giovedì 7 agosto 2014
mercoledì 30 luglio 2014
I libri che non si leggono
Tullio De Mauro interviene su Repubblica, con una lettera a Corrado Augias, in merito a una discussione sull’uso corrente della lingua italiana. Scrive tra l’altro De Mauro: “Negli ultimi decenni la vita sociale ci ha spinto ad acquistare l’uso parlato della lingua, ma non a leggere. La scuola di base ha svolto e continua a svolgere un grande lavoro, ma non così la scuola media superiore. Questa e poi l’università hanno ignorato e ignorano la pratica estesa della lettura e della scrittura come parti integranti e abituali dello studio. In queste condizioni è inevitabile che l’italiano parlato sia per molti un italiano orecchiato, ma non ben posseduto. Tale resterà finché scuola media superiore e università non cambieranno registro e finché i libri non entreranno nella nostra vita quotidiana”.
L’esperienza di insegnamento dell’italiano nella scuola superiore conferma queste affermazioni. I ragazzi di oggi parlano di solito in maniera sciolta e anche sostanzialmente corretta e precisa, ma scrivono in modo confuso, e comunque con risultati comunicativi al di sotto della loro espressione orale. Inoltre si trovano in difficoltà di fronte a un romanzo appena più complesso, linguisticamente o per costruzione narrativa.
E’ vero, a scuola si legge con estrema parsimonia. Non sono pochi gli studenti che arrivano all’esame di Stato senza conoscere integralmente nessuna delle opere sulle quali pure discorrono di fronte alla commissione. Gli insegnanti di scuola superiore, ormai irretiti dalle pastoie burocratiche e avviliti da riforme che li hanno allontanati dalla sostanza dell’insegnamento, sembrano aver dimenticato che la materia fondante della letteratura non sono le informazioni sulle opere, ma le opere stesse, i libri cioè, che spesso in aula entrano solo nella versione libro di testo.
Nella sua risposta alle “note” di De Mauro, Augias se la prende con la gara suicida tra destra e sinistra, a colpi appunto di riforme scolastiche, che “volendo dare all’istruzione maggiore ‘democrazia’ ha in realtà reso gli studi non più facili ma più faciloni”. Non so se l’affermazione di Augias risponda a verità (la questione andrebbe opportunamente approfondita: la scuola secondaria superiore offre molti più contenuti di qualche decennio fa, a scapito però dell’approfondimento), ma sicuramente non centra l’argomento. Il problema infatti non è se la scuola sia più o meno “facile”, ma se riesca, nello specifico nell’insegnamento della letteratura italiana, a generare curiosità nello studente, e se sia in grado di riportare il libro al centro del processo educativo.
Bisognerebbe che gli insegnanti trasmettessero la loro passione per la lettura (quando c’è) e che dimostrassero, prove alla mano, che il termine letteratura non comporta unicamente uno sguardo sul passato remoto. Due primi passi sono dunque possibili: leggere molto in classe insieme agli alunni e confrontarsi sui testi letti; indirizzare verso autori contemporanei lo stesso impegno destinato alle opere del passato. Che senso ha leggere Giambattista Marino e l’Alfieri, e non aver mai preso tra le mani un libro di Penna o di Caproni, nemmeno sapere che esistono Magrelli e la Cavalli? Come si fa a “possedere” la lingua se non si conoscono le opere di coloro che attualmente la nostra lingua smontano e rimontano?
E’ vero, a scuola si legge con estrema parsimonia. Non sono pochi gli studenti che arrivano all’esame di Stato senza conoscere integralmente nessuna delle opere sulle quali pure discorrono di fronte alla commissione. Gli insegnanti di scuola superiore, ormai irretiti dalle pastoie burocratiche e avviliti da riforme che li hanno allontanati dalla sostanza dell’insegnamento, sembrano aver dimenticato che la materia fondante della letteratura non sono le informazioni sulle opere, ma le opere stesse, i libri cioè, che spesso in aula entrano solo nella versione libro di testo.
Nella sua risposta alle “note” di De Mauro, Augias se la prende con la gara suicida tra destra e sinistra, a colpi appunto di riforme scolastiche, che “volendo dare all’istruzione maggiore ‘democrazia’ ha in realtà reso gli studi non più facili ma più faciloni”. Non so se l’affermazione di Augias risponda a verità (la questione andrebbe opportunamente approfondita: la scuola secondaria superiore offre molti più contenuti di qualche decennio fa, a scapito però dell’approfondimento), ma sicuramente non centra l’argomento. Il problema infatti non è se la scuola sia più o meno “facile”, ma se riesca, nello specifico nell’insegnamento della letteratura italiana, a generare curiosità nello studente, e se sia in grado di riportare il libro al centro del processo educativo.
Bisognerebbe che gli insegnanti trasmettessero la loro passione per la lettura (quando c’è) e che dimostrassero, prove alla mano, che il termine letteratura non comporta unicamente uno sguardo sul passato remoto. Due primi passi sono dunque possibili: leggere molto in classe insieme agli alunni e confrontarsi sui testi letti; indirizzare verso autori contemporanei lo stesso impegno destinato alle opere del passato. Che senso ha leggere Giambattista Marino e l’Alfieri, e non aver mai preso tra le mani un libro di Penna o di Caproni, nemmeno sapere che esistono Magrelli e la Cavalli? Come si fa a “possedere” la lingua se non si conoscono le opere di coloro che attualmente la nostra lingua smontano e rimontano?
lunedì 21 luglio 2014
LE POESIE di Roberto Mussapi (Ponte alle Grazie)
Gli
esordi di Roberto Mussapi risalgono alla metà degli anni Settanta
con la partecipazione alla rivista Niebo e successivamente con
la pubblicazione nel 1979 delle poesie de I dodici mesi nei
Quaderni della Fenice di Guanda, poi confluite in La gravità del
cielo del 1984. A distanza di trenta anni da qual primo libro di
versi, l'editore Ponte alle Grazie dedica ad una delle voci poetiche
più significative e più originali degli ultimi decenni il volume Le
poesie, che include tutti i versi fino a L'incoronazione degli
uccelli nel giardino e a Il capitano del mio mare, i due
poemetti di più recente pubblicazione destinati al pubblico dei
ragazzi. La raccolta di oltre 500 pagine è introdotta dagli scritti
di Wole Soyinka e di Yves Bonnefoy e si avvale di un ampio e
circostanziato contributo critico di Francesco Napoli, fondamentale
per sviluppare una riflessione generale sull'opera di Mussapi.

La
lingua di Mussapi accenna alla prosa ma sempre se ne distingue, è
racconto epico che propende incessantemente verso una sponda lirica.
La tensione narrativa assume spesso la forma del racconto del mito,
nella duplice direzione del mito antico che si fonde e si confonde
con la nostra vita abituale, offrendole senso ed arricchendo i gesti
di un valore metafisico, ma può anche proporre volti e vicende del
quotidiano, che assurgono alla potenza del mito. Ordinario e
visionario si uniscono per dare vita a un dettato molto equilibrato,
ma capace di produrre quelli che Soyinka definisce “shock
improvvisi”. La lingua della concretezza e del racconto procede di
pari passo con quella della rarefazione e della rivelazione. In
questo senso i punti di riferimento vanno ricercati solo
marginalmente nella tradizione italiana (in particolare in Foscolo),
maggiormente in esempi derivanti dalla letteratura di matrice
anglosassone, come i più volte dalla critica citati Coleridge e
Dylan Thomas, Yeats e i romantici inglesi.
In
Mussapi il mito è naturalmente strumento di conoscenza del mondo, ma
anche rito iniziatico: si può conoscere insomma diventando altro da
quello che si è (il bambino che diventa adulto: non è un caso che
in Le poesie, con una scelta
molto felice, non si distingua tra poesia rivolta agli adulti
e “per l'infanzia”), assumendo altre forme, facendosi
personaggio. Diventare un altro
è premessa alla visionarietà, così come ad uno sviluppo drammatico
della parola poetica, che costringe l'io lirico a presentarsi di
frequente nelle vesti di un io monologante.
Tutto
ciò è la premessa perché la poesia di Roberto Mussapi sia
compassionevole e pietosa, e che dunque miri, come scrive Bonnefoy, a
“levare gli occhi dagli accidenti della propria specifica
condizione per abbracciare con lo sguardo l'intero orizzonte umano”.
