giovedì 24 maggio 2012

Gozzano in India tra corvi ed elefanti


Gozzano ritratto durante il viaggio in India

Nel maggio del 1912, esattamente cento anni fa, Guido Gozzano era sulla via del ritorno dal suo viaggio in India. Era partito in febbraio, con l'amico Garrone, dietro consiglio dei medici, che ritenevano che il clima di qui luoghi potesse essere favorevole ai suoi polmoni malati. I suoi scritti di viaggio, pubblicati inizialmente dal quotidiano La Stampa, vennero poi ampiamente rivisti e raccolti nel volume Verso la cuna del mondo. Negli ultimi giorni del suo soggiorno in Oriente, Gozzano scrive: “I signori dell'India non sono gl'Indiani. E non sono nemmeno gl'Inglesi. I signori dell'India sono gli animali. I corvi, anzi tutto”. Iniziano così le pagine de Il vivajo del buon Dio, l'ultima prosa del volume. “Se gli avvoltoi sono i necrofori – continua Gozzano -, i corvi sono gli spazzaturai del vastissimo Impero. E ne sono anche i ladri, ladri fatti tracotanti dalla tolleranza millenaria, contro i quali non vi difende nessun policeman volenteroso”.

La presenza invadente dei volatili è un'impressione visiva ed uditiva che colpisce subito il visitatore sbarcato in una delle grandi capitali: Bombay o Calcutta, Madras o Rangoon. Nei pomeriggi assolati, quando la città è immersa nel silenzio e nessuno passeggia per le vie, e “in ogni stanza dell'albergo un europeo sogna la Patria lontana, resupino sotto il refrigerio dell'immenso ventilatore”, si sente il gracidio dei corvi. Esso è così monotono da non rompere il silenzio, ma da sottolinearlo. E' un “inno alla putredine”, scrive il poeta, “dove prorompe la gamma di tutte le r, dove l'orecchio sembra discernere tutte le parole non liete: Ricordati! Ricordati! Morire! Morte! Morirai!”.
“Tutti gli animali hanno in India una straordinaria familiarità con l'uomo. I passeri, le tortore, gli scoiattoli striati invadono i cortili e i giardini, scendono a prendere le bricie quasi dalle vostre mani, pieni di una francescana fiducia; ma nei corvi e nelle scimmie la familiarità è fatta di tracotanza insolente, di calcolo ingordo; certo pensano che Bombay e Calcutta siano state edificate per loro e che l'uomo sia un bipede intruso da tollerarsi con palese rancore”.
Con altrettanto palese insofferenza, Gozzano passa ad elencare le imprese delle scimmie, che invadono i tetti delle case nelle periferie, delle lucertole gibbose, del cobra dagli occhiali, dei coccodrilli, ma mostra tutta la propria partecipe meraviglia di fronte agli elefanti. “La loro intelligenza è inaudita, imbarazzante: nell'occhio microscopico, quasi perduto nella mole della testa, s'alterna un bagliore indefinibile di scaltrezza derisoria e di bontà indulgente. Sono certo che comprendono ciò che dico, che intuiscono ciò che penso”.
Infine di fronte all'ospedale degli animali di Bombay, dove l'occidentale arretra alla vista di “ronzini di piazza, bufali, zebù ischeletriti o idropici, sciancati, anchilosati, coperti d'ulceri e di piaghe, scimmie, cani, gatti ciechi, monchi, senza pelo”, il poeta della Signorina Felicita, chiede che senso abbia tutto questo, “perché non si dà a quelle povere bestie il colpo di grazia”. Il guardiano risponde che quegli animali devono vivere per soffrire e dunque spegnere, nella ruota delle molteplici incarnazioni, il desiderio di esistere, il peccato cioè che ci condanna a ritornare in vita, ad essere di nuovo materia.
“E se fosse vero? - si domanda Gozzano – Se veramente noi non fossimo il re dell'universo come la nostra religione ci promette? Se veramente il verme, il cane, l'uomo non fossero che gradazioni varie dello spirito, della stessa forza immanente che palpita ovunque, esitando incerta verso una mèta che ignoriamo?”.
Poco meno di un anno dopo il suo ritorno in Italia, Gozzano annunciò di aver consegnato all'editore il manoscritto di Farfalle, una sorta di composito poema che rimarrà in larga parte incompiuto. Chissà se nelle Vanesse e nei Bruchi non abbia visto una qualche fase di passaggio verso “la pace dell'Increato”.

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