, la poesia sotto il segno dell'imprevisto

Cattafi fotografato da Walter Mori nel 1972

A proposito ancora del mestiere di poeta, credo sia giusto rileggere uno scritto autobiografico di Bartolo Cattafi, che risale ai primi anni Settanta. Cattafi entra a pieno diritto in questo blog, che ospita spesso parole di poeti dimenticati: del poeta nato a Barcellona Pozzo di Gotto, che quest'anno compirebbe novant'anni non fosse stato portato via da un male incurabile già nel 1979, c'è poca traccia nella memoria dei nostri smemorati tempi e nelle antologie, scolastiche e non, che tratteggiano un indice e propongono un compendio della storia poetica del secolo scorso. Suonano perciò infauste, oltre che veritiere e ancora attuali, le considerazioni di Carlo Bo, pronunciate in occasione di un convegno all'indomani della morte del poeta: “Quando si tireranno le somme del libro della poesia del Novecento, a Cattafi spetterà un posto privilegiato e, ciò che più conta, ottenuto esclusivamente con le sue forze. Si vedrà che a volte vale assai di più una parola tesa all'assoluto che una fondata sul calcolo e su un'avvilente speculazione delle opportunità. Un caso unico, lo ripetiamo, e sarebbe giusto che tutti ormai lo riconoscessero”.
Il riconoscimento insomma tarda ad arrivare. Arriva per ora la notizia felice della prossima ripubblicazione del libro delle Poesie 1943 -1979, edito nel 1990 nella collana dello Specchio di Mondadori a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni.
Tornando alla sua pagina autobiografica, Cattafi scrive, a proposito delle sue prime prove poetiche avvenute nel mezzo della guerra: “Le mille cose che quella snervante primavera mi proponeva erano magicamente gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni. Come in una seconda infanzia cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo”.
Nell'immagine dell'ingenuo inventario del mondo, nella capacità di posare lo sguardo su oggetti minuti e situazioni marginali apparentemente insignificanti, e ricavarne, con lucida e temeraria chiarezza, necessità assolute, è la forza e la caratteristica forse prevalente della sua poesia.
La storia dei miei versi – scrive ancora Cattafi - non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell'intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l'impossibile colpo di dadi”.
Si tratta di una trasparente dichiarazione di poetica, sostenuta con coraggiosa consapevolezza in anni di sperimentalismo e di astruserie verbali.
Non mi riesce di capire il mestiere di poeta, i ferri, il laboratorio di questo mestiere. Quella del poeta è secondo me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini. Di là dagli schemi mentali, dalle velleità, dalle frigide volizioni e dalle sapienti masturbazioni, la poesia nasce sotto il segno apparente dell'imprevisto (vi sono misteriose maturazioni, catalizzatori non sempre identificabili, forze e forme insospettate che si liberano rompendo lo stato di quiete, che scattano e si scatenano secondo le linee d'un disegno naturale a cui bisogna con coraggio arrendersi, individuandolo e potenziandolo, per quanto consentito, con accorta vigilanza in mezzo alla selva allettante degli inganni, dei miraggi, delle false rappresentazioni). Poesia è dunque per me avventura, viaggio, scoperta, vitale reperimento degli idoli della tribù, tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale”.
Da scrivere sui muri. Da far copiare e mandare a memoria ai molti poeti e ai pochi lettori di oggi. Da raccontare ai ragazzi.


lunedì 12 novembre 2012

Professione: poeta


Quando muore un cantautore, semmai particolarmente apprezzato dal pubblico, si dice che se n'è andato un poeta. Succede anche quando si tratta di artisti che hanno firmato le musiche delle loro canzoni e non hanno mai scritto un testo. Del resto, amiamo dire che un regista cinematografico è un poeta se le immagini che confeziona e ci propone sono particolarmente evocative e affascinanti; o che un attaccante di una squadra di calcio è un “poeta del gol” se trova, pallone al piede, soluzioni impreviste e fantasiose.
Costantino Kavafis
In tutti questi casi, l'appellativo di poeta qualifica in positivo un modo di esprimersi, attraverso la propria opera o i propri comportamenti, genialmente immaginoso e inusuale.
Rimarremmo però con l'aria stupefatta e imbarazzata di fronte a qualcuno che, alla domanda “scusi, ma lei che lavoro fa?”, rispondesse “il poeta”. E' forse un mestiere scrivere versi? corrisponde ad una figura sociale riconosciuta e ben individuabile?
In effetti qualsiasi poeta identificato come tale, che abbia all'attivo la pubblicazione di più di una raccolta di poesie, aggirerebbe la domanda facilmente, fornendo uno status identificativo, forse meno vero ma sicuramente, agli occhi di un possibile interlocutore, più concreto. Valerio Magrelli, Biancamaria Frabotta, Alberto Bertoni, Roberto Deidier risponderebbero di essere professori universitari, Franco Marcoaldi e chissà quanti altri di fare il giornalista, Mariella Bettarini di essere stata, come Giorgio Caproni, maestra elementare, Claudio Damiani di insegnare in un istituto superiore. E comunque quasi tutti potrebbero dire, così da evitare ritegno ed impaccio, di essere critici letterari.
Di certo sulla carta di identità di nessuno di loro appare la qualifica di “poeta”.
Solo Costantino Kavafis, negli ultimi mesi della sua vita, riuscì ad ottenere che il suo mestiere fosse scritto chiaramente sul documento di riconoscimento. Professione: poeta. Pare ne andasse molto fiero.    