Del resto anche la percezione del tempo non è esperienza individuale
in Mussapi e dunque guardare al passato significa aggiungere elementi
di coscienza e consapevolezza collettiva alla durata privata della
percezione temporale. Leggiamo in La canoa,
tratta da La stoffa dell'ombra e delle cose:
“Ricordi il buio, la grotta, la paura, / la paura che ci mutò in
specie, specie abbracciata, / e il fuoco, e oltre il fuoco i primi
confini? // Ricordi come piangevamo vedendo un cavallo, / sentendo
nella sua corsa la forza del dio? / E come volevamo correre in lui, /
e superare la vita, non morire?”.
La
poesia ha anche questo compito: indicare la strada del ritorno, come
scrive acutamente Napoli, che ci permetta di rifiutare e sconfiggere
l'idea del nulla da cui siamo assediati. La poesia di Mussapi,
suggerisce ancora Bonnefoy, possiede quel “genere di verità che
perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più
invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma
incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l'amore, il
semplice amore tra persone, si rivela all'ultimo momento come la sola
verità”. Così l'anima del tuffatore di Paestum, protagonista del
celebre dipinto funerario del V secolo a. C. può concludere in
questo modo il discorso rivolto al figlio: “Ma ora che dormi come
quando in una culla / sembravi cercare i segreti del mondo, / ora che
hai spalle più larghe e più radi i capelli, / ascolta le parole
della mia anima: / non so molto di lei – di me stessa - / (è
presto, figlio, non conosco abbastanza, / ho appena iniziato, sto
nuotando), / non pensare al mio corpo (è tardi, / perle, quelli che
furono i miei occhi, e le mie labbra contratte in corallo), / ma ho
conoscenza del loro matrimonio, / di quando vivevano all'unisono nel
mondo / e io, anima di tuo padre, il tuffatore / ti consegno solo
questa esperita certezza / (dal fondo dell'abisso, nel brivido del
tuffo): / che anche l'uomo può amare eternamente”.
(pubblicato su succedeoggi.it)
giovedì 17 luglio 2014
La Capria e le anatre

Per
meglio spiegare in cosa consista questa idea di scrittura, La Capria
torna su un paragone già utilizzato, mettendo a fuoco quello che lui
chiama “lo stile dell'anatra”: “l'anatra che fila liscia sulla
superficie dell'acqua e sembra spinta da una forza astratta, non
fisica, e invece è data dal lavoro delle zampette palmate sotto il
livello dell'acqua, un continuo lavorio delle zampette che però non
si vede, non si deve vedere, come non si deve mai vedere lo sforzo
nello stile di uno scrittore”.
E'
un'idea di scrittura che trovo molto affascinante: esprimere con
semplicità la complessità del mondo, operazione difficilissima e
che richiede costante applicazione e grande fatica, e fare in modo
che il lavoro dello scrittore non risulti visibile, che la scrittura
sembri quasi spinta da una forza astratta. La teoria potrebbe
classificare, senza con questo esprimere giudizi di valore, le
esperienze letterarie degli ultimi decenni.
Se
penso alla poesia italiana della seconda parte del Novecento mi
sembrano dotate dello stile dell'anatra le poesie di Penna e di
Caproni, per fare un esempio tra i più facili, sicuramente quelle di
Cattafi e Valeri, meno il Pasolini poeta, molto più anatra nel
romanzo Ragazzi di vita.
mercoledì 2 luglio 2014
Docenti, indocenti, indecenti
Avevo
anticipato che sarei tornato sull'articolo di Alessandro D'Avenia,
pubblicato il 25 maggio scorso sull'inserto domenicale del Corriere
della Sera. Lo faccio con piacere, e con un po' di apprensione,
perché l'autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue,
riferendosi alla sua esperienza di insegnante, ma forse, vista la sua
giovane età, ricordando anche gli anni vissuti da studente, riflette sugli atteggiamenti e sulla pratica didattica di chi insegna, distinguendo tre categorie.
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Ci
sono poi gli indocenti, che per vari motivi (tra i più
diffusi certamente la stanchezza, l'insoddisfazione e l'inadeguatezza
dello stipendio) hanno competenza, ma non riescono a trasmettere il
proprio sapere. L'indocente
“non insegna perché non impara dai ragazzi, la sua classe si
appiattisce sulla prestazione”. In questo caso, il programma e
l'esame sono “l'orizzonte di autorità”. Aggiungerei che le loro
indubbie conoscenze sono l'unica luce che illumina il percorso
didattico, ma è una luce che a volte abbaglia, deforma le figure e
porta fuori strada. L'errore più grande, in questo caso, è far
credere che sia approdo quello che è solo una tappa (il compito, l'interrogazione) per
verificare se si sta procedendo correttamente in un viaggio anche piuttosto
lungo e complesso. I ragazzi in questo
caso credono di aver raggiunto il proprio scopo ottenendo un voto che
li soddisfi, si sentono inadeguati se questo non avviene. Non è
così.
Infine
ci sono gli indecenti, che “non conoscono ciò che insegnano e
trasformano la classe, presto connivente, in chiacchierificio e
poltiglia educativa”.
Se
si dà per vera la conclusione di D'Avenia che di docenti “ce n'è
almeno uno nella nostra vita e gli dovremmo, se non il doppio dello
stipendio, almeno un grazie” (e come non pensare che “almeno uno”
nella vita è un po' poco) se ne deduce che la categoria senz'altro
più numerosa è quella intermedia. Tra gli indocenti
mi sembra particolarmente nutrita, o almeno in grande crescita, la
sottocategoria che potremmo definire dei docenti burocrati,
che ritiene che l'insegnamento possa essere risolto nella precisione
con cui si aderisce alle norme e al fantomatico programma. Sono gli
insegnanti, per intenderci, che credono che le prove somministrate
(termine recentemente entrato prepotentemente nel gergo ministeriale;
da notare che finora abbiamo creduto possibile somministrare una
medicina, i sacramenti...) siano il cuore pulsante del proprio
lavoro, non lo scambio quotidiano con gli alunni, che ogni uscita
dall'aula, anche per il più nobile fine, sia una “perdita di
tempo”, e che sia necessario attenersi rigidamente alla media dei
voti ottenuti (“Fantozzi, non sei sufficiente, hai solo la media
del 5,75”). Quasi sempre amati dai dirigenti, sono costantemente
impauriti da possibili ricorsi e dall'atteggiamento di genitori
ritenuti quasi sempre incompetenti, pronti, a loro dire, a difendere
acriticamente e anche disonestamente i propri figli.
Ma
cosa fare? Bisognerebbe che gli indocenti diventassero docenti.
Invece la scuola premia chi si guarda dal promuovere curiosità e
motivazione, se questo significa rivedere almeno in parte il ruolo di
chi insegna e la propria posizione nella relazione all'interno della
classe. Eppure basterebbe, per tornare alle affermazioni di D'Avenia,
che la materia nelle ore di lezione venisse considerata “terreno
comune di ricerca, non trincea”.
martedì 24 giugno 2014
TUTTE LE POESIE di Giovanni Giudici (Oscar Mondadori)
Nel
1953, appena pubblicata la sua prima raccolta di versi, Giovanni
Giudici, che all'epoca abitava nella periferia di Roma, aveva quasi
trenta anni e nell'operazione aveva impegnato 25mila lire dell'esiguo
bilancio familiare, pensò di spedirne la prima copia ad Umberto
Saba, che si trovava allora in una clinica romana per curarsi. Lo
racconta lo stesso Giudici nel prezioso e ormai introvabile Andare
in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, spiegando anche il perché
di tanta sollecitudine: “Già da diversi anni egli era il poeta che
più amavo e leggevo e, forse, il primo fra i contemporanei del quale
avessi letto qualche poesia”, che è un modo anche per mettere in
evidenza una filiazione, per mostrare un grado di parentela. Saba,
per la cronaca, rispose al giovane allievo, dando così inizio ad una
frequentazione che sarebbe durata negli anni successivi, i pochi anni
che separavano il vecchio poeta triestino dalla morte.

