
Deve
aver subito occhiate del genere lo scrittore Alessandro D'Avenia,
insegnante in un liceo milanese, quando ha pubblicato, un paio di
settimane fa, un intervento nell'ambito del dibattito sulla scuola
ospitato dall'inserto domenicale La Lettura del Corriere della
Sera. Dice D'Avenia che istruzione ed educazione non sono separabili
e che “non ci può essere educazione (né insegnamento) in
differita, perché la relazione
coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo,
spirituale)”. Insomma “solo la vita integrale educa” e si
insegna con tutto, “sguardo, tono di voce, movenze del corpo,
disposizione dei banchi, brillare degli occhi, segni su un compito,
cellulare spento... e parole”. Aggiungerei che fondamentali sono
anche le caratteristiche del luogo che ci ospita, ma a questo ho
dedicato un altro intervento a cui rimando: http://moscheinbottiglia.blogspot.it/2014/04/un-inospitale-paesaggio-scolastico.html.
Sulla
seconda parte dello scritto di Alessandro D'Avenia mi soffermerò in
un prossimo post, intanto sottolineo alcune affermazioni che mi
sembrano convincenti.
Innanzitutto
mi piace che si parli di nuovo di educazione.
Si può insegnare (o almeno si può insegnare ottenendo qualche buon
risultato) solo se si è disposti ad accettare un assunto: senza
mettere in atto un processo educativo non è possibile nemmeno
l'insegnamento. Sta di fatto che oggi la parola educazione
fa paura. Forse perché rimanda
a un sistema di valori, che non riusciamo più a mettere a fuoco, o
forse perché richiede un diverso atteggiamento di chi è parte
attiva nella pratica quotidiana della relazione scolastica,
professori studenti genitori: bisogna mettersi in gioco.
Altra
questione: la qualità della proposta scolastica non si misura sul
numero di prestazioni che sono richieste allo studente né sulla
difficoltà che prova nel corrispondere alle richieste, ma
nell'interesse che chi insegna riesce a determinare in colui che
dovrebbe imparare, nella passione che scatena, nella curiosità che
genera. Uno studente annoiato e impaurito è di solito il risultato
non di un insegnamento serio e severo, ma di una scuola che ha
rinunciato alla relazione attiva tra le sue componenti principali,
diventando invece il luogo della burocrazia e della rigida
ripetizione di formule.
Infine,
lo studente è il soggetto
dell'atto educativo, in quanto è colui che deve imparare a conoscere
il mondo. In questo senso non può essere il punto d'approdo delle
richieste di chi insegna, il destinatario senza diritto di parola di
un ammaestramento a senso unico, ma è invece colui che deve
pretendere di sapere. Perciò deve essere messo nella condizione di
chiedere. Deve prima di ogni cosa saper formulare domande sui
contenuti che gli vengono proposti. Una scuola che genera attenzione
e fornisce motivazioni valide è quella che insegna a fare domande.
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