giovedì 1 novembre 2012

Il maestro elementare Giorgio Caproni


Antonio Debenedetti, in un'intervista televisiva, racconta di essere stato allievo di Giorgio Caproni. Suo padre Giacomo, il ben noto critico letterario, l'aveva lasciato lungamente in giardino mentre era a colloquio con Benedetto Croce. Il piccolo si era ammalato e così Caproni, al fine di sdebitarsi per i consigli ricevuti da Debenedetti padre in merito alla traduzione della Recherche a cui stava lavorando, si era proposto di fare da maestro al bambino nei lunghi mesi invernali in cui sarebbe stato assente dalla scuola. Erano gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale.
“Con lui non è che si facessero proprio delle lezioni - ricorda Antonio Debenedetti – . Per esempio scrivevamo delle poesie a due voci oppure insegnava le divisioni attraverso una specie di filastrocca. Era un maestro straordinario e ironico”.
Caproni in una foto di Dino Ignani
Caproni è stato maestro elementare. Aveva iniziato a insegnare nell'anno scolastico 1935-36 a Rovegno. Trasferitosi a Roma, fu alle scuole elementari Pascoli e poi alle Crispi di Monteverde Vecchio. Vincenzo Cerami, che frequentò a lungo il poeta livornese, lo ricorda in un articolo di qualche anno fa come un maestro molto amato, che usava metodi singolari di insegnamento. Per esempio, scrive Cerami, “i bambini entravano in classe e si trovavano già seduto in cattedra un Caproni teso e preoccupato che subito chiedeva aiuto. Diceva: ragazzi, sono rovinato! Oggi dobbiamo studiare le campagne di Napoleone e non mi sono preparato abbastanza. Se lo sa il direttore scolastico mi licenzia. Come si fa? I bambini, impietositi dal furbo maestro, lo tranquillizzavano e gli rispondevano: non preoccuparti, maestro, ti aiutiamo noi a studiare Napoleone. Ti leggiamo il capitolo a voce alta così se entra il direttore vede che tu sei preparato e non ti licenza”.
Una volta si fece trovare indaffarato, mentre con il metro misurava la lavagna. “Il direttore vuole sapere la superficie della lavagna – disse il maestro – e non ricordo come si fa a calcolarla”. Base per altezza, suggerì qualcuno. “Perché?” chiese pronto Caproni. Ne nacque un'interessante discussione.
Caproni “era quasi un fratello maggiore per i suoi alunni”. Scrive Cerami che chi terminava per primo un problema o una composizione d'italiano, veniva mandato a comperare un quotidiano e i canestrelli. Con essi infatti venivano premiati il primo e l'ultimo degli scolari, quasi a sottolineare che ai suoi occhi avevano lo stesso merito.
Aiutava tutti, soprattutto chi era in difficoltà. Si intratteneva spesso con i ragazzi anche dopo l'orario scolastico, e non era contento finché tutti non avessero capito. Era sempre di un'allegria contagiosa, faceva studiare le poesie a memoria, ma ai suoi alunni non disse mai di essere lui stesso un poeta”.
Chissà se oggi, in una scuola troppo spesso asservita a farraginose pratiche burocratiche, il maestro elementare Giorgio Caproni avrebbe modo di utilizzare la sua ironica leggerezza, così capace di suggerire grandi contenuti, il suo animo di violinista, la profonda umanità di chi crede che la scuola debba servire proprio a tutti per essere migliori, ma soprattutto a chi della scuola sembrerebbe non sapere che farsene. Certo servirebbe almeno un Caproni in ciascuna scuola di ogni ordine e grado. Così, tanto per dare un'opportunità anche all'alunno svogliato, seduto all'ultimo banco, con il quale è inutile sforzarsi, “tanto non capisce”. O per vedere visi sorridenti di fronte a una poesia o a un problema di matematica.



giovedì 18 ottobre 2012

Josip Osti, poeta di Sarajevo


Una delle pagine più tristi della storia europea degli ultimi decenni è stata ricordata con la solita distratta e frettolosa modalità che nel nostro paese, e forse nella nostra civiltà, si riserva agli avvenimenti che disturbano le nostre coscienze e che contrastano con il desiderio di vivere comunque in superficie. La guerra in Bosnia ed Erzegovina cominciò nell'aprile di venti anni fa. L'assedio della città di Sarajevo divenne il cupo simbolo di un conflitto atroce e per tanti versi inspiegabile. A poche centinaia di chilometri dalle nostre coste venivano cancellati decenni di convivenza pacifica di fedi ed etnie diverse, che nella città bosniaca avevano avuto modo di confrontarsi e di dare vita a una cultura ricca ed originale.
Osti a Pistoia nel 2006 (foto Andrea Pecchioli)
Uno dei grandi interpreti di quel dramma è stato senza dubbio il poeta Josip Osti, nato a Sarajevo nel 1945, e che allo scoppio della guerra si trovava in Slovenia, dove tuttora vive tra Lubiana e il piccolo paese di Tomaj, a poche decine di chilometri dal confine italiano. Osti, durante il conflitto, pubblicò due libri di versi: Il libro di Sarajevo dei morti, pubblicato in Italia da Theoria nel 1997, e Il timbro di Salomone, nel nostro paese poi raccolto insieme ad altre liriche all'interno del volume L'albero che cammina, edito da Multimedia nel 2004. Entrambi i libri vennero inizialmente pubblicati nella doppia versione in serbo-croato, la lingua d'origine di Osti, e in sloveno.
Josip Osti è uno dei massimi esponenti del ricco panorama letterario dei paesi che sono nati dalla dissoluzione della Jugoslavia. Il suo mondo poetico si nutre di immagini e di situazioni semplici, tratte da vicende della vita quotidiana, spesso sviluppate attraverso un una modulazione di carattere narrativo. Il tono, apparentemente dimesso e senza dubbio di sobria inflessione, si produce improvvisamente in un lirismo di grande potenza evocativa, che nasce sempre dalle piccole cose, dai minimi accadimenti di ogni giorno, lasciando emergere da essi significati profondi e inaspettati.
E' il caso, ad esempio, della poesia che riporto di seguito, tratta da Il timbro di Salomone. La traduzione è di Jolka Milic.



Non c'è più la tabaccheria all'angolo

Non c'è più la tabaccheria all'angolo. La tabaccheria
intorno alla quale ronzavo per giornate intere cercando
di vincere l'indomabile pudore giovanile, fino a quando non mi
feci coraggio e andai a comprare il mio primo preservativo.
Non c'è la vecchia tabaccaia che dalla mia mano sudata e
tremante prese la banconota e me lo diede con lo stesso gesto
lento con il quale mi consegnava anche le sigarette, comprate a
pezzo, per mia madre. Non c'è più la profonda voce vellutata
con la quale mi chiamò, come chiamava tutti quelli che
dimenticavano di ritirare il resto. Non c'è più il suo viso bonario
che pareva non cambiasse mai. Era uguale anche quando, dopo
parecchi anni, con l'eletta del mio cuore acquistai da lei qualche
dozzina di preservativi, pretendendo perfino quelli più grandi e
colorati che dopo, ridendo e scherzando, avevamo gonfiato
ornando con essi la stanzuccia dove festeggiavamo il capodanno.
Non c'è più la tabaccheria all'angolo, come non c'è più la metà
degli edifici del rione dove una volta abitavo.


(da L'albero che cammina, Multimedia edizioni)

martedì 9 ottobre 2012

FINIO DE ZOGAR di Andrea Longega (Il Ponte del sale)