Come
Saba ebbe a contrastare i bagliori delle avanguardie e la presenza
fagocitante dell'ermetismo attraverso una propria particolare
declinazione della lingua della poesia e del valore che essa viene ad
assumere nel rapporto con il lettore, anche Giudici, che si trovò
inizialmente stretto tra le propaggini del neorealismo e l'invadenza
sperimentale del Gruppo 63, seppe costruire un proprio peculiare
percorso, alimentato del rapporto con la tradizione, che viene
recuperata in forme sempre originali. Si percepisce in Giudici la
necessità di nutrirsi del passato della letteratura, di
attraversarlo con tenacia e regolarità, ma insieme l'attenzione
costante ad abbassare i toni che dalla tradizione provengono,
ribadendo in tal senso in maniera singolare ed efficace l'esempio
gozzaniano. Del resto nell'opera del poeta di La vita in versi,
Autobiologia, Il male dei creditori, per citare alcuni
dei titoli più noti, la lingua della poesia, sorprendentemente tesa
a prelevare da vari registri e da diversi territori linguistici è
sempre comunque disposta a fare i conti con il linguaggio della
comunicazione ordinaria. Giudici crede fortemente nella forza
evocativa della parola, ma sa anche che essa non può prescindere
dalla necessità di un confronto serrato con il presente. Del resto
la poesia è avvertita come dispositivo per liberare e nello stesso
tempo controllare l'energia della parola. Scrive Giudici in una delle
brevi prose contenute nel volume a cui prima si faceva riferimento:
“Fare i conti con la lingua sarà in primis prendere
coscienza del ricco e polivalente strumento di cui disponiamo. Fare
poesia: utilizzare un materiale di esperienze fisiche e sentimentali
per fabbricare oggetti linguistici multi-uso. Dominare la lingua è
dominare, nei limiti della nostra finitezza, il reale. Lingua è il
reale che entra in noi, si trasmette e si propaga”. Ed è questa
un'affermazione che bene può accompagnare la lettura dei versi del
poeta nato a Le Grazie, una frazione di Portovenere, sul mare di
Liguria, e poi vissuto lungamente a Milano.
L'Oscar
da poco pubblicato dà conto di un percorso poetico vario e
polifonico, ma sempre indirizzato a cercare di ottenere il massimo
effetto comunicativo facendo interagire i valori prosodici e sonori
del verso (l'uso per esempio di rime e assonanze, il continuo ricorso
ad un sistema di strofe, la scelta nella seconda parte della
produzione di far iniziare ogni verso con la maiuscola, a segnalarne
la compiutezza fonetica e di senso) con il naturale svolgimento,
vicino alla prosa, dei registri linguistici. Ne nasce una lingua
varia e complessa, una mobilità espressiva che si realizza, come
scrive Cucchi, attraverso “una continua oscillazione di tono e
nell'uso di materiali linguistici e stilistici eterogenei”.
La
poesia di Giudici oscilla anche costantemente, denunciando ancora una
volta il legame con l'antecedente sabiano, tra la tendenza alla
narrazione e la forte tensione lirica, in qualche modo placata però
quest'ultima dal ricorso all'ironia e all'autoironia e dall'allusione
a un paesaggio ordinario e quotidiano, a volte anche dimesso e
popolato di piccole cose.
Scrivere
poesia è sempre comunque una promessa d'amore nei confronti della
parola, un'umile ma faticosa e studiatissima prova di abilità
artigiana, ma anche, e in questo risiede in parte il valore etico
dell'atto, capacità di ascoltare l'energia, le interne armonie, i
doni, che le parole portano con sé. In questo senso il poeta è
insieme “alunno e fabbro”, come è detto nella lirica Un
poeta, contenuta nella raccolta Quanto spera di campare
Giovanni del 1993: “Uomo, sì, grazioso / Come si dice di colui
che pure / Non grato all'apparenza si fa amare / Per le miti maniere
in braccio alle sventure / O minima intenzione a fior di labbro: / Di
ciò nel fare cose di parole / Alunno e fabbro”.
(pubblicato su succedeoggi.it)
lunedì 16 giugno 2014
MANCANZE di Alessandro Fo (Einaudi)
La
poesia di Alessandro Fo si muove con rapida e stupefatta delicatezza
tra le vicende del mondo, che tenta sempre inizialmente di risolvere
nella linearità del racconto. Ma, come avviene nella lirica di
Sereni, non appena il filo narrativo sembra cominciare a dipanarsi, e
ad assolvere alla sua funzione ordinatrice, subito qualcosa (un
pensiero laterale, un gesto inaspettato, lo sguardo che si posa su un
oggetto apparentemente senza importanza) lo porta in altra direzione,
lo spinge verso prode impreviste. Ne derivano preziose quanto
pericolose sovrapposizioni di senso, che fanno sì che il lettore si
trovi dinanzi una realtà pencolante, in fondo poco rassicurante
anche se presentata con i toni della leggerezza e della sobrietà,
dentro cui muoversi con l'occhio sorpreso di chi scopre dietro
l'ordinarietà degli eventi l'incanto e la magia.

Perché
in fondo la poesia di Fo, che si proponga sotto forma di preghiera,
come nella prima sezione della raccolta, o che penetri con grazia
all'interno del miracolo della musica di Chopin, come accade nella
sezione che ha titolo Il tono blu (Variazioni Chopin), è
sempre alla ricerca di quel particolare che manca alla realtà per
definirla, quella zona celata ed ambita che sappiamo esistere in
qualche luogo e in qualche forma, perché fa parte indiscutibilmente
delle nostre esistenze, e da cui però ci sentiamo irrimediabilmente
separati. La parola ha dunque il compito di svelare e di riportare in
vita, di consolare e di mettere in evidenza le parti che mancano, di
dare concretezza a ciò che è impalpabile. E' quanto avviene nella
preghiera. Solo che quella declinata da Alessandro Fo è orazione
tutta impregnata di una religiosità laica e mondana, sia pure
composta in una pietà sincera e devota: “E
non è cosa meno incredibile il pensiero, / a pensarlo davvero, /
questo nulla che si fa verbo e moto, / il corso di parole / che
esercita il diritto / di pronunciarsi muto / e sfocia qui trascritto,
// l’immateriale / dentro il materiale / – o forse nel suo vuoto
// – come la Grazia, / nel suo corpo mortale”.
Nei
versi di Mancanze vita
e morte dialogano incessantemente, così come si rincorrono i
volti delle persone care con le presenze di angeli (a
loro è dedicata un'altra sezione del libro), che possono anche
essere figure intraviste, apparizioni destinate a svanire, delle
quali poi si potrà sentire appunto solo il peso dell'assenza. Gli
angeli delle poesie di Fo, che denunciano uno stretto grado di
parentela con le fanciulle e i ragazzacci di Saba, sono creature
terrene nelle quali bene si rappresenta l'evanescenza della realtà,
il senso del miracolo, la consapevolezza di qualcosa che abbiamo
perduto e di cui sentiremo per sempre la nostalgia (“Né
lei, probabilmente, / saprà mai quanto
deve / alla sua veste il minimo bagliore / che ne riflette forse
questa via / d’inchiostro e carta in metrica: // ispira diffidenza
la poesia, / non convince la delicatezza, / poca gente è all’altezza
dell’affetto, / quasi niente è il rispetto dell’amore..”).
Così
il poeta, riducendo in sintesi il rilievo attuale della propria
esistenza, scrive: “Una minima scia / che già si spegne / resta,
se resta, lontana in qualche mente / su cui mi sporgo ancora come
aneddoto / legato a una passata professura / o come inesplicabile
fessura / di nostalgia per un compagno assente. / Ma lentamente la
figura che una volta / parlando in me si dava nome 'io' / collimerà
in rima piena con oblio”.
Fo,
che insegna Letteratura Latina all'Università di Siena e ha
recentemente curato e tradotto l'Eneide sempre per i tipi di Einaudi,
predilige un linguaggio semplice e un tono leggero, velatamente
ironico, senza che questo però significhi rinunciare alla
complessità, ma anzi lasciandola emergere con più forza proprio
dove l'ordinarietà sembra prevalere. A questo proposito, i versi
dedicati a Chopin possono diventare una sorta di dichiarazione di
poetica: “Il
valzer in do diesis / minore (opera 64, 2)
/ sembra in contraddizione. / Appassionata, eloquente confessione /
molto espressiva, come per raccontare… // … e poi prende la pena,
/ la volge in leggerezza” o ancora “… come possono valzer cosí
tristi / giungere a donare tanta gioia?”
Pubblicato su succedeoggi.it
giovedì 12 giugno 2014
L'anima si incupisce
L'anima si incupisce se gli oggetti
di nessun conto, le lampade i
bicchieri,
ci abbandonano, il corpo si protende
senza di loro sul ciglio dell'abisso,
il gesto si frantuma in reticenze.
