
Le poesie di Sereni mi
sono sempre apparse come brevi racconti, che fanno perno sulla storia
personale e sulla “centralità dell'esperienza” (l'espressione è
del poeta Stefano Dal Bianco, fine conoscitore dell'opera di Sereni),
ma nei quali altrettanto evidente è la difficoltà di raccontare,
nel senso che viene meno la possibilità di credere che la realtà,
anche quella immediatamente vicina, possa essere oggetto di
narrazione, riferimento certo, sostanza coerente in cui avere
fiducia. I versi partono spesso da un elemento concreto, una
situazione ben individuabile, salvo poi smarrire questo punto
tangibile di avvio in un'allusività che lascia trasparire malesseri
e trepidazioni, un sentimento sgomento e palpitante.
Riporto la
poesia Finestra, tratta da Gli strumenti umani,
terzo libro del poeta di Luino, pubblicato per la prima volta nel
1965.
Di colpo – osservi –
è venuta,
è venuta di colpo la
primavera
che si aspettava da anni.
Ti guardo offerta a quel
verde
al vivo alito al vento,
ad altro che ignoro e
pavento
- e sto nascosto -
e toccasse il mio cuore
ne morrei.
Ma lo so troppo bene se
sul grido
dei viali mi sporgo,
troppo dal verde
dissimile io
che sui terrazzi un vivo
alito muove,
dall'incredibile grillo
che quest'anno
spunta a sera dai tetti
di città
- e chiuso sto in me,
fasciato di ribrezzo.
Pure, un giorno è
bastato.
In quante per una che
venne
si sono mosse le nuvole
che strette corrono
strette sul verde,
spengono canto e domani
e torvo vogliono il
nostro cielo.
Dillo tu allora se ancora
lo sai
che sempre sono il tuo
canto,
il vivo alito, il tuo
verde perenne, la voce
che amò e cantò -
che in gara ora,
l'ascolti?
scova sui tetti quel po'
di primavera
e cerca e tenta e ancora
si rassegna.
E' evidente che l'atto
quotidiano di guardare dalla finestra, il presentarsi di
un'esperienza che è fatta di eventi e di personaggi (il “tu” a
cui si rivolge il poeta, ad esempio, subito introdotto da quel primo
verbo “osservi” e poi, ad inizio di seconda strofa, chiarito al
femminile dal termine “offerta”), le azioni dell'osservare e
dello sporgersi, del nascondersi, appaiono subito messi in
discussione nella loro consistenza reale dall'affermazione che la
primavera “si aspettava da anni”, oltre che da un procedere
linguistico che alterna elementi del parlato con improvvisi
trasalimenti anche lessicali (”e chiuso sto in me, fasciato di
ribrezzo”) e con più letterarie costruzioni sintattiche (“In
quante per una che venne / si sono mosse le nuvole”), e infine da
un andamento ellittico che inaspettatamente scivola su uno spazio
vicino e si concentra su un particolare, come avviene nel caso
dell'”incredibile grillo”.
L'affermazione che la
primavera è “di colpo è venuta”, dichiarata fin nel primo
verso, ha bisogno di conferma già nel successivo, “è venuta di
colpo”: una ripetizione così ostentata che pare quasi puntare a
volere convincere chi scrive e chi legge di un evento che invece non
è dato credere possa manifestarsi con così limpida e trepida
evidenza. E difatti oltre il verde e l'alito di vento, annuncio della
stagione, c'è dell'altro, assicura il poeta, “che ignoro e che
pavento”, c'è quel “grido dei viali”, una realtà meno
spiegabile e rassicurante, un mondo in disaccordo con la vita dei
singoli, c'è un'estraneità che stenta a ricomporsi.
Incombono poi le nuvole a
negare l'evento atteso, che “corrono strette sul verde” e che
“spengono canto e domani / e torvo vogliono il nostro cielo”. Ma
infine un'ipotesi di ricostruzione del mondo, di armonia con la vita,
di equilibrio primaverile, arriva in quel canto, nel “vivo alito”,
nel “verde perenne”, nella “voce che amò e che cantò”,
tutti aspetti coniugati in senso esistenziale e privato. E' quella la
forza che può scovare sui tetti la primavera, la voce forse della
poesia, che “cerca e tenta”, ma che infine “ancora si
rassegna”.
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