Visualizzazione post con etichetta Le mosche. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Le mosche. Mostra tutti i post

mercoledì 30 luglio 2014

I libri che non si leggono

Tullio De Mauro interviene su Repubblica, con una lettera a Corrado Augias, in merito a una discussione sull’uso corrente della lingua italiana. Scrive tra l’altro De Mauro: “Negli ultimi decenni la vita sociale ci ha spinto ad acquistare l’uso parlato della lingua, ma non a leggere. La scuola di base ha svolto e continua a svolgere un grande lavoro, ma non così la scuola media superiore. Questa e poi l’università hanno ignorato e ignorano la pratica estesa della lettura e della scrittura come parti integranti e abituali dello studio. In queste condizioni è inevitabile che l’italiano parlato sia per molti un italiano orecchiato, ma non ben posseduto. Tale resterà finché scuola media superiore e università non cambieranno registro e finché i libri non entreranno nella nostra vita quotidiana”.
Tullio De Mauro
Tullio De Mauro
L’esperienza di insegnamento dell’italiano nella scuola superiore conferma queste affermazioni. I ragazzi di oggi parlano di solito in maniera sciolta e anche sostanzialmente corretta e precisa, ma scrivono in modo confuso, e comunque con risultati comunicativi al di sotto della loro espressione orale. Inoltre si trovano in difficoltà di fronte a un romanzo appena più complesso, linguisticamente o per costruzione narrativa.
E’ vero, a scuola si legge con estrema parsimonia. Non sono pochi gli studenti che arrivano all’esame di Stato senza conoscere integralmente nessuna delle opere sulle quali pure discorrono di fronte alla commissione. Gli insegnanti di scuola superiore, ormai irretiti dalle pastoie burocratiche e avviliti da riforme che li hanno allontanati dalla sostanza dell’insegnamento, sembrano aver dimenticato che la materia fondante della letteratura non sono le informazioni sulle opere, ma le opere stesse, i libri cioè, che spesso in aula entrano solo nella versione libro di testo.
Nella sua risposta alle “note” di De Mauro, Augias se la prende con la gara suicida tra destra e sinistra, a colpi appunto di riforme scolastiche, che “volendo dare all’istruzione maggiore ‘democrazia’ ha in realtà reso gli studi non più facili ma più faciloni”. Non so se l’affermazione di Augias risponda a verità (la questione andrebbe opportunamente approfondita: la scuola secondaria superiore offre molti più contenuti di qualche decennio fa, a scapito però dell’approfondimento), ma sicuramente non centra l’argomento. Il problema infatti non è se la scuola sia più o meno “facile”, ma se riesca, nello specifico nell’insegnamento della letteratura italiana, a generare curiosità nello studente, e se sia in grado di riportare il libro al centro del processo educativo.
Bisognerebbe che gli insegnanti trasmettessero la loro passione per la lettura (quando c’è) e che dimostrassero, prove alla mano, che il termine letteratura non comporta unicamente uno sguardo sul passato remoto. Due primi passi sono dunque possibili: leggere molto in classe insieme agli alunni e confrontarsi sui testi letti; indirizzare verso autori contemporanei lo stesso impegno destinato alle opere del passato. Che senso ha leggere Giambattista Marino e l’Alfieri, e non aver mai preso tra le mani un libro di Penna o di Caproni, nemmeno sapere che esistono Magrelli e la Cavalli? Come si fa a “possedere” la lingua se non si conoscono le opere di coloro che attualmente la nostra lingua smontano e rimontano?

giovedì 17 luglio 2014

La Capria e le anatre

Ho sempre apprezzato di Raffaele La Capria la fluidità dello stile. Di fronte a una sua opera letteraria di maggiore spessore, su tutte il romanzo Ferito a morte, come a uno degli articoli, con i quali puntualmente sembra sorridere del mondo offrendo una lettura apparentemente a margine, e invece così inequivocabilmente necessaria, di eventi già di per sé apparentemente marginali, sono attratto dal procedere quasi distratto, eppure così preciso e nitido, dalla capacità di mostrare la complessità in modo lieve, rappresentandola però senza mezze misure e scorciatoie. Siamo forse in un guazzabuglio, ma procediamo diritti e sicuri. Insomma, per usare un'espressione cara allo scrittore napoletano, la sua scrittura è come una Bella Giornata, una tersa mattinata di sole che fa più bello il paesaggio e sembra rendere facile adattarsi alle asprezze del mondo. La Bella Giornata è “anche un'idea di scrittura – ha scritto recentemente La Capria in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera -, quella della semplicità che arriva dopo la complessità”.
Per meglio spiegare in cosa consista questa idea di scrittura, La Capria torna su un paragone già utilizzato, mettendo a fuoco quello che lui chiama “lo stile dell'anatra”: “l'anatra che fila liscia sulla superficie dell'acqua e sembra spinta da una forza astratta, non fisica, e invece è data dal lavoro delle zampette palmate sotto il livello dell'acqua, un continuo lavorio delle zampette che però non si vede, non si deve vedere, come non si deve mai vedere lo sforzo nello stile di uno scrittore”.
E' un'idea di scrittura che trovo molto affascinante: esprimere con semplicità la complessità del mondo, operazione difficilissima e che richiede costante applicazione e grande fatica, e fare in modo che il lavoro dello scrittore non risulti visibile, che la scrittura sembri quasi spinta da una forza astratta. La teoria potrebbe classificare, senza con questo esprimere giudizi di valore, le esperienze letterarie degli ultimi decenni.
Se penso alla poesia italiana della seconda parte del Novecento mi sembrano dotate dello stile dell'anatra le poesie di Penna e di Caproni, per fare un esempio tra i più facili, sicuramente quelle di Cattafi e Valeri, meno il Pasolini poeta, molto più anatra nel romanzo Ragazzi di vita.




lunedì 26 maggio 2014

Cordelli e le tribù dei letterati

Franco Cordelli su La Lettura del Corriere della Sera (domenica 25 maggio 2014) scrive che “la letteratura italiana degli ultimi vent'anni non è che una palude, in cui il bello e il brutto sono detti e sostenuti secondo un percorso prestabilito: pubblicazione (ma pubblicano tutti), recensione, premio”. Oltre questo schema “non c'è altro”, se non il riconoscimento da parte di una tribù. Appartenere alla tribù, della quale a volte si fa parte senza nemmeno riconoscersi all'interno del gruppo, è utile per un unico fine, “la sopravvivenza editoriale”.
Il critico Franco Cordelli
Franco Cordelli è così addentro alle cose del mondo letterario, e da così tanto tempo e con tale autorevolezza, per cui è opportuno, oltre che facile, dare credito alle sue parole. Insomma sono affermazioni che non vengono da un poeta deluso, che non riesce a collocare la sua opera presso un editore di prestigio, o da un bravo romanziere a cui viene negato perfino un premio minore, ma da uno scrittore e critico affermato, che frequenta la società letteraria con intelligenza e con occhio scaltro.
Cordelli conclude il suo articolo lasciandosi andare al gioco, del quale avremmo anche fatto a meno, ma che in verità ha una sua ragione d'essere, di fornire una mappa delle varie tribù, attribuendo a ognuna un certo numero di adepti (consapevoli o meno) e un nome che possa classificarla. Gli scrittori così irreggimentati sono settanta e sono scelti per il fatto di essere percepiti come “culturalmente significativi”. Tutti gli altri, i non classificati cioè, non ci sono perché “appaiono culturalmente irrilevanti” o perché “già acquisiti in una sfera di vera o presunta eccellenza”.
Al di là del tentativo, nemmeno tanto celato, di provocare al dibattito (ma chi reagirà nella palude, i citati o gli assenti?), le parole di Cordelli fanno riflettere su alcune questioni. Innanzitutto non si può che constatare come la società letteraria non esista più: chi scrive non si sente più parte di un mondo di persone che si scambiano opinioni, che cercano negli scritti degli altri qualcosa che li appassioni, che partecipano a una ricerca comune.
E' chiaro poi che una parte di coloro che scrivono è di fatto invisibile. E questo non dipende dal fatto che uno scrittore venga considerato o meno autore di opere di qualità, ma dalla sua contiguità con una o l'altra tribù. Se si è percepiti come membri del gruppo la visibilità è garantita.
La rappresentazione delle varie correnti (dal Corriere della Sera)
Sono solo cinque o sei i poeti presenti tra i settanta scrittori all'interno delle tribù indicate da Cordelli. Segno che la poesia rende invisibili, ma anche che la maggior parte dei poeti “ha rinunciato a dire qualcosa in più, oltre ai propri versi”. Resta da capire se la rinuncia nasca dall'impossibilità di far sentire la propria voce o dalla presunzione, comunque presente in molti, che la parola poetica sia permeata di sacralità e dunque preservi da qualsiasi altro intervento comunicativo.
L'impressione è che anche i poeti, nella loro invisibilità, da fantasmi insomma, si materializzino all'interno delle tribù (in particolare in quella definita da Cordelli dei Novisti e abitata da Cortellessa) o che ne abbiano formate di proprie, naturalmente del tutto “irrilevanti”, ma alla cui rilevanza loro credono tantissimo.
Infine se nella letteratura impaludata di questi anni è impossibile distinguere il bello dal brutto, questo è il risultato di una critica attenta quasi esclusivamente ai riscontri editoriali e alla visibilità, più o meno culturale, propria e degli amici della stessa tribù.