Solo la mano cerca nella tasca
la moneta, la chiave, il punto fermo
che ci faccia sentire dentro casa
con la speranza che tazzine e brocche
non abbiano lasciato la credenza,
che siano al posto loro le ramine,
i
calici in attesa delle bocche.
(da La vita dei bicchieri e delle stelle, Campanotto Editore)
mercoledì 4 giugno 2014
Alessandro D'Avenia, la scuola in diretta

Deve
aver subito occhiate del genere lo scrittore Alessandro D'Avenia,
insegnante in un liceo milanese, quando ha pubblicato, un paio di
settimane fa, un intervento nell'ambito del dibattito sulla scuola
ospitato dall'inserto domenicale La Lettura del Corriere della
Sera. Dice D'Avenia che istruzione ed educazione non sono separabili
e che “non ci può essere educazione (né insegnamento) in
differita, perché la relazione
coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo,
spirituale)”. Insomma “solo la vita integrale educa” e si
insegna con tutto, “sguardo, tono di voce, movenze del corpo,
disposizione dei banchi, brillare degli occhi, segni su un compito,
cellulare spento... e parole”. Aggiungerei che fondamentali sono
anche le caratteristiche del luogo che ci ospita, ma a questo ho
dedicato un altro intervento a cui rimando: http://moscheinbottiglia.blogspot.it/2014/04/un-inospitale-paesaggio-scolastico.html.
Sulla
seconda parte dello scritto di Alessandro D'Avenia mi soffermerò in
un prossimo post, intanto sottolineo alcune affermazioni che mi
sembrano convincenti.
Innanzitutto
mi piace che si parli di nuovo di educazione.
Si può insegnare (o almeno si può insegnare ottenendo qualche buon
risultato) solo se si è disposti ad accettare un assunto: senza
mettere in atto un processo educativo non è possibile nemmeno
l'insegnamento. Sta di fatto che oggi la parola educazione
fa paura. Forse perché rimanda
a un sistema di valori, che non riusciamo più a mettere a fuoco, o
forse perché richiede un diverso atteggiamento di chi è parte
attiva nella pratica quotidiana della relazione scolastica,
professori studenti genitori: bisogna mettersi in gioco.
Altra
questione: la qualità della proposta scolastica non si misura sul
numero di prestazioni che sono richieste allo studente né sulla
difficoltà che prova nel corrispondere alle richieste, ma
nell'interesse che chi insegna riesce a determinare in colui che
dovrebbe imparare, nella passione che scatena, nella curiosità che
genera. Uno studente annoiato e impaurito è di solito il risultato
non di un insegnamento serio e severo, ma di una scuola che ha
rinunciato alla relazione attiva tra le sue componenti principali,
diventando invece il luogo della burocrazia e della rigida
ripetizione di formule.
Infine,
lo studente è il soggetto
dell'atto educativo, in quanto è colui che deve imparare a conoscere
il mondo. In questo senso non può essere il punto d'approdo delle
richieste di chi insegna, il destinatario senza diritto di parola di
un ammaestramento a senso unico, ma è invece colui che deve
pretendere di sapere. Perciò deve essere messo nella condizione di
chiedere. Deve prima di ogni cosa saper formulare domande sui
contenuti che gli vengono proposti. Una scuola che genera attenzione
e fornisce motivazioni valide è quella che insegna a fare domande.
lunedì 26 maggio 2014
Cordelli e le tribù dei letterati
Franco
Cordelli su La Lettura del Corriere della Sera (domenica 25
maggio 2014) scrive che “la letteratura italiana degli ultimi
vent'anni non è che una palude, in cui il bello e il brutto sono
detti e sostenuti secondo un percorso prestabilito: pubblicazione (ma
pubblicano tutti), recensione, premio”. Oltre questo schema “non
c'è altro”, se non il riconoscimento da parte di una tribù.
Appartenere alla tribù, della quale a volte si fa parte senza
nemmeno riconoscersi all'interno del gruppo, è utile per un unico
fine, “la sopravvivenza editoriale”.
![]() |
Il critico Franco Cordelli |
Franco
Cordelli è così addentro alle cose del mondo letterario, e da così
tanto tempo e con tale autorevolezza, per cui è opportuno, oltre che
facile, dare credito alle sue parole. Insomma sono affermazioni che
non vengono da un poeta deluso, che non riesce a collocare la sua
opera presso un editore di prestigio, o da un bravo romanziere a cui
viene negato perfino un premio minore, ma da uno scrittore e critico
affermato, che frequenta la società letteraria con intelligenza e
con occhio scaltro.
Cordelli
conclude il suo articolo lasciandosi andare al gioco, del quale
avremmo anche fatto a meno, ma che in verità ha una sua ragione
d'essere, di fornire una mappa delle varie tribù, attribuendo a
ognuna un certo numero di adepti (consapevoli o meno) e un nome che
possa classificarla. Gli scrittori così irreggimentati sono settanta
e sono scelti per il fatto di essere percepiti come “culturalmente
significativi”. Tutti gli altri, i non classificati cioè, non ci
sono perché “appaiono culturalmente irrilevanti” o perché “già
acquisiti in una sfera di vera o presunta eccellenza”.
Al
di là del tentativo, nemmeno tanto celato, di provocare al dibattito
(ma chi reagirà nella palude, i citati o gli assenti?), le parole di
Cordelli fanno riflettere su alcune questioni. Innanzitutto non si
può che constatare come la società letteraria non esista più: chi
scrive non si sente più parte di un mondo di persone che si
scambiano opinioni, che cercano negli scritti degli altri qualcosa
che li appassioni, che partecipano a una ricerca comune.
E'
chiaro poi che una parte di coloro che scrivono è di fatto
invisibile. E questo non dipende dal fatto che uno scrittore venga
considerato o meno autore di opere di qualità, ma dalla sua
contiguità con una o l'altra tribù. Se si è percepiti come membri
del gruppo la visibilità è garantita.
![]() |
La rappresentazione delle varie correnti (dal Corriere della Sera) |
Sono
solo cinque o sei i poeti presenti tra i settanta scrittori
all'interno delle tribù indicate da Cordelli. Segno che la poesia
rende invisibili, ma anche che la maggior parte dei poeti “ha
rinunciato a dire qualcosa in più, oltre ai propri versi”. Resta
da capire se la rinuncia nasca dall'impossibilità di far sentire la
propria voce o dalla presunzione, comunque presente in molti, che la
parola poetica sia permeata di sacralità e dunque preservi da
qualsiasi altro intervento comunicativo.
L'impressione
è che anche i poeti, nella loro invisibilità, da fantasmi insomma,
si materializzino all'interno delle tribù (in particolare in quella
definita da Cordelli dei Novisti e abitata da Cortellessa) o che ne
abbiano formate di proprie, naturalmente del tutto “irrilevanti”,
ma alla cui rilevanza loro credono tantissimo.
Infine
se nella letteratura impaludata di questi anni è impossibile
distinguere il bello dal brutto, questo è il risultato di una
critica attenta quasi esclusivamente ai riscontri editoriali e alla
visibilità, più o meno culturale, propria e degli amici della
stessa tribù.
lunedì 19 maggio 2014
A scuola guardandosi in faccia
Lo
scrittore Andrea Bajani svolge spesso attività a contatto con gli
studenti delle superiori, frequenta il mondo della scuola, dialoga
con alunni e insegnanti. In un recente volume, pubblicato da
Repubblica e dall'editore Laterza, dal titolo inequivocabile di La
scuola non serve a niente, si legge che, trasferitosi per qualche
tempo in Germania, Bajani ha ha potuto constatare che in quel paese
la lezione “è sempre dialettica”, cioè “l'insegnante fa
lezione insieme ai ragazzi”. Invece che pretendere che gli
alunni ascoltino in maniera più o meno passiva, l'insegnante “li
interpella, li invita a contraddire e a criticare, a spiegare”. In
questo modo, assicura Bajani, “è un continuo alzarsi di mani, un
incalzare di precisazioni, esemplificazioni, richieste di
chiarimenti”; del resto “quell'intervenire continuo contribuisce
concretamente al voto finale”. L'atmosfera che si respira nelle
aule tedesche è senza dubbio estremamente diversa da quella che
caratterizza i nostri licei. “Nessuna interrogazione, nessun
tribunale. Solo una dialettica continua, un parlare guardandosi in
faccia, studenti con studenti, studenti con professori”.
Nella
scuola italiana una lezione di questo genere è oggi impossibile.