Andrea Longega pubblica il suo quarto libro, anche questo in dialetto veneziano, nelle raffinate edizioni de Il ponte del sale. Finìo de zogàr è una raccolta intensa, di rara forza espressiva, che nasce, si direbbe, dal basso, dal tono sommesso che l'autore predilige e da uno sguardo ravvicinato su oggetti e uomini. Ma se è vero come scriveva Karl Kraus che “quanto più da vicino si osserva una parola, tanto più lontano essa rimanda lo sguardo”, allora la parola di Longega, che ostinatamente si muove nei luoghi più prossimi, diventa specchio e paradigma di una vasta, universale vicenda di gioia e di dolore. Allo stesso modo il dialetto utilizzato che, come scrive lo stesso autore, “accoglie semplificazioni e italianizzazioni, tuttavia conserva ancora memoria del passato, di molti termini e modi di dire assimilati da genitori e nonni”, è dunque lingua degli affetti e della vicenda familiare, attraverso cui si può parlare di sentimenti e di un mondo circoscritto, così ricco però di qualità e moralità, che la lingua italiana tenderebbe a sminuire, producendo un effetto di eccessivo slittamento sentimentale.
Attraverso l'uso del dialetto “semplificato”, non lingua della comunicazione ma della memoria e degli affetti, Longega può far scivolare le parole sui piccoli eventi del quotidiano, sugli insignificanti equivoci che puntellano la storia personale, può ricostruire eventi familiari che a prima vista apparirebbero marginali, fare leva su quelle emozioni che non trovano più diritto di cittadinanza sulla pagina letteraria. Può cioè ancora stupirsi, commuoversi, turbarsi, provare pietà, intenerirsi, senza che questo risulti imbarazzante per chi legge o per chi scrive, ma anzi ottenendo un effetto di trasparente innocenza e di grande incisività. La vita si anima così di un dialogo minimo e straziante, anche di fronte alla malattia e alla morte della madre, a cui sono dedicate numerose liriche, dove oggetti d'uso quotidiano e domande universali sono messi in relazione e si contaminano attraverso il tono pacato e cantilenante dei versi: “Merli che ve sento / prima che fassa matina / parléme co la vostra / vose prima, come fusse / la nòte de Nadal. / Conteme del mondo / (savé de la Elvira? De la so tuta / de cinilia?) / e de quelo che ne l'aria / e in mèzo ai rami / se tramanda”.
Longega è capace di affrontare, come ricorda Vivian Lamarque nella partecipe introduzione al volume (“le mie poesie – scrive in apertura – amano molto le poesie di Andrea Longega”), i grandi temi della vita e della morte, sempre con una grazia che riesce a restituirci tutta la sofferenza e tutta la bellezza di cui sono intrise le nostre esistenze e che sembra vogliamo dimenticare: “Xe cussì semplice / nasser e morir / che tutto el resto me par / inutilmente complicà”.



(pubblicato sul sito Giudizio Universale)

giovedì 4 ottobre 2012

Lo spettro di Manzoni


Cosa faccio leggere ai miei alunni? La domanda si ripropone ad ogni inizio d'anno scolastico. Ogni volta, non so fornire una risposta che risulti pienamente soddisfacente. Vorrei qualcosa di nuovo, che sappia far capire ai giovani lettori, senza immiserirli, che la letteratura non è solo roba di secoli fa, che parla anche a loro, ad ognuno di loro. Mi sforzo, credetemi, penso e ripenso, chiedo consiglio. Ci metto tutto l'impegno. Ma sulla scelta presto incombe lo spettro di Alessandro Manzoni. Il suo romanzo l'abbiamo letto tutti tra i banchi di scuola, nei cui programmi entra di prepotenza addirittura già negli anni Ottanta dell'Ottocento. Le ragioni del successo scolastico sono chiare: I promessi sposi è opera utile per affinare lessico e sintassi e risulta un insieme pedagogico di rara potenza: patriottismo, storia, valori religiosi e morali, considerazioni sui rapporti di forza nella società, personaggi buoni e cattivi su cui proporre sermoni edificanti, ecc. Insomma già alla fine del XIX secolo il romanzo del lombardo irrompe sulle caute mattinate scolastiche (insieme a Cuore di De Amicis, adatto ai più piccoli e che resiste però solo fino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso) per non più abbandonarle.
Deve essere per questo che Manzoni popola i miei incubi di insegnante. Appena penso a un romanzo da far leggere al biennio delle superiori (che so, per non allontanarmi troppo dal repertorio storico, potre provare con La Storia di Elsa Morante o Metello di Pratolini, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, o addirittura Sostiene Pereira di Tabucchi) ecco presentarsi lo spettro, accompagnato da una schiera inquieta di anime di insegnanti a spiegarmi che senza quella lettura (“tagli pure qualcosa, la capisco” mi rassicura il padre del romanzo italiano) contribuirò a formare alunni disadattati e insolenti, che non sono cresciuti animati da buoni propositi perché non si sono emozionati per le lacrime di Lucia o per la conversione dell'Innominato, non hanno avuto modo di considerare quanto sia grande la misericordia di Dio, né hanno gioito, sia pure con qualche esitazione, mentre don Rodrigo sul letto di morte cerca inutilmente di richiamare al capezzale i suoi servitori. E che dire di don Abbondio? Come fa un ragazzino di quindici anni a non riflettere almeno una volta sul paragone del vaso di terracotta che viaggia in compagnia di molti vasi di ferro?
Lo spettro arringa con toni severi. Le anime degli insegnanti (del purgatorio? ma mi sembra di riconoscere qualche professoressa ancora in vita) mi squadrano con sguardi truci. Una prof bassina, pallida quanto basta alle circostanze, mi aggredisce: “E chi è poi questo Tabucchi? Avesse almeno detto D'Annunzio!”. Io cerco di difendermi: solo per quest'anno, dico a testa bassa, per provare, poi tanto lo so che dovrò fare marcia indietro, assalito dai sensi di colpa e dalla collera dei colleghi. Loro mi guardano sgomenti. Manzoni scuote il testone: non approva.
Io la mattina dopo entro in classe e dico subito ai ragazzi, così mi tolgo il peso, di portare per la prossima lezione una copia de I promessi sposi. “Ma ci aveva detto – azzarda la biondina al primo banco – che avremmo letto altro”. “I promessi sposi bisogna conoscerli” dico io convinto. “Ma non sono nell'elenco dei libri di testo” si sente sussurrare dai banchi di fondo”. “Non importa – concludo – a casa vostra o dei vostri nonni ce ne sarà sicuramente una copia”.

mercoledì 26 settembre 2012

Le parole della poesia


Spesso le parole nella poesia seguono un loro percorso autonomo, quasi che le scelte lessicali fossero indipendenti dalla volontà di chi scrive. Si attraggono, si sistemano in una posizione a loro conveniente, in un ordine che non potrebbe risultare diverso, e che pure non è suggerito da nessuna spinta che sia unicamente razionale. O al contrario si respingono: semmai solo in quell'occasione e in quel verso ci dicono che non possono stare insieme, non si sopportano, malgrado nulla, nessuna regola grammaticale o sintattica, ne impedisca la convivenza. E' anche per questo che parte del significato della poesia sfugge a chi ne è l'autore, che è perciò costretto a porsi dinanzi al proprio testo con lo stesso margine di inconsapevolezza e di curiosità di ogni altro lettore.
Le parole si impongono attraverso una loro fisicità, sono quelle e solo quelle e solo in quella determinata posizione a essere giuste, anche se non ci è chiaro perché non siano rimpiazzabili né perché non possa essere modificata la loro posizione.
Scrive Giovanni Giudici in quel volumetto davvero straordinario che è Andare in Cina a piedi: “Ci sono situazioni del discorso poetico in cui l'uso di certe parole o espressioni si rivela del tutto fuori luogo; e questo non per una qualche regola formulata, fissata e dunque apprendibile, ma per altre e più profonde ragioni di sostanza che toccano l'intima natura della lingua, la sua fisiologia, i suoi interni equilibri”.
Tutto ciò è vero soprattutto per le rime. Una parola in rima è capace di suggerire un tragitto inaspettato, una nuova meta. Eravamo diretti in una direzione e la rima ci fa curvare, ci porta in un altro verso.
Ecco Leopardi nello Zibaldone: “Ne' versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di quello, e due di questa, talvolta tutto della sola rima. Ma ben pochi son quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque non paiano stentati, anzi nati dalla cosa”.
Negli ultimi decenni la poesia ha rinunciato di fatto alla rima. I poeti vogliono forse pieno controllo anche su quella mezza parte del significato che sarebbe, come assicura Leopardi, di pertinenza della rima stessa. In questo modo però viene meno quella possibilità di dirottamento che porta verso inaspettati punti d'arrivo.