 

giovedì 27 marzo 2014

Leopardi e "il bel crin" di Fiorenza

Parlando del Chiabrera, poeta e drammaturgo attivo nei primi decenni del Seicento, in una pagina dello Zibaldone Giacomo Leopardi si sofferma su una questione che vale la pena richiamare alla nostra attenzione. In una delle sue note linguistiche e critiche, tanto acute e sottili quanto ancora oggi marginalmente considerate, il poeta di Recanati afferma che a volte la collocazione fortuita delle parole può produrre nei lettori un'altra idea rispetto a quella voluta dall'autore, e che pure chiaramente si evince dal testo. E' un effetto che, a detta di Leopardi, va assolutamente schivato, “massime in poesia dove il lettore è più sull'immaginare e più facile a creder di vedere”, e anzi è propenso a credere “che il poeta voglia fargli vedere quello ancora che il poeta non pensa o anche non vorrebbe”.
A riprova, utilizza appunto una delle Canzoni lugubri di Gabriello Chiabrera, In morte di Orazio Zanchini, la cui terza strofe si chiude con Fiorenza, che è poi la personificazione di Firenze, che “Ora il bel crin si frange, / E sul tuo sasso piange”. Non senza ironia Leopardi fa notare che, pur essendo chiaro il senso dei versi, e cioè che Fiorenza si percuote (si frange) il capo con le mani e piange sul sepolcro dello Zanchini (sul tuo sasso), coloro che leggono la canzone del Chiabrera, “colla mente così sull'aspettare immagini”, sono indotti invece a figurarsi Fiorenza “che percuota la testa e si franga il crine sul sasso del Zanchini”.
La nota prosegue specificando che l'immagine illusoria generata dalla collocazione delle parole può anche essere accettata dall'autore, se non nuoce a quella vera, e comunque se essa può collocarsi di seguito alla prima senza sovrapporsi ad essa, “giacché due immagini in una volta non si possono vedere”. Anzi proprio in questo modo si può procurare “quel vago e quell'incerto ch'è tanto propriamente e sommamente poetico”, poiché si generano quelle immagini che sono ispirate “da cosa invisibile e incomprensibile e da quell'ineffabile ondeggiamento del poeta che quando è veramente ispirato dalla natura dalla campagna e da chechessia, non sa veramente com'esprimere quello che sente, se non in modo vago e incerto, ed è perciò naturalissimo che le immagini che destano le sue parole appariscano accidentali”.
Dalla lezione di Leopardi si possono ricavare alcune considerazioni. Innanzitutto è interessante notare come il lettore di poesia, o meglio qualunque lettore di fronte a una poesia, si senta in dovere di cercare un significato ulteriore rispetto a quello che si deduce immediatamente dai versi. Ciò accade perché il lettore pensa che il poeta voglia fargli vedere qualcosa di diverso da quello che le parole descrivono. Chi legge si pone davanti ai versi con un atteggiamento meno remissivo di quello utilizzato di fronte a un testo narrativo, ma anche con la disposizione di chi non si fida. Il linguaggio della poesia è complesso: nasconde scoperte impreviste, ma a volte anche delle trappole. Si realizza in poesia una sorta di gioco delle parti, basato su reciproche presupposizioni: il lettore ritiene che il poeta possa aver detto altro da quello che è scritto sulla pagina; il poeta che sia suo compito esprimersi in maniera misteriosa se non proprio oscura, pensando che è questo che il lettore cerca nei suoi versi .
Anche per questo in poesia la collocazione delle parole finisce per risultare sempre significativa: le parole crin, frange e sasso mi inducono a vedere un'immagine in cui la testa si fracassa contro il marmo della tomba, anche se la poesia del Chiabrera non dice nulla di tutto questo. Il poeta deve dunque sempre pensare al margine di evocazione che le sue parole comportano, anche quando il linguaggio della poesia vorrebbe essere realistico o assolutamente razionale.
E' il caso inoltre di sottolineare che lo scritto di Leopardi individua in colui che scrive versi una qualità particolare e fondamentale: quella del creatore di immagini. Il lavoro del poeta non può prescindere dall'attenzione alle immagini che la lingua produce, dal loro concatenarsi, dal modo in cui esse si richiamano l'una all'altra. E' una qualità, così presente nella letteratura classica, di cui i nostri poeti non tengono gran conto. D'altra parte se la nostra è la società dell'immagine, il poeta dovrebbe muoversi in essa in pieno agio, invece che sentirsene escluso: evidentemente non sa o non vuole credere che le sue parole producano immagini. Nel caso della poesia le immagini hanno una forza prepotente e rovinosa, in quanto rendono visibile l'invisibile e l'incomprensibile.
Non sfugga infine l'affermazione “è perciò naturalissimo che le immagini che destano le sue parole appariscano accidentali”. In poesia, sia detto ancora una volta a vantaggio dei tanti che ancora si ostinano a credere il contrario (e soprattutto a quelli che, ostinandosi, scrivono versi), non esiste spontaneità, anche l'evento accidentale è frutto di un'attività di controllo e competenza, se non del poeta sulla lingua, almeno della lingua su se stessa.



