Parlando
del Chiabrera, poeta e drammaturgo attivo nei primi decenni del
Seicento, in una pagina dello Zibaldone Giacomo Leopardi si sofferma
su una questione che vale la pena richiamare alla nostra attenzione.
In una delle sue note linguistiche e critiche, tanto acute e sottili
quanto ancora oggi marginalmente considerate, il poeta di Recanati
afferma che a volte la collocazione fortuita delle parole può
produrre nei lettori un'altra idea rispetto a quella voluta
dall'autore, e che pure chiaramente si evince dal testo. E' un
effetto che, a detta di Leopardi, va assolutamente schivato, “massime
in poesia dove il lettore è più sull'immaginare e più facile a
creder di vedere”, e anzi è propenso a credere “che il poeta
voglia fargli vedere quello ancora che il poeta non pensa o anche non
vorrebbe”.
A
riprova, utilizza appunto una delle Canzoni lugubri di
Gabriello Chiabrera, In morte di Orazio Zanchini, la cui terza
strofe si chiude con Fiorenza, che è poi la personificazione di
Firenze, che “Ora il bel crin si frange, / E sul tuo sasso piange”.
Non senza ironia Leopardi fa notare che, pur essendo chiaro il senso
dei versi, e cioè che Fiorenza si percuote (si frange) il
capo con le mani e piange sul sepolcro dello Zanchini (sul tuo
sasso), coloro che leggono la canzone del Chiabrera, “colla
mente così sull'aspettare immagini”, sono indotti invece a
figurarsi Fiorenza “che percuota la testa e si franga il crine sul
sasso del Zanchini”.
La
nota prosegue specificando che l'immagine illusoria generata dalla
collocazione delle parole può anche essere accettata dall'autore, se
non nuoce a quella vera, e comunque se essa può collocarsi di
seguito alla prima senza sovrapporsi ad essa, “giacché due
immagini in una volta non si possono vedere”. Anzi proprio in
questo modo si può procurare “quel vago e quell'incerto ch'è
tanto propriamente e sommamente poetico”, poiché si generano
quelle immagini che sono ispirate “da cosa invisibile e
incomprensibile e da quell'ineffabile ondeggiamento del poeta che
quando è veramente ispirato dalla natura dalla campagna e da
chechessia, non sa veramente com'esprimere quello che sente, se non
in modo vago e incerto, ed è perciò naturalissimo che le immagini
che destano le sue parole appariscano accidentali”.
Dalla
lezione di Leopardi si possono ricavare alcune considerazioni.
Innanzitutto è interessante notare come il lettore di poesia, o
meglio qualunque lettore di fronte a una poesia, si senta in dovere
di cercare un significato ulteriore rispetto a quello che si deduce
immediatamente dai versi. Ciò accade perché il lettore pensa che il
poeta voglia fargli vedere qualcosa di diverso da quello che le
parole descrivono. Chi legge si pone davanti ai versi con un
atteggiamento meno remissivo di quello utilizzato di fronte a un
testo narrativo, ma anche con la disposizione di chi non si fida. Il
linguaggio della poesia è complesso: nasconde scoperte impreviste,
ma a volte anche delle trappole. Si realizza in poesia una sorta di
gioco delle parti, basato su reciproche presupposizioni: il lettore
ritiene che il poeta possa aver detto altro da quello che è scritto
sulla pagina; il poeta che sia suo compito esprimersi in maniera
misteriosa se non proprio oscura, pensando che è questo che il
lettore cerca nei suoi versi .
Anche
per questo in poesia la collocazione delle parole finisce per
risultare sempre significativa: le parole crin, frange
e sasso mi inducono a vedere un'immagine in cui la testa si
fracassa contro il marmo della tomba, anche se la poesia del
Chiabrera non dice nulla di tutto questo. Il poeta deve dunque sempre
pensare al margine di evocazione che le sue parole comportano, anche
quando il linguaggio della poesia vorrebbe essere realistico o
assolutamente razionale.
E'
il caso inoltre di sottolineare che lo scritto di Leopardi individua
in colui che scrive versi una qualità particolare e fondamentale:
quella del creatore di immagini. Il lavoro del poeta non può
prescindere dall'attenzione alle immagini che la lingua produce, dal
loro concatenarsi, dal modo in cui esse si richiamano l'una
all'altra. E' una qualità, così presente nella letteratura
classica, di cui i nostri poeti non tengono gran conto. D'altra parte
se la nostra è la società dell'immagine, il poeta dovrebbe muoversi
in essa in pieno agio, invece che sentirsene escluso: evidentemente
non sa o non vuole credere che le sue parole producano immagini. Nel
caso della poesia le immagini hanno una forza prepotente e rovinosa,
in quanto rendono visibile l'invisibile e l'incomprensibile.
Non
sfugga infine l'affermazione “è perciò naturalissimo che le
immagini che destano le sue parole appariscano accidentali”. In
poesia, sia detto ancora una volta a vantaggio dei tanti che ancora
si ostinano a credere il contrario (e soprattutto a quelli che,
ostinandosi, scrivono versi), non esiste spontaneità, anche l'evento
accidentale è frutto di un'attività di controllo e competenza, se
non del poeta sulla lingua, almeno della lingua su se stessa.
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