mercoledì 19 settembre 2012

IL LETTO VUOTO di Alberto Bertoni (Nino Aragno Editore)

“So solo che da oggi sto sospeso / in questo limbo orfano / e ci annego / galleggiando avanti e indietro / disancorato da tutto il mio status / senza più tempo né cielo”. I versi, tratti dalla poesia Successione, possono servire a introdurci nel vivo dell'ultimo libro di poesie di Alberto Bertoni, Il letto vuoto, pubblicato da Nino Aragno Editore. Bertoni si conferma poeta in possesso di un grande controllo del mezzo espressivo, di una lingua sempre in bilico tra lirismo e parlato, comunque attenta all'aspetto comunicativo dell'esperienza poetica. 
L'assenza a cui fa riferimento il titolo è data dalla scomparsa della madre, che segue di pochi anni a quella del padre, a cui erano in gran parte dedicate le liriche della precedente raccolta Ricordi di Alzheimer. Il “limbo orfano”, in cui l'autore si trova costretto è un luogo segnato dalle assenza delle persone care (tra queste c'è da ricordare il poeta Giovanni Giudici, la cui presenza ritorna nei versi della raccolta, figura centrale nella formazione artistica ma anche negli affetti di Bertoni), ma anche dall'impossibilità, realizzata la mancanza di punti solidi di riferimento, di trovare una propria collocazione soddisfacente, di sentirsi comunque artefice di un destino. Il futuro è destinazione senza senso, si è padroni, infatti solo del passato, e al passato Bertoni declina spesso i suoi versi, cercando in giorni lontani una ragione dell'esistenza. Ma la memoria non regge ai colpi del trascorrere del tempo e del degenerare delle cellule, non può essere un riparo, anzi diventa tessuto che si scompone e si sfilaccia, è un contenitore dove gli oggetti si accumulano alla rinfusa e si deteriorano, una cassapanca che raccoglie “pure cianfrusaglie”. A nulla vale cercare di mettere ordine, nemmeno la poesia è utile a riorganizzare il passato, può solo costatare il disgregarsi di ogni realtà, con l'inevitabile risultato che il letto rimane appunto vuoto: “Però neanche adesso lo risolvo questo vuoto / semplicemente mettendo a posto / un oggetto o quell'altro”. 
Le diverse raccolte poetiche di di Bertoni contribuiscono a comporre una sorta di autobiografia in versi (i modelli novecenteschi sono senz'altro Saba e Giudici), disposta sulla linea di una perdurante fedeltà ai luoghi della giovinezza e alle persone che quella età hanno animato e resa indimenticabile. In una delle prose che contrappuntano le liriche e che facilitano il lettore nel collocare i versi in una geografia, Bertoni scrive che “qualcuna” dovrà pur spiegargli cosa significa nel nostro mondo essere adulti: “praticare gli acquisti più scaltri, essere un top troppo presto scavalcato o insegnare a dei figli straviziati la correttezza politica o animale?”. 
La confessione di cui Bertoni ci rende testimoni è senza veli, nulla evita o aggira, eppure risulta estremamente pudica, come se il protagonista volesse in fondo dirci che nessuna vita può veramente aspirare a spiegare l'esistenza, nemmeno quella di chi scrive: “Vacilla allora il corpo / privo già di sguardo / la testa che sbatte sul duro / ed è pensiero nudo / col suo odore di cenere, la ruggine del tempo / mentre m'infilo in un dedalo di strade secondarie / finché un banco di nebbia non m'inghiotte / e che vada o non vada / viva o non viva / non riguarda più nessuno / me stesso tantomeno”. 
Pur in questo paesaggio senza consolazione, la poesia di Bertoni ha il pregio di farci amare il mondo che descrive, di farlo apparire in qualche modo leggendario ed eroico. In esso tornano, oltre alle figure di cui si è detto, altre componenti abituali, già presenti nelle precedenti raccolte: il Modena calcio, l'Inter, i campi di bocce, dove il nonno “per eccesso di pudore, si limitava a guardare le sfide degli altri”, la città di Modena, spesso soffocata dal caldo estivo, lo scrittore Delfini, modenese anch'egli come Bertoni (e a Delfini è dedicata l'ultima prosa e l'ultima poesia del libro, un piccolo ritratto struggente e intenso, che vuole quasi indicare una ulteriore discendenza, rivendicare un'appartenenza). C'è poi il trotto, naturalmente, passione sempre viva tra i miti di Bertoni (come dimenticare una precedente raccolta dal titolo inequivocabile Ho visto perdere Varenne?) che offre appiglio ad una amara, ironica considerazione nella lirica Un purosangue di Longchamp (che, sia detto per inciso, è una pista adatta ai campioni, dove tra l'altro corse l'ultima sua gara il mitico Ribot): “Intanto è passata un'altra / estate, mia madre l'ho / ricoverata per demenza / e siccome conosco abbastanza, poverina / la genealogia equina / so che due brocchi trottatori / come i miei genitori / potranno fare tutto / ma non un purosangue di Lonchamp”.