sabato 4 gennaio 2014

La poesia non si vende

Wisława Szymborska
La poesia non si vende. Sembra non sia possibile cominciare un discorso sulla poesia prescindendo da questa affermazione. Lo fa oggi su Repubblica Walter Siti, ricordando, proprio ad inizio di articolo, che “la poesia è un'aria depressa”. Pochi gli editori che se ne occupino, e di solito evitando l'impegno di un'accettabile distribuzione, pochi i lettori. Resta però da capire quali delle due povertà sia conseguenza dell'altra.
Siti annuncia che ogni domenica per un anno sulle pagine dello stesso quotidiano rileggerà un classico della poesia lirica. Operazione benemerita, ma che probabilmente non servirà a niente. Perché, come del resto dice lo stesso autore di Resistere non serve a niente (appunto!), gli unici libri di poesia che danno buoni esiti editoriali sono da ricercarsi tra i classici, in particolare tra i poeti più celebrati del secolo scorso. Cioè in buona parte tra gli autori che saranno interessati dal progetto di Siti. Del resto, qualche anno fa lo stesso quotidiano mise in vendita, insieme al giornale, una serie di libri di poesia (partendo, se non ricordo male, da Neruda, ovviamente, Garcia Lorca e Montale). Va da sé che all'interno del quotidiano, anche in quel periodo, era difficile leggere la recensione di un libro di poesia di un autore contemporaneo. Insomma, mi impegno nella diffusione della poesia, basta non sia quella che si scrive oggi.
Walter Siti
La poesia non si vende, ma è pur vero che manca da decenni una seria politica editoriale in proposito. L'impressione è che le collane di poesia, sempre più sparute, dagli editori maggiori siano considerate quasi un obbligo morale o la modalità di contropartita di qualche vantaggio realizzato in altro settore, per cui inutile investirci più di tanto; dagli editori minori siano vissute come un ripiego, un mezzo di sopravvivenza, un luogo, come dice Siti, “dove i poeti se la cantano e se la suonano”.
La poesia non si vende, ma su di essa si investe poco, quasi niente. Eppure basta che Saviano una sera legga la Szymborska in prima serata e le traduzioni italiane della poetessa polacca balzano in classifica a fianco dei soliti Camilleri e Fabio Volo.
Dice Siti che “il pop e il rock hanno raccolto il bisogno inesauribile di musica verbale, di rimare e ritmare le emozioni”. Se questo bisogno è inesauribile, sarebbe necessario capire se ancora qualcuno tra coloro che scrivono poesie sia in grado ancora di rappresentarlo. Chi è tra i poeti italiani che ancora sa parlare ai lettori, che è capace di interpretare l'urgenza di una parola che sappia dire anche musicalmente? La risposta dovrebbero fornirla gli editori, i critici, gli organi di informazione.



martedì 31 dicembre 2013

Buon Anno da Carlos Drummond de Andrade

Per salutare il 2013 e augurare ai venticinque lettori di questo blog un anno felice ho scelto una poesia di Carlos Drummond de Andrade, dal titolo inequivocabile di Passagem do ano, appunto Capodanno.
Carlos Drummond de Andrade
Drummond de Andrade è un poeta brasiliano tra i più importanti del secolo scorso. Era nato il 31 ottobre del 1902 a Itabira, una piccola città dello stato di Minas Gerais. Ha vissuto a Belo Horizonte e, dal 1934 fino alla morte, a Rio de Janeiro. E' morto nel 1987.
E' questa una poesia di tono pacato e di velata e struggente ironia, di composta malinconia: caratteristiche che contraddistinguono quasi sempre l'opera di Drummond de Andrade. Il poeta è affacciato sulla vita, che guarda con sguardo appassionato e disilluso. Tutte le risorse sono necessarie, tutti i trucchi, e tra questi soprattutto la poesia, sono utili a guardare avanti, a masticare la vita, ma nessuno veramente serve.
La traduzione è di Antonio Tabucchi, che proprio nell'anno della morte di Drummond de Andrade, curò una breve antologia per Einaudi.

Capodanno
L’ultimo giorno dell’anno
non è l’ultimo giorno del tempo.
Altri giorni verranno
ed altre cosce e ventri ti comunicheranno il calore della vita.
Bacerai bocche, strapperai delle carte,
farai viaggi e celebrerai talmente tanti
compleanni, lauree, promozioni, dolci morti con cori e sinfonie,
che il tempo ne sarà pieno e non sentirai lo strepito,
gli ululati irreparabili
del lupo, nella solitudine.

L’ultimo giorno del tempo
non è l’ultimo giorno di tutto.
Rimane sempre una frangia di vita
dove possono sedersi due uomini.
Un uomo e il suo contrario,
una donna e il suo piede,
un corpo e il suo ricordo,
un occhio e la sua luce,
una voce e la sua eco,
e chissà perfino se Dio…

Accetta con semplicità questa casuale offerta.
Meriti di vivere ancora un anno.
Vorresti vivere sempre centellinando la feccia dei secoli.
Tuo padre è morto, tuo nonno è morto.
Anche in te molte cose sono morte, altre tengono d'occhio la morte,
ma sei vivo. Ancora una volta, vivo,
e col bicchiere in mano
aspetti di albeggiare.

Il trucco di una sbornia,
Il trucco di balli e schiamazzi,
il trucco dei palloncini,
il trucco di Kant e della poesia.
Tanti trucchi: e nessuno serve.

Sorge il mattino di un anno nuovo.

Le cose sono lustre, a posto.
Il corpo liso si rinnova di spuma.
Tutti i sensi svegli funzionano.
La bocca sta masticando vita.
La bocca è intasata di vita.
La vita cola dalla bocca,
impiastriccia le mani, il marciapiede.
La vita è pingue, oleosa, mortale, surrettizia.



mercoledì 6 novembre 2013

Sandro Penna, la "triste luce"

Sandro Penna sorridente in compagnia di Pier Paolo Pasolini
Esiste nella poesia di Sandro Penna un'attrazione verso la luce. Come se il poeta provasse il bisogno di guardare persone e cose, i fanciulli e le presenze della natura, sotto i raggi abbaglianti del sole, nel pieno della luminosità di una giornata in cui l'aria stessa è fonte di spettacolo (Sul molo il vento soffia forte. / Gli occhi hanno un calmo spettacolo di luce”; “Entro l'azzurro intenso di un meriggio d'estate / denso è il fogliame e assorto sotto il lucido sole”: sono gli incipit di due poesie degli anni Quaranta). Penna vuole vedere chiaramente, isolare gli oggetti prima di introdurli nel verso, sembra mosso dalla necessità di essere abbagliato dalle forme per conoscerle. In questo modo in effetti è come se gli oggetti si presentassero ai nostri occhi per la prima volta: l'illuminazione diffusa sorprende e inventa. Come nella lirica d'amore dello Stilnovo, la luce rende possibile l'apparizione e introduce al miracolo della presenza dell'oggetto amato, ma la presenza è fuggevole e la luce costruisce la scoperta e prepara all'assenza. Inoltre anche in Penna, come avviene nella poesia di Pascoli, la luce sfuma i contorni e nel riverbero lascia intravedere fantasmi, sottintende il mistero: se l'aria è “gemmea” non è detto che sia frutto della stagione primaverile, l'apparenza (si tratta pur sempre di un'apparizione) potrebbe nascondere tutt'altra realtà, scoprendo “nere trame” e rendendo angoscioso e lontano il cielo.
Come scrive Cesare Garboli, nel sistema ossessivo che attraversa la poesia di Penna “c'è una costante alternanza tra un'espressione panica, solare, luminosa dell'io e una reintroversione, una regressione nell'infelicità e nel mistero”.
Alla scoperta luminescente della natura e del desiderio dell'amore che essa contiene fa seguito repentinamente un senso di angosciosa rivelazione che porta alla consapevolezza che luce e ombra sono inseparabili, così come la gioia e il sogno conducono con sé un sentimento di nostalgia e di rimpianto.
E' quanto appare evidente in questa lirica tratta da Croce e delizia:

       Amore, gioventù, liete parole
       cosa splende su voi e vi dissecca?
       Resta un odore come merda secca
       lungo le siepi cariche di sole.

Ciò che splende su amore e gioventù è la stessa forza che dissecca la loro vitalità e che rende amara l'epifania, cupa l'illuminazione. Il tono leggero e blandamente canzonatorio, lo scivolamento lessicale che coniuga le dannunziane siepi cariche di sole con l'acre e popolare odore della merda secca, rivelano l'impossibile permanenza della luce: luminosità e tenebre convivono, così come l'amore e il suo distacco.
Ancora dalla stessa raccolta:

Sole con luna, mare con foreste,
tutte insieme baciare in una bocca.

Ma il ragazzo non sa. Corre a una porta
di triste luce. E la sua bocca è morta.