Innanzitutto perché nel nostro paese non siamo più capaci di
confrontare le idee, nemmeno in un luogo a questo deputato come la scuola:
ognuno di noi parte troppo spesso dal presupposto che parlare debba
solo servire a convincere l'interlocutore a darci ragione.
In
secondo luogo una lezione “sempre dialettica” farebbe venir meno
il presupposto, in questi ultimi anni sempre più diffuso, che i
professori non sono al loro posto per trasmettere l'amore per la
disciplina che insegnano, quanto per giudicare se chi è davanti a
loro ha a disposizione una certa quota di conoscenze, se si è
comportato correttamente, se ha capito cosa gli è stato spiegato.
Infine
per parlare con i propri alunni, mettiamo di un romanzo, di un
avvenimento storico o di un'opera d'arte, gli insegnanti dovrebbero
dire invece che spiegare, cioè mettere in campo le
proprie idee e le proprie convinzioni, altrimenti ogni
contraddittorio risulterebbe impossibile. Ma in nome di una presunta
necessaria estraneità dell'istituzione scolastica e dei suoi
rappresentanti ad ogni coinvolgimento ideologico (“a scuola non si
fa politica” abbiamo sentito spesso ripetere) si finisce per
evitare di manifestare le proprie convinzioni. Anche di fronte a un
racconto o a una poesia bisogna essere oggettivi, cioè asettici. In
questo modo l'interlocutore, cioè lo studente, è portato a ritenere
che può intervenire solo per dare risposte che servono ad essere
valutato, risposte che vanno tradotte in voto.
mercoledì 30 aprile 2014
MADRE di Roberto Carifi (Le Lettere)
Alla
figura della madre è dedicato per intero il libro di versi di
Roberto Carifi di recente pubblicazione per i tipi di Le Lettere. Il
poeta toscano torna su uno dei temi maggiormente frequentati anche
nella prima fase della sua produzione. Le diverse poesie, sia pure
distinte e ognuna capace di rappresentare un singolo e compiuto
componimento, finiscono per delineare una sorta di poemetto, che
prende di volta in volta il tono di una lunga e sofferta Lettera,
di una accorata Supplica, di un monologo attraverso cui
ricostruire gli eventi che hanno caratterizzato il rapporto con la
persona amata, ormai raffigurabili solo sul terreno della Memoria
e della Nostalgia, come suonano i titoli di alcune delle
sezioni in cui è diviso il volume.
Il
poeta intesse un pietoso e implacabile dialogo con la figura materna,
a cui senza indugio mostra i segni della malattia che l'ha colpito e
che lo costringe in un corpo deturpato. “Le distanze sono infinite,
tra te che sei nel Nirvana / ed io che mi trascino in questo
letamaio, ma poi / vita e morte sono identici e noi due diventiamo /
uguali. Anch'io sono vicino e ti stringerò / come si stringe il
Grande Nulla, il vuoto”. O ancora: “Piccola madre, quando sarai
pura mente / e mi guarderai a distanza, ricordati di me, / lo
sciancato, e passa come un velo / accanto al mio letto, piccola,
grande madre / quando sarai nel Grande Vuoto pensa / a questo
martirio ed alla Compassione / che mi porto dentro”.
La
prossimità della morte, l'aspirazione della parola al silenzio, la
comunicazione con un mondo che non è quello terreno, la
ricostruzione a tratti diaristica delle epoche della propria
esistenza, tutti temi che si presentano più volte nel corso della
raccolta, delineano una sequenza dove i piani temporali si
confondono, e presente, futuro e passato si intrecciano e si
sovrappongono. La lingua della poesia predilige un verso più ampio
rispetto a precedenti raccolte, diventando più narrativa, ma allo
stesso tempo rarefatta, facendo percepire nella scelta lessicale e
nel ritmo utilizzato che l'approdo cercato è quello dell'assenza dei
rumori, della serenità e della segretezza. Scrive Carifi, in una
delle liriche più intense e sofferte della raccolta: “Quaggiù gli
inverni cominciano presto, / e di nuovo le preghiere incontrano il
silenzio. / Avrai sentito parlare di questa rovina, / tutto ti
apparirà remoto, un'altra storia, un altro tempo. / Lo capisco,
Madre, e ti vorrei raggiungere. / Intanto mi sto abituando al
silenzio, / ogni giorno mi esercito all'addio”.
La
raccolta Madre, proprio
perché torna su un tema già fortemente praticato, consente
di guardare al complessivo percorso poetico di Carifi potendo
distinguere in esso un momento di passaggio e di mutamento,
determinato prima dall'avvicinamento al buddismo, poi dalla malattia.
Il linguaggio si è fatto più diretto, senza perdere incisività, le
immagini calate in una realtà che quanto più è fatta di oggetti
concreti tanto più rimanda ad altro.
pubblicato su Succedeoggi.it
martedì 22 aprile 2014
Un desolante paesaggio (scolastico)
Su
La Lettura di domenica 20 aprile, Paolo Giordano annuncia che
una serie di scrittori si occuperanno sulle pagine dell'inserto
domenicale del Corriere della Sera di quello che a loro avviso è “un
tema scottante che riguarda la scuola dell'obbligo”, sul quale
avanzare “delle proposte concrete, o per lo meno delle provocazioni
che siano costruttive”. Il primo a intervenire è Eraldo Affinati.

Paolo
Giordano dice, a ragione, che “quello che abbiamo di fronte non è
un grande paesaggio”. Intende che la scuola italiana è alle prese
con molti problemi, che negli ultimi anni sono andati ingigantendosi.
E' vero. Io però, traducendo in termini reali la metafora del
paesaggio scolastico, voglio innanzitutto parlare proprio del
luogo dove studenti e insegnanti passano parte delle loro giornate.
Insomma il paesaggio delle aule, delle sale insegnanti, dei corridoi,
dei bagni all'interno degli edifici adibiti a scuole.
Negli
ultimi tempi si è fatto un gran parlare della fatiscenza e della
inadeguatezza di tali strutture. Si tratta in buona parte di
costruzioni vecchie, realizzate decine di anni fa, o addirittura nate
con altri scopi e adattate alle esigenze della vita scolastica.
Il
dibattito sui fabbricati si è soffermato sulla loro pericolosità e
non ha tenuto conto della bruttura degli ambienti, quasi sempre
inospitali, soprattutto quelli destinati agli studenti più grandi.
Nessuno di noi gradirebbe passare una parte delle proprie giornate in
stanze dalle pareti sbiadite, che prendono luce da finestroni dagli
infissi tetri, con tende che ricordano quelle esposte in uffici
malridotti degli anni Sessanta, e forse risalgono a quell'epoca. Le
mattonelle, solitamente di foggia diversa appena si passa da un
ambiente all'altro, sono le stesse che hanno calpestato, una dopo
l'altra, generazioni di studenti.
Ma
come di fa a insegnare la bellezza delle opere d'arte e letterarie,
l'esattezza della scienza, come si fa a porsi domande filosofiche e
raccontare il fascino degli spazi diversi dal nostro in un paesaggio
così antiestetico? Chi abita quotidianamente all'interno di queste
strutture non avrebbe diritto ad altro, anche a prescindere dalla
stabilità dei fabbricati e dall'adeguatezza alle norme antisismiche?
Chiunque
dovesse entrare in un bagno come quelli che siamo soliti frequentare
io e i miei alunni, se fosse collocato non in una scuola ma
all'interno di un ristorante, si recherebbe subito dal proprietario
per lamentarsene.
E'
vero, le scuole erano così anche cinquanta anni fa. Ma mentre allora
anche le nostre case erano più brutte, i bar meno accoglienti, i
negozi di abbigliamento, le macellerie, gli studi dei dentisti tutti
abbastanza sgraziati, ora non è più così. Sono diventati più
gradevoli anche gli ospedali e le fabbriche, mentre gli edifici
scolastici continuano ad essere dei luoghi abbastanza disgustosi, nel
senso proprio che mancano di gusto.