(articolo pubblicato sul sito Giudizio Universale)

venerdì 14 settembre 2012

Paul McCartney marina la scuola


E' stato pubblicato in questi giorni Il libro bianco dei Beatles (Giunti editore), volume che raccoglie una serie di aneddoti e curiosità, legati alle oltre 200 canzoni del popolare gruppo inglese che rivoluzionò la storia del rock e, con essa, la storia del costume. Ne è autore Franco Zanetti, direttore del sito rockol.it, che vuole in questo modo ricordare la prima incisione dei Beatles, che risale al 4 settembre del 1962, esattamente cinquanta anni fa.
I Beatles nel 1962
Quel giorno quattro ragazzi allora sconosciuti entrarono negli studi londinesi della Emi in Abbey Road per registrare la canzone Love Me Do. Il libro rivela che il brano era stato composto, pare qualche anno prima, da Paul McCartney un giorno che aveva marinato la scuola. Considerato che si tratta dell'inizio di un'avventura che avrebbe trascinato la musica e la società in una nuova dimensione, possiamo supporre, con un po' di fantasia, che se quella mattina McCartney avesse deciso di fare il bravo ragazzo, forse tutto il corso degli eventi avrebbe preso un'altra direzione. Comunque è divertente pensare che una delle svolte culturali più significative del Novecento nasca da un'assenza ingiustificata a scuola.
Immagino che la mattina successiva il professore di inglese abbia scorso con piglio severo l'elenco dei nomi sul registro e abbia apostrofato il giovane allievo: “McCartney, non le sembra di esagerare con le assenze?”.
“Ieri ho scritto una canzone, professore – potrebbe aver risposto il giovanissimo Paul, fidando sulla sua faccia da bravo ragazzo -. Vuole leggerne il testo?”
“Faresti meglio a pensare alle cose serie – avrà ribattuto l'arcigno insegnante - invece di perderti dietro a impossibili sogni musicali”.

mercoledì 12 settembre 2012

L'età della musichetta


Gli spazi vuoti devono essere riempiti. I silenzi resi inoffensivi, colmati senza nessuno sconto da qualche presenza sonora. Quando è cominciato tutto questo? dieci anni fa? quindici? Da allora al ristorante, una sequenza musicale ininterrotta accompagna i nostri bocconi, al punto che risulta impossibile parlare con chi ci sta di fronte senza essere costretti ad urlare. Persino l'attesa dal dentista è funestata da un'insulsa musichetta in sottofondo, la stessa che vorrebbe allietare, ma con una ripetitività ossessiva che conduce presto alla prostrazione, l'intervallo tra la nostra chiamata telefonica e il contatto vocale con l'interlocutore con cui abbiamo necessità di parlare. Durante la partita di basket, nell'intervallo di quella di calcio, gli altoparlanti sparano a pieno volume i successi del momento e le pubblicità di sempre. C'è musica dappertutto: non l'abbiamo voluta, ma siamo costretti ad ascoltarla. Altro che società dell'immagine: questa è l'età della musichetta.
Gli spazi vuoti si occupano anche in altri modi. Per esempio, rispetto a trenta o quaranta anni fa, la velocità con cui parliamo è forse raddoppiata. Basta riascoltare un'intervista televisiva o radiofonica, o meglio un giornalista che sciorina le notizie al telegiornale: le parole si susseguono con spietata rapidità, tanto che risulta impossibile inserire tra di esse una riflessione, bisogna evitare qualsiasi commento. I commenti e le riflessioni li fanno altri: i telecronisti sportivi, che non lasciano nessun attimo dell'evento cui stiamo assistendo senza l'accompagnamento di parole.
Abbiamo paura delle pause. Le nostre giornate diventano, in questo modo, una lunga sequela ininterrotta di frasi e fraseggi, rumori, musiche, canzoni.
Il contrario di questo brusio di fondo, del ritmo cadenzato e molteplice che accompagna e sovrasta le nostre azioni quotidiane, non è il silenzio. Quello che manca è proprio la parola che vuole davvero dirci qualcosa, e la pausa che le fa seguito. Ci mancano le parole e i silenzi di chi ci sta accanto mentre prendiamo il caffè, del centralinista che ha risposto al telefono, del commesso in un negozio.
Quello che manca alle nostre giornate non è il silenzio, ma la comunicazione spicciola e serena, il parlare sommesso, a volte lento, a volte più concitato, reso insomma espressivo dal silenzio.
La poesia, con i suoi a capo ingiustificati, con gli enjambements improvvisi, con il ritornare pigro all'inizio del rigo, lotta perché la parole abbiano lo spazio e il tempo necessari per dirci qualcosa.

lunedì 10 settembre 2012

Voglio insegnare in Finlandia


Perché in Finlandia? Facile: perché la scuola finlandese da anni risulta tra le prime nel mondo per i risultati che riesce ad ottenere. Secondo i dati dello studio Pisa (Programme for international study assessment) i ragazzi finlandesi sono in possesso di una migliore preparazione rispetto a quella dei loro coetanei degli altri paesi. Ma non è il primo posto che mi interessa. Piuttosto mi piacciono alcune scelte didattiche, che mi farebbero sentire a mio agio e che credo sarebbero utili per far crescere la scuola italiana.
Innanzitutto gli studenti finlandesi risultano avanti agli altri nei test Pisa, ma la loro scuola non è per niente basata su test e questionari. Non ci vuole molto a capire che uno studente risponde a un quesito se ha delle conoscenze che glielo permettono (e se la domanda è formulata in maniera corretta). Insomma bisogna sapere per rispondere bene. Cosa sta accadendo invece in Italia? I famigerati test Invalsi (ci sono, non ci sono, valgono a qualcosa, no non valgono a nulla...) hanno creato una reazione a catena che spinge gli insegnanti a preparare gli alunni ai test. In altre parole si perdono di vista le conoscenze di fondo, e l'insegnamento che dovrebbe assicurarle, si dimentica l'obiettivo di ogni percorso didattico, che dovrebbe essere sempre quello della crescita culturale e sociale degli alunni, per concentrarsi sulla capacità di reazione positiva ai test. Insomma finisce che importa di più dare una risposta corretta sul congiuntivo rispetto a saperlo usare, la norma invece della valenza formativa delle conoscenze.
Un'immagine tratta dal film "Gli anni in tasca" di F. Truffaut
In Finlandia non si boccia, in quanto il percorso di insegnamento è modulare e chi non ha raggiunto gli obiettivi in quel determinato modulo, ripete solo quello e non l'anno intero. I conti si fanno in fondo, comunque, nel diverso punteggio di uscita dalla scuola. Sembra la scoperta dell'acqua calda, eppure per arrivarci c'è bisogno di rinunciare a un assunto, ancora molto presente da noi: cioè che la scuola debba risultare in qualche modo punitiva, che una scuola seria non è quella che mette tutti gli studenti nelle condizioni di apprendere, ma quella che appare selettiva.
Un buon insegnante, per esempio, nella nostra scuola è ancora per molti (non certo per gli alunni, non sempre per le famiglie, che badano di più ai risultati) quello che incute timore, che non si mette in discussione di fronte alla classe, che considera il sapere come un bagaglio acquisito per sempre. In Finlandia gli insegnanti (che hanno un notevole riconoscimento sociale) sono scelti dalle scuole e dai comuni, vengono valutati dai presidi, sulla base dei concreti risultati del processo di apprendimento. Ma soprattutto la scuola finlandese non ritiene che la giornata scolastica si svolga su un campo di battaglia dove si fronteggiano eserciti nemici. L'atmosfera è rilassata e non prevede atteggiamenti rigidi di controllo: l'obiettivo non è infatti quello di difendersi o di punire, ma di sviluppare negli alunni atteggiamenti autonomi e responsabili.
A me basterebbe questo per dire che vorrei andare a insegnare in Finlandia. Semmai letteratura italiana.

mercoledì 5 settembre 2012

Il cavalluccio marino


Si sforza in ogni modo il cavalluccio
marino di rimanere dritto,
imperterrito e dritto, verticale
pur in quel mondo agli occhi suoi bislacco
e orizzontale, lui testa di cavallo
e ricciolo di viola, dentro il mare
si sente perso, troppo aristocratico,
simbolo d’avvio pentagrammatico
tra muti e sordi, timido residuo
di un’età ancestrale, fossile
eppure vivo, cosa ci faccio
io, dice, cullato da quest’onda
distratta, io acrobatico, mi sembra
di correre lontano e invece mai
arrivo, troppo schivo
per mostrare agli altri la mia danza,
dondolando sulla coda ballo
in un mio ritmo banale endecasillabo.