Basta uno scarto, il piccolo movimento di una breve corsa, e la felicità sbanda, la realtà si impossessa nuovamente della vita e l'improvviso miracolo di un'apparizione salvifica si perde nella “triste luce”. La bocca desiderata diventa la manifestazione del rifiuto della vita e dello smarrimento che ci domina.



sabato 19 ottobre 2013

Una partita di calcio con Vasco Pratolini

Il 19 ottobre 1913 nasceva a Firenze Vasco Pratolini. In occasione del centenario i critici letterari approfondiranno gli aspetti più significativi della sua opera. Si rispolvererà certamente la polemica che fece seguito alla pubblicazione nel 1955 di Metello, il romanzo che mise l'uno contro l'altro Carlo Salinari e Carlo Muscetta, a fare le pulci al più o meno edulcorato realismo della narrazione. Verrà ricordato il giudizio, che spesso gravò sull'opera dello scrittore fiorentino, di una narrativa dai toni elegiaci, che contribuì a rendere difficile il rapporto con il partito comunista, rapporto peraltro definitivamente messo in crisi dai fatti di Budapest del 1956, quando Pratolini senza alcuna incertezza si schierò dalla parte degli insorti. Del resto per Pratolini il comunismo doveva essere sempre coniugato all'aggettivo “popolare”: popolare doveva essere la rivoluzione, così come comprensibile al popolo dovevano essere i sentimenti e le azioni raccontate nelle sue opere.
A me, che critico non sono e non ho da scrivere su nessun importante quotidiano, viene piuttosto da pensare che il giorno dopo le celebrazioni del centenario si giocherà a Firenze la partita di calcio tra la Fiorentina e la Juventus.
Ho conosciuto Vasco Pratolini agli inizi degli anni Ottanta. Lo scrittore frequentava un gruppo di amici salernitani di Alfonso Gatto, morto qualche anno prima, che si ritrovavano alla galleria Il Catalogo di Lelio Schiavone. Insieme a Lelio, di tanto in tanto, ci recavamo a Roma a incontrare l'autore di Cronache di poveri amanti e di Le ragazze di Sanfrediano, in una sorta di devoto e amichevole scambio di visite. Una bella domenica di dicembre, dopo che avevamo mangiato in non ricordo più quale ristorante abruzzese, e dopo che la mattinata era trascorsa con Pratolini che mi mostrava le strade dove aveva visto passare i carri armati tedeschi che lasciavano la città, lo scrittore volle fare rapido ritorno a casa. Appena il tempo di chiudersi alle spalle la porta dell'elegante e piuttosto anonimo appartamento che abitava nei pressi di viale Libia e subito Pratolini andò a sedersi, lui reso ancora più piccolo dagli anni, dietro l'enorme scrivania del suo studio. Ci chiese di fare silenzio e mise in funzione la radio. Non ci fu più modo di scambiare parola, se non per commentare qualche gesto calcistico, dopo che una nota marca di brandy ci ebbe augurato buon pomeriggio, comunque andassero le cose per la nostra squadra del cuore, e dopo che la voce di Ameri ci ebbe introdotto all'interno dello stadio di Firenze. Quel giorno la Fiorentina giocava con la Juventus.
Qualche anno prima Pratolini aveva scritte queste parole sul calcio: E’ un vizio? Indubbiamente è un richiamo molto forte, irresistibile, ovunque mi trovi, quale che sia il valore delle squadre, il tempo, gli impegni che mi consiglierebbero di rinunciarci. Nelle mie domeniche salta la domenica, mai la partita. Ed onestamente parlando, oggi come oggi, non so cosa possa accadere di più importante nel resto del mondo, in quelle ore della domenica, di quanto non accada negli stadi, e che meriti di essere veduto, e vissuto. E’ il gusto dello spettacolo, con tutti i suoi deliri anche, che un grande spettacolo comporta. poiché di un grande spettacolo si tratta, il più autentico della nostra epoca, lo spettacolo collettivo, 'per tutti', che il teatro moderno non ha saputo darci”.
C'è tanto della poetica di Pratolini in queste frasi, del suo senso della vita,  della ricerca dell'autenticità dello stare insieme, dell'emozione e dell'affettività che animano le imprese collettive e che si ritrovano, sia pure con altro spessore, nella sua opera. Un'opera che si era interrotta nel 1966 con la pubblicazione del suo ultimo romanzo Allegoria e derisione. Da allora Pratolini aveva pubblicato solo il libro di poesie Il mannello di Natascia, nel 1980, inizialmente proprio a Salerno per le edizioni de Il Catalogo di Schiavone. 
Quando insomma l'ho conosciuto, Vasco Pratolini non pubblicava narrativa da quindici anni e non amava parlare dei suoi libri. Di fronte alle richieste ammirate degli amici si chiudeva in un silenzio anche un po' astioso. Ogni tanto ne parlava con me, prendendomi sottobraccio e avendo cura che gli altri non ascoltassero. Ma con me preferiva comunque chiacchierare di calcio: sapeva di poter discutere di tattiche e gesti tecnici, senza paura di non venir compreso.


sabato 31 agosto 2013

Estate, dove vai?

Finisce agosto e finisce l'estate, almeno per noi che guardiamo a settembre come a un'età già diversa. E' il passaggio che segna davvero la fine e l'inizio dell'anno. Ne sono prova gli innumerevoli versi dedicati a questa stagione. A me viene in mente una poesia di Diego Valeri, contenuta nella sua ultima raccolta Calle di vento.

Estate, dove vai, dove mi porti?
Tu sembri stare, ma
vai senza posa, scorri via. Domani
è l'autunno: l'autunno
dai soli impalliditi, dalle lunghe ombre opache.
Cadono i frutti, l'albero si spoglia.

Come spesso accade nelle sue poesie, Valeri sembra registrare le evidenze della realtà, riportarle aderendovi con subitanea accettazione. In effetti questa sorta di assenso nasconde spesso una verità fatta di precarietà e di rinuncia. Così l'autunno che si appresta segna il ritorno di una certezza: la fragilità che prende di nuovo possesso delle cose e delle vite, dopo il malinteso estivo che ha fatto sembrare immutabile il mondo. L'apparente fissità dell'estate (Cardarelli in Estiva parla di “stagione la meno dolente / d'oscuramenti e di crisi”, che “sembri mettere a volte / nell'ordine che procede / qualche cadenza dell'indugio eterno”) in effetti già nasconde un avanzare “senza posa”, lo scorrere quasi inconsapevole delle esistenze. Solo con l'arrivo dell'autunno ci accorgiamo di come la vita abbia proseguito nel suo cammino, negandoci un'eternità a cui avevamo creduto.

Mentre l'estate è carica di fraintesi (“tu sembri stare”) ed è in fondo stagione di mutamenti e di alterazioni (“vai senza posa, scorri via”), l'autunno rende evidente l'oggettiva sicurezza della provvisorietà, ristabilisce la certezza che tutto è incerto e transitorio.


venerdì 30 agosto 2013

Poeti in osteria

Oggi mi piacerebbe andare in osteria. Ma non una di quelle di ora, che della trattoria hanno solo il nome e dietro il basso livello lessicale della denominazione nascondono locali d'alto pregio e una cucina di raffinata presunzione. Vorrei proprio mangiare in una di quelle osterie (una bettola, mi suggerisce una voce) con i tavoli di legno – un legno non pregiato e solo lavorato dai morsi del tempo e dalle nevrosi degli avventori – e con le sedie impagliate, i quadri brutti alle pareti, che raffigurano zingare e paesaggi di mare. Potrei consumare qualcosa di semplice a un prezzo onesto (aggettivi da tempo se non banditi quantomeno sgraditi nei nostri consessi, non solo in quelli gastronomici), ma soprattutto proverei piacere nel guardare l'umanità che frequenta il locale. Si tratta la maggior parte delle facce consuete di gente sconosciuta, venuta da un passato dove bellezza ed eleganza abitavano altri quartieri, e dove si poteva passare il tempo, tra un piatto e l'altro, a guardarsi intorno, a parlare col vicino visto per la prima volta. Vorrei ammirare rapito il cameriere che ciabatta, dalle movenze buffamente severe nella giacca bianca un po' consunta, la padrona in evidente sovrappeso che si lamenta, ma insieme sorride e scherza, come in una recita ben congegnata.
Non ce ne sono più di osterie così. Per cercare la loro atmosfera devo tornare alle pagine di qualche poeta. Saba, ad esempio, che in Scorciatoie e raccontini afferma che “l'osteria romana nella quale prendo i miei pasti è uno dei luoghi nei quali amo l'Italia”. In questo spazio caro “entrano cani festosi, che nessuno sa di chi sono; bambini nudi con in mano un fiasco impagliato (vengono a comprare vino per papà)”. “Mangio solo come il Papa – conclude poi il poeta – non parlo a nessuno e mi diverto come a teatro”.
Di Sbarbaro è nota la Lettera dall'osteria, che comincia così:

In istato di grazia, amico Volta,
di notte da una bettola ti scrivo.