Eppure
vivere in uno spazio elegante e confortevole aiuta a essere migliori,
ad apprezzare quello che abbiamo intorno, a trascorrere con più
entusiasmo le nostre giornate. Perciò il mio primo suggerimento, che
non so bene se è una proposta concreta o una provocazione, è
rendere più belle le aule delle nostre scuole, farne del luoghi
accoglienti.
sabato 19 aprile 2014
IL SANGUE AMARO di Valerio Magrelli (Einaudi)

Se
il mondo non riesce a stupirsi più di nulla, poiché tutto sembra
già accaduto, di ogni avvenimento abbiamo informazioni a
sufficienza, tanto che ci sembra di poter dare una spiegazione ad
ogni cosa, le indagini di Magrelli suonano dunque come una sfida, che
il poeta affronta senza la supponenza di chi ha in tasca una verità
da sciorinare, nemmeno con l'energia e il vitalismo di chi è sicuro
delle proprie opinioni, ma con il passo lento dell'uomo ancora
disposto a fermarsi di fronte alle cose, che sa che per guardare
veramente bisogna liberarsi dall'idea che la realtà sia così come
sembra e che possa essere svelata da un'occhiata fuggevole. In questo
suo nuovo libro, Magrelli avanza verso le sue scoperte con la
razionalità vigile e disincantata che da sempre caratterizza i suoi
versi, ma anche con il sorriso spesso sconsolato che spinge a
ironizzare sulle proprie debolezze e sulle sicurezze altrui. Il
risultato è un accorato senso di appartenenza al dolore che lega
tutte le esistenze o l'impietosa e rabbiosa condanna che va a colpire
coloro che avanzano per la propria strada senza curarsi del malessere
comune. Una poesia insomma di afflato civile, anche quando
l'attenzione si posa sugli avvenimenti o sui piccoli oggetti della
quotidianità.
Emblematica
è la poesia Rumore, fa' silenzio!, che apre la sezione
intitolata Otobiografia. Attento come sempre ai segnali del
corpo, Magrelli comincia col notare che mentre “C'è gente che
trova figure / nascoste nella carta da parati / o nelle nuvole”, a
lui succede con i rumori. Anzi più nello specifico col vecchio phon
che utilizza per asciugarsi i capelli. Sarà l'elica difettosa o i
cuscinetti a sfera “ma so che inizia a intonare una trenodia, / o
meglio, a sussurrarla sottovoce. // Prima si avvertono solo suoni
indistinti, / una folla che fugge, moto che si avvicinano, / ma
facendo attenzione / appaiono via via urla, richiami”. E più
avanti : “Sento dialetti slavi, minacce, spesso spari: / un giorno
sono rimasto ad ascoltarlo quasi dieci minuti / per seguire le fasi
di un rastrellamento / in un lontano villaggio dei Balcani”. Il
poeta si dice che forse tutto questo è solo “un miraggio uditivo,
un'impressione”. Ma non è così, “La verità è diversa: /
mentre mi punto alla tempia quell'attrezzo / che sembra una pistola,
/ viene fuori il racconto di storie terribili, / fucilazioni, il
pianto di bambini. / E' come una confessione non richiesta, / una
registrazione spedita per errore. / Che c'entro, io, con tutto questo
sangue, / io che mi voglio solo asciugare la testa?”.
La
poesia di Magrelli costruisce, verso dopo verso, un'impalcatura
ordinata e beffarda intorno al lettore, fatta di giochi di parole e
di scivolamenti verso la prosa, di volute barocche e di lapidarie
sentenze, che costringe a sentirsi meno sicuri, a chiedersi dove
finisca la poesia e cominci la gabbia che ci imprigiona. Se il mondo
ragiona per luoghi comuni, il poeta tende a scomporli, se è
superficiale e disattento di fronte ai valori della convivenza,
reagisce con sarcasmo e amarezza. “Meteorologica è l'unica, vera /
coscienza che noi abbiamo dello Stato, / immagine sgargiante / di
isobare come panneggi / che corrono su una nazione / circondata dal
nulla” afferma con contrarietà Magrelli. Di fronte
all'annebbiamento collettivo che sembra aver colpito le nostre
coscienze, infine non c'è altro che provare strazio e tormento.
Nella poesia che dà il titolo al volume, Magrelli scrive: “C'è
chi fa il pane. / Io faccio Sangue Amaro. / Che chi fa profilati
d'alluminio. / Io faccio Sangue Amaro. / C'è chi fa progetti per lo
sviluppo aziendale. / Io faccio Sangue Amaro. / Io mi faccio il
Sangue Amaro. / E' una specialità della casa, fin dal lontano 1957”.
Che è poi l'anno di nascita del poeta.
(Pubblicato su succedeoggi.it)
giovedì 27 marzo 2014
Leopardi e "il bel crin" di Fiorenza
Parlando
del Chiabrera, poeta e drammaturgo attivo nei primi decenni del
Seicento, in una pagina dello Zibaldone Giacomo Leopardi si sofferma
su una questione che vale la pena richiamare alla nostra attenzione.
In una delle sue note linguistiche e critiche, tanto acute e sottili
quanto ancora oggi marginalmente considerate, il poeta di Recanati
afferma che a volte la collocazione fortuita delle parole può
produrre nei lettori un'altra idea rispetto a quella voluta
dall'autore, e che pure chiaramente si evince dal testo. E' un
effetto che, a detta di Leopardi, va assolutamente schivato, “massime
in poesia dove il lettore è più sull'immaginare e più facile a
creder di vedere”, e anzi è propenso a credere “che il poeta
voglia fargli vedere quello ancora che il poeta non pensa o anche non
vorrebbe”.

La
nota prosegue specificando che l'immagine illusoria generata dalla
collocazione delle parole può anche essere accettata dall'autore, se
non nuoce a quella vera, e comunque se essa può collocarsi di
seguito alla prima senza sovrapporsi ad essa, “giacché due
immagini in una volta non si possono vedere”. Anzi proprio in
questo modo si può procurare “quel vago e quell'incerto ch'è
tanto propriamente e sommamente poetico”, poiché si generano
quelle immagini che sono ispirate “da cosa invisibile e
incomprensibile e da quell'ineffabile ondeggiamento del poeta che
quando è veramente ispirato dalla natura dalla campagna e da
chechessia, non sa veramente com'esprimere quello che sente, se non
in modo vago e incerto, ed è perciò naturalissimo che le immagini
che destano le sue parole appariscano accidentali”.
Dalla
lezione di Leopardi si possono ricavare alcune considerazioni.
Innanzitutto è interessante notare come il lettore di poesia, o
meglio qualunque lettore di fronte a una poesia, si senta in dovere
di cercare un significato ulteriore rispetto a quello che si deduce
immediatamente dai versi. Ciò accade perché il lettore pensa che il
poeta voglia fargli vedere qualcosa di diverso da quello che le
parole descrivono. Chi legge si pone davanti ai versi con un
atteggiamento meno remissivo di quello utilizzato di fronte a un
testo narrativo, ma anche con la disposizione di chi non si fida. Il
linguaggio della poesia è complesso: nasconde scoperte impreviste,
ma a volte anche delle trappole. Si realizza in poesia una sorta di
gioco delle parti, basato su reciproche presupposizioni: il lettore
ritiene che il poeta possa aver detto altro da quello che è scritto
sulla pagina; il poeta che sia suo compito esprimersi in maniera
misteriosa se non proprio oscura, pensando che è questo che il
lettore cerca nei suoi versi .
Anche
per questo in poesia la collocazione delle parole finisce per
risultare sempre significativa: le parole crin, frange
e sasso mi inducono a vedere un'immagine in cui la testa si
fracassa contro il marmo della tomba, anche se la poesia del
Chiabrera non dice nulla di tutto questo. Il poeta deve dunque sempre
pensare al margine di evocazione che le sue parole comportano, anche
quando il linguaggio della poesia vorrebbe essere realistico o
assolutamente razionale.
E'
il caso inoltre di sottolineare che lo scritto di Leopardi individua
in colui che scrive versi una qualità particolare e fondamentale:
quella del creatore di immagini. Il lavoro del poeta non può
prescindere dall'attenzione alle immagini che la lingua produce, dal
loro concatenarsi, dal modo in cui esse si richiamano l'una
all'altra. E' una qualità, così presente nella letteratura
classica, di cui i nostri poeti non tengono gran conto. D'altra parte
se la nostra è la società dell'immagine, il poeta dovrebbe muoversi
in essa in pieno agio, invece che sentirsene escluso: evidentemente
non sa o non vuole credere che le sue parole producano immagini. Nel
caso della poesia le immagini hanno una forza prepotente e rovinosa,
in quanto rendono visibile l'invisibile e l'incomprensibile.