(da Confidenze da un luogo familiare, Campanotto 2010)

lunedì 27 agosto 2012

E se invece dei libri di testo


Appena finito il loro compito (al termine di un anno scolastico o di un ciclo di studi), il primo pensiero è quello di sbarazzarsene, semmai ricavandone un qualche godimento. Così fino a qualche anno fa si organizzavano dei falò, oggi più concretamente ci si impegna nel tentativo di metterli in vendita, sforzo quasi sempre disperato comunque faticoso al pari di quello che fu il fervore nell'acquisto. E' questo immancabilmente il destino dei libri di testo, compresi quelli di letteratura. A nessuno però appena sano di mente verrebbe in mente di dare alle fiamme Il fu Mattia Pascal o di fare a pezzi, subito dopo la lettura, la pagina che contiene L'infinito di Leopardi.
E' allora del tutto lecita, e anzi appare quasi necessaria, la domanda che si pone Francesco Piccolo, sulla Lettura del Corriere della Sera di ieri, e che insieme a lui ci poniamo tutti: ma serviranno davvero, questi libri di testo?
Diciamolo con franchezza: i libri di testo (vogliamo partire dalle antologie della letteratura italiana? bene, partiamo pure da loro) sono pesanti, ingombranti, costosi, solitamente mal organizzati, confusi, ripetitivi. Se ne utilizza solo una minima parte, essendo il resto superfluo , almeno nei piani e nelle possibilità dell'insegnante e dei ragazzi che hanno a che fare con quel volume.
La letteratura è fatta di testi: perché non rivolgersi direttamente a loro, con l'apporto di qualche agile strumento critico? I libri di cui si parla a scuola sono oggi in gran parte scaricabili gratuitamente dal web e sono a nostra disposizione in qualsiasi biblioteca. Perché non tentare un uso combinato delle due risorse, così da evitare anche il frainteso che la letteratura è l'insieme di testi antologizzati, che vanno dunque studiati (anzi ne vanno studiate le interpretazioni che qualcun altro ci suggerisce) e non letti?
Verrà obiettato che gli oggetti che formano lo studio della letteratura sono in gran parte gli stessi (Dante, che so, Machiavelli, Manzoni), e se dunque i libri di testo hanno dato buoni risultati fino ad ora si può continuare ad usarli senza eccessivi problemi, avendo semmai solo l'accortezza di scegliere quelli più adeguati ai nostri tempi. Ma si dimentica che si sta parlando di strumenti e gli strumenti appunto devono adeguarsi al cambiamento dei tempi. Il fatto che i libri di testo siano costruiti con modalità analoghe e proponendo sostanzialmente le stesse strutture di quelli in uso trenta o quaranta anni fa è la prova evidente della loro inadeguatezza e della loro scarsa utilità.
Mi piacerebbe dunque che le scuole (in particolare i licei) fossero dotate di un'aula della letteratura italiana, dotata di una piccola biblioteca cartacea e dell'immensa biblioteca web, con lavagna interattiva insomma, computer e quanto serve a che gli alunni interessati possano, anche a scuola, trovare sul web quanto in quel momento serve. E poi che le scuole fossero obbligate al wi-fi gratuito e che gli studenti fossero invitati a dotarsi di tablet oltre che di romanzi e libri di poesia, invece che di libri di testo.

martedì 21 agosto 2012

Le palme lungo il mare di Salerno






















Le palme lungo il mare di Salerno
che ammalate e poi decapitate
restano radicate in mezzi tronchi
senza più ciuffo, insomma grasse e sfatte
vecchie signore, languide matrone
senza testa, ridotte a vegetale,
io vado ad abbracciare, non morite
vi prego non lasciate il vostro posto
ad alberi più giovani, a dei fusti
volgari e supponenti, non pensate
a quelle signorine in tacchi a spillo
sempre eccitate e sempre innamorate,
che fino a ieri vivevano in vivai,
non vi arrendete al punteruolo rosso
che scava gallerie dentro la carne,
la vostra carne cadente e contegnosa,
i vostri tronchi in abito da sposa.  



giovedì 16 agosto 2012

Più libri, meno carcere


In Brasile i detenuti che leggono un libro al mese possono ottenere una riduzione della loro pena. Si tratta di un esperimento, per ora attuato in quattro case di detenzione. E' necessario che i detenuti scrivano, ad ogni libro letto, una relazione «con proprietà di linguaggio e accuratezza, dimostrando di averne compreso il valore e il senso». Ogni anno possono ottenere fino a un massimo di 48 giorni di libertà.
Credo che l'idea nasca dalla costatazione che la lettura di un libro renda senza dubbio migliori (oltre che scaturire dall'assunto, piuttosto retorico oltre che teorico, che la cultura produca libertà). Chi legge cresce moralmente, è meno disposto a fare del male, a sentire gli altri come nemici da combattere. 
L'esperimento è sicuramente apprezzabile e sarebbe bello se potesse estendersi al nostro Paese, semmai interessando anche altre categorie di persone, coinvolgendo cioè coloro che vivono a piede libero e variando di conseguenza la qualità degli abbuoni.
Per esempio, un calciatore che legga almeno un libro al mese si vedrebbe premiato con un calcio di rigore; un politico, con una certa quantità di voti alle prossime elezioni; un medico, con qualche giorno di vacanza in più; una presentatrice di reality show potrebbe andare a cena con Umberto Eco, invece che con Corona. Il vantaggio di un tale sistema riguarderebbe non solamente i lettori, c'è da supporre in gran parte poco abituali, ma tutti noi. Ascolteremmo infatti dai personaggi pubblici dichiarazioni meno superficiali e scontate e vedremmo migliorare la nostra condizione di vita, di fronte, tanto per dirne una, a professionisti più scrupolosi e attenti alle esigenze altrui.
Si potrebbero attribuire premi anche a quegli insegnanti che, svolgendo un mestiere per il quale si presuppone il possesso di determinate conoscenze, credono di non aver più bisogno dei libri o di non aver tempo da leggere. A quelli che dimostreranno di “aver compreso il valore e il senso” di quello che hanno letto, la possibilità di insegnare quello che sanno veramente insegnare, semmai con un aumento di stipendio.