Stato di grazia: ché non so più grande
bene, di contemplare
tra la nebbia del vino i paesaggi
di cui rozz’arte ornò all’intorno i muri,
e l’ostessa baffuta o la ridente
ragazzotta che reca la terrina.

Attaccare discorso con chi capita
vicino; a chi sorride
sorridere; voler a tutti bene;
scantonato dal tempo e dallo Spazio,
guardare il mondo come un padreterno.

E uscire dalla bettola leggero
come la mongolfiera che s’invola;
sentir come tappeti di velluto
i lastricati sotto il piede incerto;
e voglia di cantare a squarciagola.

Al breve elenco, del tutto parziale e incompleto, non può mancare una poesia di Sandro Penna.

Le nere scale della mia taverna
tu discendi tutto intriso di vento.
I bei capelli caduti tu hai
sugli occhi vivi in un mio firmamento
remoto.

Nella fumosa taverna
ora è l'odore del porto e del vento.
Libero vento che modella i corpi
e muove il passo ai bianchi marinai.

Non ci sono più codeste osterie. O forse non ci sono poeti in osteria.






sabato 27 luglio 2013

Produrre figure narrare storie: esperienza e invenzione in Vittorio Sereni

A riprova di quanto sostenuto nel post precedente, nel quale tentavo un'analisi di una poesia di Vittorio Sereni sulla base di una presunta (da me) tendenza del poeta a narrare storie, combinata peraltro a una ritrosia della poesia a riprodurre la realtà senza manipolarla, mi soccorre una prosa dello stesso Sereni che risale al 1962 e che venne inserita nel volume Gli immediati dintorni, ripubblicato ora in edizione ampliata da Il Saggiatore.
Vittorio Sereni
La prosa ha titolo Il silenzio creativo. Dato conto di quello stato d'animo che aggredisce un autore quando questi non riesce a scrivere una riga anche per periodi molto lunghi, provando “l'umiliazione del non farcela più”, Sereni si concentra soprattutto su quello che, a suo avviso, è l'aspetto veramente importante della questione. Di fronte a “sensazioni, impressioni, sentimenti, intuizioni, ricordi”, ai quali siamo portati ad attribuire un “senso di rarità o di eccezionalità”, il poeta si può trovare in una condizione di “insoddisfazione creativa, anzi di riluttanza di fronte alla messa in opera”, insomma è vittima di un disagio che può diventare silenzio nel momento in cui bisogna tradurre queste esperienze di vita in un linguaggio codificato e che dunque prevede moduli espressivi già sperimentati.
Da questo nasce una sorta di invidia del poeta nei confronti del narratore, capace di dare corpo, in maniera illusoria fin che si vuole, e grazie a una specie di “sortilegio evocativo”, a “figure, situazioni, vicende, ben oltre la voce, l'accento, la formulazione lirica immediata”.
Appare dunque centrale nella riflessione del poeta il rapporto tra “esperienza e invenzione”, tra quelle che sono le emozioni, i sentimenti e le vicende che la vita impone, e la loro traduzione in poesia. E' evidente perciò che la meditazione di Sereni si concentri sulla possibilità di raccontare l'esperienza di vita individuale in poesia, sulla necessità che le figure e le storie prendano corpo nei versi.
“Programmare una poesia 'figurativa', narrativa, costruttiva – conclude il poeta – non significa nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia 'astratta', lirica, d'illuminazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d'un lavoro, avvertire il bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore... Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narrativa si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso tenerle distinte?”.
Mi sembra una dichiarazione di poetica, abbastanza mascherata, ma imprescindibile per capire il processo creativo alla base della poesia di Sereni.

Va detto infine che Gli immediati dintorni, libro essenziale per comprendere la complessa e varia riflessione teorica del poeta di Luino, appare come un blog ante litteram, un blog senza internet, ma con la capacità di fissare in forma non rigida notazioni, riflessioni analisi.


martedì 23 luglio 2013

Sereni, quando la poesia racconta

Di Vittorio Sereni si ricorda in questi giorni il centenario della nascita, avvenuta a Luino di Varese il 27 luglio del 1913.
Le poesie di Sereni mi sono sempre apparse come brevi racconti, che fanno perno sulla storia personale e sulla “centralità dell'esperienza” (l'espressione è del poeta Stefano Dal Bianco, fine conoscitore dell'opera di Sereni), ma nei quali altrettanto evidente è la difficoltà di raccontare, nel senso che viene meno la possibilità di credere che la realtà, anche quella immediatamente vicina, possa essere oggetto di narrazione, riferimento certo, sostanza coerente in cui avere fiducia. I versi partono spesso da un elemento concreto, una situazione ben individuabile, salvo poi smarrire questo punto tangibile di avvio in un'allusività che lascia trasparire malesseri e trepidazioni, un sentimento sgomento e palpitante.

Riporto la poesia Finestra, tratta da Gli strumenti umani, terzo libro del poeta di Luino, pubblicato per la prima volta nel 1965.

Di colpo – osservi – è venuta,
è venuta di colpo la primavera
che si aspettava da anni.

Ti guardo offerta a quel verde
al vivo alito al vento,
ad altro che ignoro e pavento
- e sto nascosto -
e toccasse il mio cuore ne morrei.
Ma lo so troppo bene se sul grido
dei viali mi sporgo,
troppo dal verde dissimile io
che sui terrazzi un vivo alito muove,
dall'incredibile grillo che quest'anno
spunta a sera dai tetti di città
- e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo.

Pure, un giorno è bastato.
In quante per una che venne
si sono mosse le nuvole
che strette corrono strette sul verde,
spengono canto e domani
e torvo vogliono il nostro cielo.
Dillo tu allora se ancora lo sai
che sempre sono il tuo canto,
il vivo alito, il tuo
verde perenne, la voce che amò e cantò -
che in gara ora, l'ascolti?
scova sui tetti quel po' di primavera
e cerca e tenta e ancora si rassegna.