Non
sfugga infine l'affermazione “è perciò naturalissimo che le
immagini che destano le sue parole appariscano accidentali”. In
poesia, sia detto ancora una volta a vantaggio dei tanti che ancora
si ostinano a credere il contrario (e soprattutto a quelli che,
ostinandosi, scrivono versi), non esiste spontaneità, anche l'evento
accidentale è frutto di un'attività di controllo e competenza, se
non del poeta sulla lingua, almeno della lingua su se stessa.
lunedì 24 febbraio 2014
POESIE 1986 - 2014 di Umberto Fiori (Oscar Mondadori)
Umberto Fiori è una
delle presenze più riconoscibili e significative del panorama
letterario italiano degli ultimi decenni. Alla sua opera in versi, a
partire dalle poesie della raccolta Case del 1986 fino ad
arrivare ai versi di Voi del 2009, la casa editrice Mondadori
dedica un Oscar, rendendo così possibile uno sguardo complessivo
sulla produzione di un poeta che ha cercato e risolto in maniera
senz'altro originale il confronto con la tradizione lirica
novecentesca. Il volume è completato dalle prime quattordici sezioni
del poemetto inedito Il Conoscente.

L'universo di Fiori è
innanzitutto cittadino: la realtà che ci presenta è fatta di case,
di muri, di macchine in sosta, di cartelloni pubblicitari, di gas di
scarico, di balconi e finestre che sono il teatro sul quale si
intravede un'umanità anonima, attraente proprio per questa sua
impersonale piattezza. E' un paesaggio che si presenta per rapide
immagini, lacerti dai quali sembrerebbe possibile ricavare un senso;
un territorio che un fascio di luce inatteso, un evento repentino
consegna all'ipotesi di una brusca e incerta epifania. Ma il prodigio
si risolve in un piccolo evento marginale, in un avvenimento senza
grande esito e che certamente non reca alcun conforto che non sia
quello di una speranza presto delusa. Il male di vivere si
manifesta allora con i connotati dei poveri fenomeni quotidiani,
assume la fisionomia di presenze ricorrenti e almeno all'apparenza
insignificanti. Scrive Fiori nella poesia Slargo, contenuta
nella raccolta La bella vista: “Chi potrà più trovarci, /
chiedere conto, / domandare perché, / dove, cosa? Noi siamo / tre
piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. // Siamo
il busto di bronzo, / la targa del furgone, l'altra bottiglia / che
porta il cameriere. // Chi ci potrà più dare / torto o ragione?”.
L'evento prodigioso
lascia tutto com'era: il panorama è ancora frammentato, scheggiato.
Aspettavamo la consolazione di una risposta, che invece stenta a
rivelarsi.
L'io lirico che fa da
protagonista alle poesie di Fiori è comunque sempre in attesa che un
miracolo possa compiersi. Vigile e solerte spia i movimenti degli
altri, dei montaliani “uomini che non si voltano”, della massa
che si compone di individui “ognuno / occupato dall'attimo che
passa”, per usare invece le parole di Sbarbaro. E' proprio nel loro
anonimato, nell'oscurità ripetitiva di vite a cui non siamo
destinati, nella loro incapacità di scoprire una realtà che non sia
quella che si vede, che risiede la forza che attrae e che ci lascia
intravedere un possibile segreto.
Così nella poesia Treno
(in Esempi) il viaggiatore può scorgere, mentre il convoglio
che percorre una curva si inclina verso un palazzo, persone che
“apparecchiano al terzo. A pianterreno / vanno a prendere un piatto
e li vedi fermi”. Nell'odore di mare, mentre “passano armadi,
tovaglie, televisori”, si presenta improvvisa una scoperta: “Mentre
le stanze passano / e se ne vanno, viene / come una spinta dentro, /
come un'invidia. / Ci si sente mancare, / in questa scene. Si è come
tenuti fuori. // Ma in fondo poi / vedere come tutto / procede bene /
anche senza di noi, / fa quasi ridere. // E si diventa liberi,
leggeri: / non si è più lì, si ragiona / come già morti, come /
mai nati. (…) // Eppure questo, / questo che tutti vedono / là,
nei soggiorni / e nelle camere, non smette di mancare: / essere così
chiari / senza saperlo, / stare soprappensiero / un attimo, nel pieno
dell'attenzione”.
Umberto Fiori, come sanno
i suoi lettori abituali, è stato il cantante degli Stormy Six,
storico gruppo del rock italiano degli anni Settanta. Anzi lo è
tuttora, visto che negli ultimi tempi la band si è ricomposta, dando
vita a rare e acclamate esibizioni. Nei giorni scorsi il gruppo ha
tenuto uno spettacolo in compagnia di Moni Ovadia al teatro Elfo
Puccini di Milano. In scena l'opera Benvenuti nel ghetto, che
aveva debuttato qualche mese fa a Reggio Emilia, dedicata agli
avvenimenti nel ghetto di Varsavia dell'aprile del 1943 e dalla quale
è stato ricavato un cd audio e un dvd.
(pubblicato sul sito succedeoggi.it)
lunedì 10 febbraio 2014
LO STADIO DI NEMEA. Discorsi sulla poesia di Giancarlo Pontiggia (Moretti&Vitali)
Il dibattito sulla
letteratura nel nostro paese è asfittico, anzi quasi del tutto
assente. Si parla di libri quasi unicamente sulla scorta di qualche
polemica legata a un premio letterario oppure dentro i confini
rassicuranti di una recensione. Poca saggistica, spesso a carattere
divulgativo, pochissima poesia, spesso per attenzione nei confronti
di un amico, soprattutto nessun discorso di carattere più ampio che
possa soffermarsi sulle modalità generali dell'espressione
letteraria, sulle scelte che distinguono la scrittura dei nostri
tempi. A farne le spese è soprattutto la critica più attenta, ormai
segregata, al pari della poesia, in luoghi periferici, dai quali,
anche a voler alzare la voce, è impossibile farsi sentire. Insomma i
libri di critica letteraria sono rari e i pochi che arrivano nelle
librerie non sono destinati a sollevare discussioni, e non certo per
propri demeriti.
Peccato. Di un dibattito
più ampio, non tanto sulle poetiche, che forse nemmeno più ci sono,
quanto sui valori stessi che sono alla base del fare letteratura, si
gioverebbero narratori e poeti, e più in generale la platea
culturale che, almeno qui da noi, è anch'essa ormai sedotta dal
chiacchiericcio fine a se stesso, dal rumore di fondo petulante e
improduttivo che anima le nostre giornate.

I vari interventi
raccolti in Lo stadio di Nemea pur nella loro eterogeneità,
convergono su alcune linee portanti, che ne fanno un libro unitario e
di sicuro spessore critico. Per Pontiggia la poesia svolge ancora
oggi un ufficio importante, che è quello di dare una risposta
all'esigenza di comunicazione che il mondo reale ci consente solo in
modo effimero. La poesia insomma ci salva “dal caos,
dall'approssimazione e dalla prepotenza del discorso improvvisato”.
I versi ci consegnano, per definizione, a luoghi più stabili, a una
ricerca della verità. Ma per fare questo, la poesia, oltre che
guardare con rinnovato interesse alla tradizione, deve uscire
“dall'imbuto esistenzialistico in cui si è insaccata”,
“distanziarsi dall'universo privato, quotidiano, empirico,
viscerale del singolo individuo”. Che è come dire a buona parte
della lirica italiana degli ultimi anni di liberarsi della veste più
spesso indossata, di evitare che lo sguardo indugi troppo sulla
propria figura e che la lingua diventi un codice riservato e perciò
escludente. La poesia non può dunque manifestarsi esclusivamente
come linguaggio dell'emozione, ma deve essere un esercizio della
complessità. “Se non c'è pensiero, non c'è poesia” sostiene
Pontiggia, “proprio come, all'inverso, non c'è poesia senza
retorica, suono, profondità di stile e di linguaggio”. Ma
attenzione, la complessità non deve per forza generare difficoltà:
“la materia della poesia è semplice: complessa semmai è la
sintesi di immaginazione, pensiero e linguaggio cui dà vita”.
Nei brevi saggi che
compongono il libro c'è materiale a sufficienza per alimentare una
discussione seria sul fare letteratura. Ma a chi interessa? Certo non
alle centinaia di scrittori di versi poco disposti a mettere in
discussione il proprio lavoro. Quello che quotidianamente viene
proposto alla lettura è difatti in buona parte “un'arte
antiumanistica, una bottiglia lanciata nel gran mare dell'essere per
un lettore fantascientifico che non c'è e probabilmente non ci sarà
mai”.