martedì 14 agosto 2012

Mariapia Veladiano: valutare significa dare tempo per rimediare all'errore


Mariapia Veladiano sul quotidiano La Repubblica di oggi interviene con grande chiarezza sulla questione della valutazione scolastica, strumento delicatissimo e in ogni caso fondamentale nel processo di formazione delle nuove generazioni. La base da cui si sviluppa il ragionamento è costituita dai risultati positivi ottenuti dalla scuola del Trentino, dove non si possono esprimere valutazioni al di sotto del 4. La Veladiano propone una serie di considerazioni pienamente condivisibili, a cui rimando. Mi soffermo su un solo aspetto, che è poi l'inevitabile punto di partenza di chi voglia affrontare la questione: a cosa dovrebbe servire l'atto della valutazione? a cosa veramente conduce?
Valutare, dice la scrittrice, è uno dei compiti della scuola: “serve a capire se il passo di chi insegna è giusto, se chi apprende lo sta facendo, a certificare al mondo che un percorso è compiuto davvero”. Aggiungerei che, oltre al “passo” dell'insegnante, ogni seria valutazione mette in discussione anche il metodo e il modello di relazione con coloro che vengono valutati.
Avviene invece che spesso le valutazioni prescindano dall'obiettivo primario che l'istituzione scolastica dovrebbe porsi, che non è quello di giudicare con durezza, di colpire dove si manifesta la mancanza, ma di spingere gli studenti a procedere con attenzione e possibilmente con entusiasmo in un percorso che li trasporti nella vita adulta con un adeguato bagaglio di conoscenze e di competenze. I ragazzi crescono, hanno bisogno di imparare, non di essere mortificati, di capire che gli errori possono servire a migliorarsi, di avere a disposizione strumenti che permettano loro di verificare se quello che stanno facendo ed apprendendo è in sintonia con la visione del mondo che stanno costruendo. Hanno perciò necessità di inserire le valutazioni in un sistema giusto e condiviso. “A scuola - scrive la Veladiano - la valutazione incrocia tutto intero il tempo in cui i ragazzi esplorano ancora intatte tutte le loro possibilità, cercano conferme del loro valore, hanno paura di non trovarle. E' la formazione del sé. In cui ci vuole tempo, spazio per l'errore, e per rimediare all'errore”.
E più avanti: “la scuola deve sempre sapere che la vita sorprende, che tutto può accadere nel bene e nel male”.
Mi viene in mente a questo proposito un passo del romanzo Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia. 
“... all'epoca Puglisi era di una timidezza sconcertante; uno di quei ragazzi che faticano moltissimo a ingranare e ne fanno una tragedia incomunicabile. Faticano a ingranare nella vita (il primo vero bacio lo danno di solito a vent'anni) e per motivi che nessuno può comprendere faticano a ingranare negli studi. E' come se la loro intelligenza si chiudesse, la loro sensibilità fosse spartita con precisione millimetrica tra cariche positive e negative, per cui l'impasse diventa la loro croce naturale, e rischiano – come Puglisi faceva ogni volta che veniva interrogato, e a ogni interrogazione faceva scena muta – di pisciarsi addosso quando anche la madre di tutte le domande cattive (“Sai almeno come ti chiami?”) inizia ad essere inghiottita dal silenzio, domanda che uno dei tanti professori a un certo punto si lascia sfuggire, non per malvagità ma perché l'impotenza di certi ragazzi è così solida da diventare un sostegno perfetto per la fragile impotenza degli adulti”.
Siamo a Bari a metà degli anni Ottanta. Puglisi, assicura il romanzo, si farà poi strada nella vita. Quanti Puglisi ci sono ancora oggi nelle scuole d'Italia, quanti insegnanti si sforzano di concepire considerazioni spietate, sicuri che su questo terreno si giochi la loro rispettabilità e quella dell'istruzione che dovrebbero assicurare?
Anche oggi il rigore di certe valutazioni, la presunta oggettività, nascondono solo la “fragile impotenza” di chi è chiamato a valutare.

venerdì 3 agosto 2012

A quattro vincitrici nel gioco della scherma





Non sono molti i movimenti, sempre quelli
sulla pedana avanti e indietro, affondo
presa di ferro, eppure rarefatti
o consistenti diventano miraggio della grazia,
il volteggio dell'anima che fugge
lungo il braccio e vorrebbe mantenersi
infinita. Non sono sufficienti
il gesto delicato e pronto al balzo,
il deciso vigore trattenuto, l'improvviso
schianto, il disegno leggero
delle gambe, il pensiero
che mantiene e che fulmina, la schiena
lieve, che salta e scarta si contrae ritorna
in sintesi perfetta. Bisogna misurare la bellezza,
frenarla, non unirla al tramestio del tempo,
al magro sdrucciolare
dei giorni, all'ombra, alle inutili imprese.
Bisogna che resista
la giovinezza negli occhi e nelle braccia,
sia sempre il vento della leggerezza
nel muscolo che freme e va a bersaglio.

Per vincere occorre essere semplici e lontane,
cedere alla preghiera, all'emozione,
non fissare lo sguardo
sul presente che mette le catene
alle caviglie, pensarsi forma, solo vivo segno,
la muta intelligenza della danza, la nuvola
corretta in resistenza.
Le quattro vincitrici nella scherma
sono la gioia che abbiamo abbandonato, il finale
cantato a squarciagola, l'abbraccio immaginato
con gli amici.

Oggi che continua la vita, mi accontento
di guardarvi da questo tempo nostro
di mortali che avanzano e indietreggiano in pedana,
un po' più vecchi, più deboli all'assalto, da questo tempo
di parole che fuggono la vita, che si addormentano.
Venite voi, Elisa e Arianna e Valentina e Ilaria,
venite coi fioretti sorridenti, le maschere pensanti,
la sorpresa del braccio che accarezza,
a darci il cuore, a raccontarci il sogno,
a mantenere la fiaccola sospesa
ancora verso il cielo.

martedì 31 luglio 2012

Mercuzio: fine pena mai (ovvero Armando Punzo e la poesia)