E' evidente che l'atto quotidiano di guardare dalla finestra, il presentarsi di un'esperienza che è fatta di eventi e di personaggi (il “tu” a cui si rivolge il poeta, ad esempio, subito introdotto da quel primo verbo “osservi” e poi, ad inizio di seconda strofa, chiarito al femminile dal termine “offerta”), le azioni dell'osservare e dello sporgersi, del nascondersi, appaiono subito messi in discussione nella loro consistenza reale dall'affermazione che la primavera “si aspettava da anni”, oltre che da un procedere linguistico che alterna elementi del parlato con improvvisi trasalimenti anche lessicali (”e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo”) e con più letterarie costruzioni sintattiche (“In quante per una che venne / si sono mosse le nuvole”), e infine da un andamento ellittico che inaspettatamente scivola su uno spazio vicino e si concentra su un particolare, come avviene nel caso dell'”incredibile grillo”.
L'affermazione che la primavera è “di colpo è venuta”, dichiarata fin nel primo verso, ha bisogno di conferma già nel successivo, “è venuta di colpo”: una ripetizione così ostentata che pare quasi puntare a volere convincere chi scrive e chi legge di un evento che invece non è dato credere possa manifestarsi con così limpida e trepida evidenza. E difatti oltre il verde e l'alito di vento, annuncio della stagione, c'è dell'altro, assicura il poeta, “che ignoro e che pavento”, c'è quel “grido dei viali”, una realtà meno spiegabile e rassicurante, un mondo in disaccordo con la vita dei singoli, c'è un'estraneità che stenta a ricomporsi.
Incombono poi le nuvole a negare l'evento atteso, che “corrono strette sul verde” e che “spengono canto e domani / e torvo vogliono il nostro cielo”. Ma infine un'ipotesi di ricostruzione del mondo, di armonia con la vita, di equilibrio primaverile, arriva in quel canto, nel “vivo alito”, nel “verde perenne”, nella “voce che amò e che cantò”, tutti aspetti coniugati in senso esistenziale e privato. E' quella la forza che può scovare sui tetti la primavera, la voce forse della poesia, che “cerca e tenta”, ma che infine “ancora si rassegna”.


martedì 21 maggio 2013

Gadda in una poesia di Piero Santi

Gadda, Santi e Sandro Penna negli anni Quaranta all'Antico Fattore

Carlo Emilio Gadda morì a Roma il 21 maggio del 1973. Il giorno dopo lo scrittore Piero Santi, che era stato legato all'autore del Pasticciaccio da un'amicizia sincera e schiva, puntellata da piccoli episodi di affettuosa e complice condivisione, scrisse una poesia che sarà poi pubblicata in Diario con gli amici, edito nel 1980 dai Quaderni di Barbablù di Attilio Lolini.
Santi aveva già parlato di Gadda nel suo libro di maggior successo, Il sapore della menta (Vallecchi, 1963), dove lo scrittore milanese si cela dietro il personaggio di Bonetti.
Gadda aveva vissuto a Firenze tra il 1940 e il '50. Tra i letterati e gli artisti che animavano le discussioni al caffè delle Giubbe Rosse c'erano anche loro, Gadda e Piero Santi, che spesso abbandonavano la compagnia per continuare a parlare di letteratura e d'altro, passeggiando lungo l'Arno o spingendosi fino al giardino d'Azeglio.
Carlo Emilio Gadda










Questa di seguito è la poesia che Santi scrisse all'amico il giorno dopo la sua scomparsa.




a Carlo Emilio Gadda

Non ti voglio vedere vecchio
gli occhi fissi la pelle grinza
come ti ho visto alla tivù,
che sei morto ieri ventuno maggio;
nella stretta-serpe che gli strinse la gola.
Forse quando sarai
nella bara sarà meglio,
non flaccido smorto ottantenne,
sarai come quando mi portasti un giorno d'estate
la coperta da letto gobelin
e salisti le mie scale
col peso sulle spalle,
o quando ti scovai nell'atrio
di Santa Maria Novella
tra il rumore stridore dei treni
a guardare cùpido ansioso
chi ti sedeva accanto.
Sul lungarno una notte gridavi
contro il cielo nero e contro le tue nere fantasie,
io fuggi dalla tua solitudine,
perfino capii che quella stretta spalletta-sasso
era il rifugio della tua
esistenza sola e maledetta.
Non voglio ricordare più
la tua faccia gesso alla tivù.
Venga pure, verrà, il coro
di chi non conobbe i tuoi mali,
i tuoi libri saranno
il pasto delle arpie strutturali
delle parche sociologiche
de professori stilistici.
Neppure io forse saprò tenerti
nel muscolo rosso e inerte;
u sei ancora, m'illudo, nella via Blumensthil
perduto nella città remota e deludente,
lasciate le notti-nido del giardino d'Azeglio,
la brezza acida di Firenze,
il giro attorno alla vasca della Fortezza
dove si consumava la tua angoscia

- e la tua tenera viltà.

martedì 9 aprile 2013

Padri e figli, naviganti infelici


La rivista GeaArt, diretta dal critico d'arte Massimo Bignardi, mi ha chiesto di scrivere sul tema L'isola non trovata. Questo è il testo pubblicato sul n. 4 del bimestrale di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative.


In uno scritto che risale “ai primi giorni del '75”, come indica lo stesso autore, pubblicato poi postumo l'anno successivo ad apertura delle Lettere luterane date alle stampe da Einaudi, Pasolini delinea un ritratto dei giovani di quegli anni. “I loro occhi sfuggono – scrive -, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto ai loro coetanei di dieci o vent'anni prima, ma non abbastanza”. Hanno per esempio un bagaglio linguistico più ampio e corretto, ma “se da una parte parlano meglio, ossia hanno imparato il degradante italiano medio, dall'altra sono quasi afasici”. Pasolini, facendo riferimento a quello che considera uno dei “temi più misteriosi del teatro greco”, si chiede quali siano le colpe dei padri che sono ricadute sui figli, determinando il loro destino.
Lo scritto, che ha titolo I giovani infelici, rappresenta un mondo giovanile non tanto distante da quello attuale, almeno nella dose di infelicità e di miseria che aggrediscono lo spirito. Malgrado l'aspetto esteriore, che dà conto di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita, i giovani “sono regrediti – afferma il poeta de Le ceneri di Gramsci – a una rozzezza primitiva”. E' una condizione che scopriamo anche nei nostri figli. La somiglianza di quella generazione con coloro che oggi occupano le piazze notturne del divertimento, che mostrano con orgoglio le creste, le capigliature scolpite, pone anche noi, dunque, di fronte alla stessa domanda che ipotizza Pasolini: qual è la nostra parte di colpa? quale quella dei nostri figli?
I “giovani infelici” di oggi parlano meglio l'italiano, più speditamente e con maggiore sicurezza, e di certo hanno a disposizione la conoscenza di più lingue straniere; attraverso l'inglese possono comunicare con gli abitanti di buona parte del mondo. Sono più ricchi, il loro tenore di vita li pone in una situazione di maggiore serenità e agiatezza di quella delle generazioni che li hanno preceduti, eppure, siamo portati a dire con Pasolini, che essi non hanno “niente di personale che li caratterizzi di dentro” e che “la stereotipia li rende infidi”.
Qual è dunque la nostra colpa di padri? Quella, potrei dire, di aver fatto più grande l'universo e più piccolo il mondo, di aver ridotto, fino ad annullarla, la fatica degli spostamenti e, con essa, quella della conquista, di aver reso uguale il distante, di aver decretato che anche la felicità (per i nostri giovani infelici, figli di padri a loro volta infelici) ha sempre il volto del benessere e della soddisfazione che si ottiene attraverso il possesso dei beni, anzi di quei beni non necessari alla vita ma che risultano fondamentali per il riconoscimento sociale.
Abbiamo reso facile la navigazione verso sponde remote.
In questo modo siamo arrivati ben oltre le consuete rotte della navigazione, rendendo presente quello che era lontano e anticipando il futuro. Abbiamo insomma occupato tutte le isole, un attimo prima che i nostri figli nascessero. Abbiamo creduto che la nostra scienza, ed anche la consapevolezza e l'impegno politico, fossero in grado di condurci ovunque, rendere possibile ogni traguardo. Colpa ancora più grave, abbiamo fatto credere che l'Isola Non-Trovata non esiste.
L'isola per cui “invano le galee panciute a vele tonde, / le caravelle invano armarono la prora”, quella che “appare talora di lontano / tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero”, come scrive Guido Gozzano nella poesia La più bella!, si è forse per sempre inabissata, o peggio ha perso il suo aspetto favoloso, non scivola più sui mari. Su di essa non più “svettano palme somme”, né “odora la divina foresta spessa e viva, / lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...”. Insomma quell'isola, obiettivo politico e sociale nell'azione dei padri, prospettiva utopica ma in fondo insopprimibile del loro sforzo ad essere migliori, è priva ormai del suo misterioso segreto, è diventata a tutti accessibile.
La metafora della navigazione è oggi soprattutto abbinata all'uso della rete informatica, è usata per indicare la traversata nel mare di internet, oceano confuso e sorprendente, ma che tende a mostrare ogni approdo come già praticato. Le isole affioranti sono facilmente raggiungibili, ricche di lidi invitanti e di una vegetazione lussureggiante, ma tutte già occupate. Le attività dei decenni precedenti sembrano aver già tutto risolto, previsto, messo in ordine.
Il secolo che abbiamo sempre considerato breve allunga di fatto la sua ombra persistente fino al secondo decennio del nuovo millennio, negando il futuro a padri e figli. Il futuro è quello che non è dato conoscere, è lontananza nello spazio e nel tempo, ed è lì che si mostra, per poi nascondersi, l'Isola Non-Trovata.
Infatti 
 “se il piloto avanza, / rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell'azzurro color di lontananza”.