Il risultato è che al
pubblico restano solo i prodotti di più facile fruizione e di scarsa
qualità, che però sono in grado di parlare di problemi che ci
riguardano più da vicino e che in ogni caso riusciamo a comprendere.
Dunque la peggiore calamità dei tempi in cui viviamo, almeno nel
campo della letteratura, “è che gran parte dei poeti scrivono
versi che non sono da leggere, nei quali anzi vengono deliberatamente
innestati meccanismi ostili non solo al lettore comune ma all'idea
stessa del leggere”.
(pubblicato su succedeoggi.it)
giovedì 30 gennaio 2014
QUANDO AVRO' TEMPO di Anna Maria Carpi (Transeuropa)
Il nuovo libro di poesia
di Anna Maria Carpi, Quando avrò tempo, pubblicato come il
precedente L'asso nella neve da Transeuropa, contiene,
camuffata da cronaca di una serata di poesia, una dichiarazione di
poetica in negativo. L'aria è spettrale, le vie deserte, è tardi,
già le dieci passate. Anche in sala la gente è poca, le luci rade.
La Carpi è spettatrice della lettura e non sa capire “ciò che
vogliono dire questi giovani / o solo mezzi giovani nati ormai nei
70”. La conclusione è amara: “E' come in una chiesa sconsacrata,
/ è un rosario / di non credenti, recitano cose proprie e arcane. /
Chiedere cosa intendono? / A occhi bassi ascolti / e ti guardi le
mani.”

In Quando avrò tempo
la presenza degli altri, spesso animali, ancor più spesso uomini e
donne estranei all'io che scrive, visti semmai una volta soltanto,
serve a ricordare lo scorrere inesorabile delle ore, e che la nostra
vita si muove tutta all'interno della consapevolezza della caducità
di ogni cosa, pur nella ricerca di un assoluto che non è però
raggiungibile, di un tempo “senza tempo” che possiamo solo
desiderare, di uno spazio vitale remoto e incontaminato. Gli storni
che volano all'impazzata quasi fossero stati lanciati da una mano
gigante, “sbandano, ritornano, / nel loro giubilo d'essere
nessuno”. La loro incoscienza ci pone di fronte alla nostra
condanna: “Tutti via, poi il gioco ricomincia, / il gioco in alto,
al freddo, senza tempo. // Non c'è gioco per noi, noi giù nel tempo
/ per le vie del quartiere”.
Verso gli altri l'io
poetico indirizza il proprio sguardo amico, un anelito di speranza.
“I cari altri” sono tutti quelli che sono “a due passi da me e
non mi vedono, / non sanno che ci sono, / che sogno e in sogno parlo
con loro, / e che non c'è la morte / se non ci viene tolto di
parlarci”. Ma è anche vero che la spinta verso l'esterno deve
fare i conti con una realtà desolante e per nulla consolatoria. Il
mondo è fatto spesso di silenzi e dell'impossibilità di comunicare:
“ora è tutto un tacere, / domandi e non ti ascoltano e tu stesso /
se ascolti l'altro è alla svelta e per calcolo.”
Anche di fronte alle
affermazioni più crudeli, agli atti inconsulti e perciò devastanti,
la parola di Anna Maria Carpi sembra possedere una lente filtrante
che rende immacolate le nostre miserie, anche se non per questo esse
appaiono meno assurde e terribili. Il mondo che ci viene presentato è
fatto di relazioni laceranti e comunque prive di senso, di aeroporti
dove voli in ritardo mettono a nudo la mediocrità di uomini con il
mondo sul tablet, che ad ogni istante guardano l'orologio e che non
riescono più a godersi un attimo di ozio; o ancora di navi da
crociera immense, “quei lenti mostri che oscurano il sole” e
sulle quali è possibile vivere una “immortalità di pochi giorni”.
La Carpi non si adatta al
male del mondo, sa che non c'è via di uscita eppure continua a
crederci, o finge di farlo. Ci saranno occasioni in cui tutto potrà
accadere, “quando avrò tempo dico / e so che non l'avrò”. Anche
della mancanza della possibilità di dare un senso all'esistenza
possiamo sbarazzarci con un gesto gioioso, con l'inconsapevolezza
propria degli animali, volgendoci dall'altra parte: “Tenetevi per
voi la vostra fine, io non ci credo. / Verrà una sera di temporale /
di lampi e tuoni sopra la casa, / sulla mia via che finisce sul
parco, / la mia stanza, il silenzio, la mia intatta / capacità di
gioia. // Che è la fine se non un girarsi / dall'altra parte, dove
il guanciale è fresco?”.
pubblicato su succedeoggi.it
lunedì 20 gennaio 2014
COME FRATELLI di Andrea Carraro (Barbera Editore)
![]() |
Andrea Carraro |
I protagonisti di Come
fratelli sono Andrea e Dario, i due amici che il narratore segue,
con occhio impietoso e sempre partecipe, dalla fine dell'adolescenza
fino alla morte di Dario, fino a quando cioè lo scrittore Andrea
comincia a raccontare la vita dell'amico in un romanzo biografico,
che poi sembra essere proprio quello del quale noi lettori in quel
momento stiamo per terminare la lettura. I due amici sono persone
diverse per carattere ma egualmente inquiete, perennemente in bilico
lungo i margini di un'esistenza che vorrebbero cogliere in tutta la
sua pienezza, ma che crudelmente e inevitabilmente sfugge loro.
Andrea è capace di trovare un proprio equilibrio, anche se questo
comporta la rinuncia ai sogni e alle passioni, ma la smania
inespressa continua a intravedersi sottopelle; Dario insegue
aspirazioni sgangherate e illusorie, ideali tanto attraenti quanto
posticci, fino a diventare un predicatore televisivo di una religione
da lui stesso inventata, che guarda a Xiva come al luogo della
beatitudine e della realizzazione di ogni utopia. Ed è forse proprio
quello dell'utopia, dell'impossibilità anzi di realizzazione di ogni
progetto di trasformazione del reale, per una generazione che ne
aveva fatto il simulacro intorno al quale costruire le proprie
azioni, il terreno sul quale si muovono le storie e le frustrazioni
dei due amici.
Andrea continua a seguire
quasi con accanimento le vicende esistenziali dell'amico, anche
quando la loro fratellanza si frantuma sotto i colpi di una età
adulta che porta entrambi a non riconoscere l'altro, se non nel
deragliamento fallimentare delle aspettative e nello sfilacciamento
della confidenza che li aveva resi vicini.
Attraverso lo sguardo
ormai disincantato di Andrea e le azioni spesso caotiche che vedono
protagonista Dario, Andrea Carraro ci porta all'interno delle vicende
italiane degli ultimi anni, senza raccontarcele direttamente, se non
in trasparenza, e senza emettere giudizi, ma facendone chiaramente
percepire gli effetti. Gli ultimi decenni del Novecento e il primo
scorcio del nuovo millennio conducono la società italiana a prodursi
in una sorta di cattiveria maldestra e viscida, in una progressiva
ricerca di soluzioni facili e di ideali comodi e sconclusionati, così
come assurdo e senza costrutto è il percorso religioso che conduce
Dario ad una notorietà che lo mette a capo di una schiera di seguaci
inconcludenti e confusi, non si sa bene se tanto furbi da credere al
loro disordinato messaggio solo per ricavarne un vantaggio, o tanto
ingenui da cercare dio dove c'è solo falsità e sciocchezza. Nelle
pagine di Come fratelli si intravede un paese cialtrone e
ciarliero, schiavo di un delirio mediatico che colpisce
indistintamente tutti e non permette più di vedere l'assurda realtà
nella quale siamo precipitati.
Ed è proprio la realtà
con le sue incongruenze e i suoi legami sconnessi, con le sue
fragilità, con la consumata e ormai abituale volgarità, a diventare
il centro della narrazione di Andrea Carraro, che non mette ripari
per il lettore, non lo difende, ma anzi lo lascia nel pieno del
marasma di un paesaggio umano snaturato e senza più equilibrio.
Anche per questo la lingua della narrazione non nasconde i mali
comunicativi dell'epoca, ma li riproduce, lasciando campo ad un
parlato ordinario e ostentatamente inelegante. Carraro racconta una
società metropolitana, quella romana in particolare, con un
proletariato che non sa più di esistere e una borghesia che non si
concede alcuna possibilità di riscatto e vive con rassegnata
indolenza la propria incapacità di offrire un senso all'esistenza,
che non sia quello della fuga o della disperazione.
(pubblicato su Giudizio Universale)
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