L'attività di Armando Punzo all'interno del carcere di Volterra è giustamente nota. Anche quest'anno il regista ha presentato nella casa di reclusione di Volterra con la sua Compagnia della Fortezza un'opera densa, carica di significati, capace di pressare lo spettatore trasportandolo su un tapis roulant che scarta continuamente e induce ad una riflessione sempre significativamente divagante, ma che converge infine verso un unico quadro di insieme che genera un'intensa reazione emotiva. C'è da chiedersi da dove nasca questa forza, che cosa accade tra le mura del carcere perché l'esperienza teatrale che lì nasce e si produce riesca a stupire e a coinvolgere così tanto lo spettatore. Credo che dipenda dalla capacità di Punzo di costruire uno spettacolo che sappia essere popolare nello stesso momento in cui si presenta come un evento elegante ed extravagante; un'opera che riesca ad evocare la tradizione, anche la più consueta, quella appunto che appartiene al sentire comune di più generazioni e non è confinata nell'ambito intellettuale, proprio quando sembra allontanarsi dai percorsi abituali e tentare strade poco battute, che sia capace di parlare al cuore mentre si propone come operazione di alto livello culturale. E' il teatro, bellezza, e tu non puoi farci niente, direbbe il Bogart di Quarto potere. E' il teatro, con la sua magia, la follia, la commozione, la suggestione e il turbamento, i suoi luoghi deputati, come lo è diventato, ormai da tempo, il cortile del carcere di Volterra.
Mercuzio non vuole morire accende i riflettori su quella che, a detta di Punzo, è la vera tragedia del Romeo e Giulietta, cioè la morte di Mercuzio, il poeta che parla di nulla perché parla dei sogni, e che dunque non può vivere in una società dove la violenza e la sopraffazione, la volgarità che esse producono, tolgono forza alle parole, almeno quando queste intendono veramente comunicare. Punzo insomma, in quel suo modo visionario istrionico trepidante eccitato e a tratti scanzonato, parla della poesia e dell'arte, della sua necessaria sopravvivenza in un mondo che sembra andare in tutt'altra direzione, affidando le parole di Shakespeare (non solo dal Romeo e Giulietta), di Baudelaire, Cervantes, Dante, Majakovskji, alla sua scrupolosa compagnia di attori detenuti e facendo entrare all'interno del carcere il mondo di fuori, i paesaggi cittadini su enormi pannelli, e le persone cosiddette libere, chiamate ad essere a loro volta protagoniste dell'evento, salvo poi, come è avvenuto appunto quest'anno, ribaltare la prospettiva e condurre attori e spettatori fuori dal carcere per fare in modo che siano i cittadini a diventare a loro volta attori, le strade e le piazze il grande scenario in cui si consuma la tragedia.
Infine la forza emotiva dello spettacolo è anche nel personaggio di Mercuzio, verso i cui ideali, sottilmente evocati, Punzo e i suoi attori sospingono gli spettatori. Lo scambio di ruoli, il continuo scivolamento di prospettiva, il bagaglio di sensazioni e di parole si consegnano al pubblico in un equilibrio imprevisto, tenuto insieme da un filo tenue e solidissimo, che lega e dà sostanza ai diversi frammenti, ai brani e ai lacerti di cui la messa in scena si ciba e si appropria, scomponendo e ricomponendo l'immagine complessiva che lo spettacolo poco a poco costruisce.
Il filo evanescente e tenace, che avvolge e mescola, che avvinghia e avvince, è proprio la poesia. Armando Punzo ci dice che è in fondo la poesia (l'arte, se volete) a dare consistenza alla realtà, a rimettere insieme le parti, a ricostruire e riunire. Senza la parola, senza la poesia, i nostri sogni sarebbero vuoti e non saprebbero dirci in quale direzione proseguire il cammino, perché senza sogni diventa inconsistente ogni possibilità di cambiamento, impossibile crescere, difficile avanzare.

E Mercuzio? Il poeta che non partecipa alla tragedia di Capuleti e Montecchi, tanto da cadere in duello appena la contesa ha inizio, non vuole morire, e lancia, attraverso Punzo e i suoi attori, il suo grido innocente e disperato. Ma Mercuzio è costretto a morire, a ripetere all'infinito la scena della sua morte, a cadere esanime, per potere poi rialzarsi con nuova e altrettanto disperata vitalità. La pena di Mercuzio è quella che lo costringe ad assumere su di sé la sofferenza e i disastri del mondo, la bellezza e la grandezza senza spiegazione, e pertanto intollerabile, dell'esistenza, la vita e la morte. Ed è una pena che non ha mai termine.

lunedì 30 luglio 2012

AFFARI DI CUORE di Paolo Ruffilli (Einaudi)


Paolo Ruffilli ha costruito le sue ultime raccolte di versi (tra le quali vale la pena ricordare il notevole esito di La gioia e il lutto) intorno ad un'idea forte centrale, un tema dal quale sviluppare le singole riflessioni. Accade lo stesso anche con Affari di cuore, il volume recentemente pubblicato per i tipi di Einaudi.
Attingendo alla lunga tradizione del canzoniere d'amore, con lo sguardo particolarmente puntato alle origini cortesi, stilnoviste e petrarchesche, Ruffilli manifesta fin dai primi versi una propria idea dell'atto amoroso, rivolto non verso una singola figura di donna, semmai idealizzata, ma considerato quale sentimento puro e durevole pur nelle sue molteplici manifestazioni e nei vorticosi e spesso contraddittori accadimenti. L'amore insomma se è tale non può essere circoscritto dentro esiti prevedibili e codificati, ma è scoperta continua, combinazione imprevedibile di bene e male, dialogo disarmonico e dissacrante tra spinta spirituale e vertigine erotica. L'amore riesce a fornire una ragione alle nostre esistenze, attraverso la presenza della persona amata, che diventa obiettivo e fine delle nostre azioni, ma anche minaccia, trasalimento, composizione impossibile di felicità e disperazione. Nel cammino verso la persona desiderata cerchiamo la possibilità di riconoscerci nell'altro, di pervenire all'impossibile conciliazione degli opposti: “E non volere / più niente d'altro, / se non essere te / dentro di te / nel cuore del tuo cuore, / diventato parte / del tuo stesso odore”.
L'amore sottrae dalla vita e dunque difende l'amante dai violenti assalti della quotidianità. Sembra che nulla possa davvero far male, tranne l'amore stesso, ma in effetti il mondo aspetta fuori dalla porta “benevolo e indulgente / con le nostre vite”, ma alla fine il gioco è smascherato, perché “il mondo vince sempre / tutte le partite”.
Gli esiti più felici della raccolta vanno trovati proprio in questa dialettica continua tra il rassicurante circolo chiuso in cui vive la coppia e l'inevitabile presenza del mondo, tra il bisogno di infinito che nell'amore sembra realizzarsi e la finitezza che ogni atto della vita porta inevitabilmente con sé (“l'idea di un infinito / perfino quotidiano, / lasciato in sorte / al corpo dell'amore”), tra la straniata condizione dell'innamoramento che ci fa prigionieri e il piacere di sentirci incatenati ed alienati.
Nella poesia La traccia ad esempio, ripercorrere i tratti amati del corpo della donna sembra offrire una possibile via di scampo, una soluzione alla nostra fragilità. Ma si tratta di una traccia destinata a svanire: “Solo il dettaglio / nel farsi oggetto / e luogo circoscritto / ai nostri sensi, / rende presente / e non più astratto / né più evanescente / o spento e vano / l'istinto a opporre / al tempo un'immanenza / fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che la traccia / slitti via / cadendo a fondo”.
Ruffilli privilegia un tono popolare, che sa comunque guardare alla tradizione letteraria della canzone e che introduce nella sequenza cantilenante del linguaggio quotidiano una serie di metafore che vengono assorbite nell'evento e prontamente smascherate.


(pubblicato sul sito Giudizio Universale)