lunedì 25 marzo 2013

La vecchiaia di Natalia Ginzburg (e la nostra)


Natalia Ginzburg parla della vecchiaia in una prosa di Mai devi domandarmi, libro del 1970 composto di brevi saggi di argomento diverso, che ancora oggi risultano di grande interesse e di piacevole lettura. “La vecchiaia – scrive – vorrà dire in noi, essenzialmente, la fine dello stupore. Perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli altri. Noi non ci meraviglieremo più di niente, avendo passato la nostra vita a meravigliarci di tutto; e gli altri non si meraviglieranno di noi, sia perché ci hanno già visto fare e dire stranezze, sia perché non guarderanno più dalla nostra parte”.
Secondo la Ginzburg, questa incapacità di stupirci ci farà penetrare nel “regno della noia”. La vecchiaia infatti “s'annoia ed è noiosa”. Tuttavia questo processo per cui “a poco a poco veniamo cadendo nell'immobilità della pietra” è molto lento. Insomma, pur dentro a una stagione che è già vecchiaia, conserviamo l'abitudine a “crederci i giovani del nostro tempo”.
Coloro che invecchiano sono lentissimi nel “cambiare faccia e abitudini”, mentre il mondo invece vortica e muta con estrema velocità: con rapidità “si trasformano luoghi e crescono giovani e bambini”. Avviene così che il mondo che abbiamo davanti agli occhi “ci sfugge e ci appare indecifrabile”, e noi riusciamo a decifrare soltanto “le poche e pallide tracce di quanto è stato”.
Natalia Ginzburg
“Il mondo che abbiamo davanti e che ci appare inabitabile – scrive ancora la Ginzburg – , sarà tuttavia abitato e forse amato da alcune creature che amiamo”. Ma il fatto che esso sia destinato ai nostri figli e ai figli dei nostri figli “non ci aiuta a capirlo di più, ma anzi aumenta la nostra confusione”. Così “misuriamo le immense distanze che ci separano dal presente” e ci stupiamo, noi che più di nulla ci meravigliamo, di come i nostri figli “riescano ad abitare e a decifrare il presente mentre noi restiamo “assorti a sillabare ancora limpide e chiare le parole che incantavano la nostra gioventù”.
Le pagine della Ginzburg mi hanno molto colpito. Innanzitutto perché hanno il dono di penetrare con rara forza di analisi nell'argomento, attraverso una prosa limpida e precisa, ma forse anche perché il tema affrontato mi riguarda da vicino. Mi chiedo quando cominci la vecchiaia, se il suo limite, come affermano da qualche anno esperti e giornalisti, si sia veramente protratto nel tempo, se sia vero cioè che si diventa vecchi più tardi. Il fatto che mi ponga questa domanda sulla vecchiaia è probabilmente già un indizio che ci sono dentro, o che mi sto muovendo molto vicino al confine.
Natalia Ginzburg scrisse la prosa La vecchiaia nel dicembre del 1968, all'età di cinquantadue anni, qualche anno in meno dei miei attuali. Non c'è dubbio che la scrittrice stia parlando dell'argomento in generale, ma anche della sua propria vecchiaia, di un sentimento, e forse di un avvilimento, che sente crescere in sé. Ce lo dicono la prima persona plurale che caratterizza tutto il testo e il passaggio dal futuro al presente, quando dall'analisi di quello che sarà la vecchiaia si passa alle domande e alle riflessioni proprie di un'età che si avverte appunto di passaggio, quando il confine, così labile e evanescente, potrebbe essere stato già superato.
E' fuori di dubbio che oggi i corpi invecchiano più lentamente, almeno a guardare l'immagine che siamo in grado di fornire di noi stessi. Ho davanti agli occhi una foto di mio nonno, che risale alla meta degli anni Cinquanta. Sembrava già un vecchio (più o meno come me lo conserva la memoria, che fa riferimento però a un po' di anni avanti) ed aveva più o meno l'età della Ginzburg quando scrive il suo testo.
Bisogna riconoscere che il mondo agisce con fretta sempre più irrefrenabile e che le cose mutano così velocemente che niente è come venti o trenta anni fa, tanto che i nostri figli non conoscono gli oggetti che hanno animato la nostra giovinezza, e dunque non possono produrre pensieri che riguardano quegli oggetti, con i quali comprendere atteggiamenti e modi di vivere, quelli che hanno caratterizzato la nostra esistenza, avvertiti come lontani, anzi da loro di fatto inavvertiti.
Tutto questo forse vorrà dire che il nostro scollamento con il presente è già iniziato e con esso anche la nostra vecchiaia, ma che non ce ne accorgiamo perché siamo preda di un corpo che è costretto a sentirsi ancora giovane. Noi insomma restiamo “a sillabare limpide e chiare le parole che incantavano la nostra giovinezza”, come scrive Natalia Ginzburg, come se fossero le parole dell'oggi, ma esse appaiono vuote di senso. Non le capiscono i nostri figli, che in genere sono più giovani dei figli dei nostri nonni e dei nostri padri, ma in parte non le capiamo più nemmeno noi, impegnati come siamo a tenere testa ad un corpo che agisce ancora da giovane.
Il mondo procede con troppa fretta e dunque “le scialbe tracce del tempo di prima”, a cui si rivolge ancora la nostra attenzione e che alimentano i nostri errori, sono in effetti segni che si stanno dissolvendo o sono già spariti. Anche per questo la nostra vecchiaia, anche se più tardiva, sarà sicuramente più faticosa, perché siamo costretti a non apparire vecchi, a guardare con occhi interessati i cambiamenti vorticosi che il mondo produce, mentre vorremmo solamente accompagnare con paziente indolenza l'avanzata del tempo, guardare con serena incomprensione il mutare delle cose.
Insomma succede che il nostro passato appaia sempre più lontano e dunque, più giovani nell'immagine che offriamo di noi, siamo però costretti a constatare la nostra lontananza dal presente, segno incontrovertibile di una vecchiaia che appare improvvisamente vicina, senza che ne sia data notizia sui giornali.

