Umberto Fiori è una
delle presenze più riconoscibili e significative del panorama
letterario italiano degli ultimi decenni. Alla sua opera in versi, a
partire dalle poesie della raccolta Case del 1986 fino ad
arrivare ai versi di Voi del 2009, la casa editrice Mondadori
dedica un Oscar, rendendo così possibile uno sguardo complessivo
sulla produzione di un poeta che ha cercato e risolto in maniera
senz'altro originale il confronto con la tradizione lirica
novecentesca. Il volume è completato dalle prime quattordici sezioni
del poemetto inedito Il Conoscente.
A rileggere ora le
raccolte di Fiori, tra le quali vanno ricordate anche le prove di
Esempi del 1992, Tutti del 1998, La bella vista
pubblicato nel 2002, se ne ricava un percorso poetico di grande
coerenza e forza, sempre modulato attraverso una voce che si esprime,
fin dagli esordi, con sicurezza e risoluta e semplice accordatura,
alle prese con una lingua che predilige il lessico quotidiano e il
registro basso, e che evita di scivolare in meccanismi ostili per il
lettore, così come nell'ostentata articolazione di un linguaggio
astrattamente poetico. La poesia di Fiori si iscrive a pieno titolo
in una linea che prende le mosse da Saba, come suggerisce Andrea
Anfribo nell'introduzione al volume (dal poeta triestino comunque non
eredita la tendenza all'autobiografismo né la passione per una
lingua retrodatata), e che, attraverso la lezione dell'ultima
produzione montaliana, percorre le strade della scuola lombarda,
Sereni innanzitutto nei suoi esiti più “narrativi”, e si
sofferma sulle soluzioni espressive care a Caproni del verso breve e
brevissimo, e dell'uso imprevisto e risolutivo di rime a assonanze.
L'universo di Fiori è
innanzitutto cittadino: la realtà che ci presenta è fatta di case,
di muri, di macchine in sosta, di cartelloni pubblicitari, di gas di
scarico, di balconi e finestre che sono il teatro sul quale si
intravede un'umanità anonima, attraente proprio per questa sua
impersonale piattezza. E' un paesaggio che si presenta per rapide
immagini, lacerti dai quali sembrerebbe possibile ricavare un senso;
un territorio che un fascio di luce inatteso, un evento repentino
consegna all'ipotesi di una brusca e incerta epifania. Ma il prodigio
si risolve in un piccolo evento marginale, in un avvenimento senza
grande esito e che certamente non reca alcun conforto che non sia
quello di una speranza presto delusa. Il male di vivere si
manifesta allora con i connotati dei poveri fenomeni quotidiani,
assume la fisionomia di presenze ricorrenti e almeno all'apparenza
insignificanti. Scrive Fiori nella poesia Slargo, contenuta
nella raccolta La bella vista: “Chi potrà più trovarci, /
chiedere conto, / domandare perché, / dove, cosa? Noi siamo / tre
piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. // Siamo
il busto di bronzo, / la targa del furgone, l'altra bottiglia / che
porta il cameriere. // Chi ci potrà più dare / torto o ragione?”.
L'evento prodigioso
lascia tutto com'era: il panorama è ancora frammentato, scheggiato.
Aspettavamo la consolazione di una risposta, che invece stenta a
rivelarsi.
L'io lirico che fa da
protagonista alle poesie di Fiori è comunque sempre in attesa che un
miracolo possa compiersi. Vigile e solerte spia i movimenti degli
altri, dei montaliani “uomini che non si voltano”, della massa
che si compone di individui “ognuno / occupato dall'attimo che
passa”, per usare invece le parole di Sbarbaro. E' proprio nel loro
anonimato, nell'oscurità ripetitiva di vite a cui non siamo
destinati, nella loro incapacità di scoprire una realtà che non sia
quella che si vede, che risiede la forza che attrae e che ci lascia
intravedere un possibile segreto.
Così nella poesia Treno
(in Esempi) il viaggiatore può scorgere, mentre il convoglio
che percorre una curva si inclina verso un palazzo, persone che
“apparecchiano al terzo. A pianterreno / vanno a prendere un piatto
e li vedi fermi”. Nell'odore di mare, mentre “passano armadi,
tovaglie, televisori”, si presenta improvvisa una scoperta: “Mentre
le stanze passano / e se ne vanno, viene / come una spinta dentro, /
come un'invidia. / Ci si sente mancare, / in questa scene. Si è come
tenuti fuori. // Ma in fondo poi / vedere come tutto / procede bene /
anche senza di noi, / fa quasi ridere. // E si diventa liberi,
leggeri: / non si è più lì, si ragiona / come già morti, come /
mai nati. (…) // Eppure questo, / questo che tutti vedono / là,
nei soggiorni / e nelle camere, non smette di mancare: / essere così
chiari / senza saperlo, / stare soprappensiero / un attimo, nel pieno
dell'attenzione”.
Umberto Fiori, come sanno
i suoi lettori abituali, è stato il cantante degli Stormy Six,
storico gruppo del rock italiano degli anni Settanta. Anzi lo è
tuttora, visto che negli ultimi tempi la band si è ricomposta, dando
vita a rare e acclamate esibizioni. Nei giorni scorsi il gruppo ha
tenuto uno spettacolo in compagnia di Moni Ovadia al teatro Elfo
Puccini di Milano. In scena l'opera Benvenuti nel ghetto, che
aveva debuttato qualche mese fa a Reggio Emilia, dedicata agli
avvenimenti nel ghetto di Varsavia dell'aprile del 1943 e dalla quale
è stato ricavato un cd audio e un dvd.
(pubblicato sul sito succedeoggi.it)
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