Il dibattito sulla
letteratura nel nostro paese è asfittico, anzi quasi del tutto
assente. Si parla di libri quasi unicamente sulla scorta di qualche
polemica legata a un premio letterario oppure dentro i confini
rassicuranti di una recensione. Poca saggistica, spesso a carattere
divulgativo, pochissima poesia, spesso per attenzione nei confronti
di un amico, soprattutto nessun discorso di carattere più ampio che
possa soffermarsi sulle modalità generali dell'espressione
letteraria, sulle scelte che distinguono la scrittura dei nostri
tempi. A farne le spese è soprattutto la critica più attenta, ormai
segregata, al pari della poesia, in luoghi periferici, dai quali,
anche a voler alzare la voce, è impossibile farsi sentire. Insomma i
libri di critica letteraria sono rari e i pochi che arrivano nelle
librerie non sono destinati a sollevare discussioni, e non certo per
propri demeriti.
Peccato. Di un dibattito
più ampio, non tanto sulle poetiche, che forse nemmeno più ci sono,
quanto sui valori stessi che sono alla base del fare letteratura, si
gioverebbero narratori e poeti, e più in generale la platea
culturale che, almeno qui da noi, è anch'essa ormai sedotta dal
chiacchiericcio fine a se stesso, dal rumore di fondo petulante e
improduttivo che anima le nostre giornate.
Pensavo a tutto questo
leggendo Lo stadio di Nemea. Discorsi sulla poesia di
Giancarlo Pontiggia, pubblicato da Moretti&Vitali, che raccoglie
interventi sulla poesia destinati a pubblici diversi e pensati per
svariate occasioni, scritti dal 2004 al 2012. Pontiggia, che è anche
un poeta di misurata e vigile produzione, esordisce sul finire degli
anni Settanta prima come redattore della rivista Niebo e poi
curando, con Enzo Di Mauro, la fortunata antologia feltrinelliana de
La parola innamorata.
I vari interventi
raccolti in Lo stadio di Nemea pur nella loro eterogeneità,
convergono su alcune linee portanti, che ne fanno un libro unitario e
di sicuro spessore critico. Per Pontiggia la poesia svolge ancora
oggi un ufficio importante, che è quello di dare una risposta
all'esigenza di comunicazione che il mondo reale ci consente solo in
modo effimero. La poesia insomma ci salva “dal caos,
dall'approssimazione e dalla prepotenza del discorso improvvisato”.
I versi ci consegnano, per definizione, a luoghi più stabili, a una
ricerca della verità. Ma per fare questo, la poesia, oltre che
guardare con rinnovato interesse alla tradizione, deve uscire
“dall'imbuto esistenzialistico in cui si è insaccata”,
“distanziarsi dall'universo privato, quotidiano, empirico,
viscerale del singolo individuo”. Che è come dire a buona parte
della lirica italiana degli ultimi anni di liberarsi della veste più
spesso indossata, di evitare che lo sguardo indugi troppo sulla
propria figura e che la lingua diventi un codice riservato e perciò
escludente. La poesia non può dunque manifestarsi esclusivamente
come linguaggio dell'emozione, ma deve essere un esercizio della
complessità. “Se non c'è pensiero, non c'è poesia” sostiene
Pontiggia, “proprio come, all'inverso, non c'è poesia senza
retorica, suono, profondità di stile e di linguaggio”. Ma
attenzione, la complessità non deve per forza generare difficoltà:
“la materia della poesia è semplice: complessa semmai è la
sintesi di immaginazione, pensiero e linguaggio cui dà vita”.
Nei brevi saggi che
compongono il libro c'è materiale a sufficienza per alimentare una
discussione seria sul fare letteratura. Ma a chi interessa? Certo non
alle centinaia di scrittori di versi poco disposti a mettere in
discussione il proprio lavoro. Quello che quotidianamente viene
proposto alla lettura è difatti in buona parte “un'arte
antiumanistica, una bottiglia lanciata nel gran mare dell'essere per
un lettore fantascientifico che non c'è e probabilmente non ci sarà
mai”.
Il risultato è che al
pubblico restano solo i prodotti di più facile fruizione e di scarsa
qualità, che però sono in grado di parlare di problemi che ci
riguardano più da vicino e che in ogni caso riusciamo a comprendere.
Dunque la peggiore calamità dei tempi in cui viviamo, almeno nel
campo della letteratura, “è che gran parte dei poeti scrivono
versi che non sono da leggere, nei quali anzi vengono deliberatamente
innestati meccanismi ostili non solo al lettore comune ma all'idea
stessa del leggere”.
(pubblicato su succedeoggi.it)
Nessun commento:
Posta un commento