lunedì 11 marzo 2013

Inutilità utilità della poesia


E' considerata utile in questi anni più di ogni altra cosa la tecnologia, in particolare applicata alle comunicazioni, e poi la genetica, che può dirci come sarà la nostra vita, prevedendone e risolvendone i problemi. Sono utili i farmaci, la beneficenza, la stravaganza quando è combinata alla moda, l'economia, i mercati finanziari, le statistiche, i sondaggi, tanto che attraverso un sondaggio potremmo capire cosa è ritenuto veramente utile al giorno d'oggi.
Foto Elisabetta Scarpini
E' da disprezzare, perché grandemente inutile, la capacità di impostare i problemi, senza poi risolverli, e con essa il pensiero che si sviluppa in lucide trame che non portano in nessun luogo concreto. Sono in fondo ritenute inutili la fisica astronomica, la filosofia, la poesia. E' da sfaccendati passeggiare senza avere una meta, che so dimagrire o raggiungere un negozio per un acquisto, nel quale ultimo caso si parla di shopping. E' del tutto inutile scrivere, se attraverso l'atto della scrittura non si comunica qualcosa di concreto o si cerca di fare un po' di soldi (per esempio scrivendo un libro di ricette di cucina, un romanzo di successo, una guida su come risparmiare). Sono molte le cose che vengono considerate inutili: tutte quelle che non portano un giovamento tangibile a se stessi, qualche volta agli altri, almeno nelle forme in cui siamo disposti a figurarceli.
Nell'opinione comune la velocità è utile, la lentezza inutile; la precisione è utile, la vaghezza inutile.
La poesia, che pure è massimamente inutile perché non risolve nessun problema e non comporta per chi la pratica, ma nemmeno per chi la legge, miglioramenti concreti, potrebbe in quest'epoca di velocissime tecnologie e di puntuali sondaggi, ritagliarsi un proprio piccolo spazio di utilità. La poesia, che sa essere estremamente rapida e dovrebbe essere per definizione precisa e rigorosa, potrebbe essere strumento privilegiato alla diffusione dell'idea che le cose inutili sono oggi necessarie alle nostre esistenze, perché ci permettono di rallentare, di errare prima di raggiungere la meta (pratica che può risultare utilissima al fine di una scoperta casuale), ci danno modo di spostare lo sguardo, di sviluppare nuove visioni, tutte cose che alla lunga potrebbero risultare grandemente utili e concrete.
Bisogna però che i poeti del nuovo millennio si sforzino di considerare la poesia non come pura astrazione, come atto avulso da ogni contesto e libero da un interlocutore, privatissima esternazione, e ne avvertano invece la straordinaria forza comunicativa.
Troppo spesso l'assioma della inutilità della poesia è un alibi per restare chiusi nel recinto, per continuare a parlare solo a se stessi, per sentirsi quelli che hanno raggiunto la verità o che potrebbero farlo solo in quanto poeti. L'inutilità della poesia permette ai poeti di sentirsi appagati, di non aver bisogno degli altri, nemmeno dei lettori.
Ma se così fosse, se la poesia conducesse alla verità e ad una condizione di soddisfazione e completezza almeno per chi scrive, essa allora sarebbe considerata utile.

lunedì 18 febbraio 2013

Leonardo Sinisgalli, la poesia, la geometria


Leonardo Sinisgalli è presenza fondamentale della cultura del secolo scorso, figura che andrebbe maggiormente approfondita, anche per il particolarissimo contributo che ha garantito alla letteratura del Novecento. Offrono un prezioso aiuto a inquadrare l'opera del poeta lucano i due volumi recentemente pubblicati e raccolti sotto il titolo Il guscio della chiocciola, curati da Sebastiano Martelli e Franco Vitelli, di cui parla Giuseppe Lupo in un appassionato articolo comparso ieri sulla Domenica da collezione, inserto del Sole 24 ore.
La ricerca di Sinisgalli, scrive Lupo, si posiziona “nel punto di massimo raccordo fra tradizione umanistica, Età dei Lumi e politecnicismo novecentesco”. La lingua di Sinisgalli è sempre alla ricerca dell'essenziale, impegnata nella definizione esatta, scientifica, del particolare, anche quando questo potrebbe sembrare del tutto irrilevante. Scambiato per ermetico, a mio avviso a torto, il linguaggio “si perde dietro al volo di una mosca o alla spirale di una lumaca”. In esso “la luminosa severità algebrica convive con i chiaroscuri di una modernità barocca”. Insomma il terreno fertile della poesia di Sinisgalli è “crocevia di codici e saperi”, luogo dell'intreccio e del dialogo tra poesia e matematica, avvertite entrambe come estremo desiderio di chiarezza e insieme metafora dell'universo.
Poeta e ingegnere, pensatore finissimo di rarefatta agilità e responsabile della comunicazione pubblicitaria per le più grandi aziende italiane, a suo agio nei brulli paesaggi rurali della Lucania così come all'interno degli uffici della Olivetti e della Pirelli e nelle strade ricche di storia e di architettura della Roma barocca, presenza forte senza essere invadente nelle “botteghe lucane dei fabbri e dei falegnami” e nelle principali gallerie d'arte, nelle redazioni di Domus e Casabella, di Civiltà delle Macchine, ma anche tra le scrivanie delle riviste di letteratura, Sinisgalli ha indicato una strada che andrebbe ancora di più esplorata in questa nostra epoca, così inquieta e così frammentata, così veloce nell'arricchimento tecnologico e povera e lenta nel fare interagire la tecnologia con il nostro patrimonio umanistico.
La materia di cui parla il poeta è costruita sul terreno dove crescono, alimentandosi a vicenda e a vicenda negandosi, la presunta concretezza della scienza e l'altrettanto ipotizzata immaterialità della poesia. Dall'incontro nasce una nuova fisica, un nuovo modo di catalogare il mondo. Così scrive Sinisgalli nella breve riflessione VERTEBRATI, INVERTEBRATI, contenuta in Horror Vacui: Sono vertebrati gli alberi, le foglie, i piedi, i cristalli, i muri, ecc. Sono invertebrati l'acqua, il fumo, le nuvole, la cenere, la polvere. E' la polvere che suggerisce l'idea di una forma assolutamente priva di sostegni”.
Tutta l'opera di Leonardo Sinisgalli si muove alla ricerca di una verità indefinibile e proprio per questo ancora più necessaria. Per raggiungerla non esiste nessun percorso percorribile, per immaginarla servono la precisione delle forme geometriche e le scansioni metriche proprie del linguaggio della poesia. In LA FORMA DELLA VERITÀ, ancora in Horror vacui, è detto: “La forma della verità non è l'uovo, e neppure un triangolo, neppure una foglia. Ma l'uovo, il triangolo, la foglia sono forme della verità. La sostanza della verità è unica: forse è la nostra necessità di esistere, la necessità di esistere di ogni cosa. Noi esistiamo in tutte le cose”.   

lunedì 4 febbraio 2013

Sinonimi e tranelli


Non bisogna credere troppo al Dizionario dei sinonimi e dei contrari, dico spesso ai miei alunni. La lingua vive di sfumature, si alimenta di incertezze, di piccole variazioni, pretende di significare per mezzo di minimi spostamenti di senso, di sottili fraintendimenti. Il termine sinonimi invece offre subito certezze. Una parola vale l'altra. Come in un mosaico, posso sostituire una tessera e il quadro d'insieme dovrebbe essere lo stesso, se non risultare più bello. Può succedere, certo, ma può anche accadere che spariscano chiaroscuri e venature. Dove auspicavamo soluzioni, si aprono tranelli, ci sorprendono improvvisi smottamenti.
Scrive Camillo Sbarbaro in Fuochi fatui: “Vi sono parole che i vocabolari danno per equivalenti e che io non confonderei. (…) Si eviterebbero ambiguità e, s'anche di poco, la lingua si arricchirebbe. Così la spuma non è la schiuma. La nuvola è leggera, un fiocco di bambagia; la nube, il suono cupo lo dice, è plumbea, minaccia temporale. La sottana è greve, tetra, è quella del prete, dell'ava; mentre la gonna è festosa, è una corolla capovolta”.
La lingua insomma si arricchisce, se si è in grado di muoversi, con rispetto ma anche con un po' di gusto della scoperta, tra significati contigui. In questi ultimi anni, nel gergo appiattito dei presentatori televisivi e dei commentatori sportivi, l'aggettivo importante viene usato con grande frequenza, spesso a sproposito e per significare cose alquanto diverse. Se viene definito importante, un politico potrebbe essere influente, ma anche autorevole; un avvenimento importante nella vita di un paese potrebbe configurarsi come memorabile, ma anche da dimenticare. Un tiro in porta è importante perché pericoloso o perché di grande potenza?