Nel
1953, appena pubblicata la sua prima raccolta di versi, Giovanni
Giudici, che all'epoca abitava nella periferia di Roma, aveva quasi
trenta anni e nell'operazione aveva impegnato 25mila lire dell'esiguo
bilancio familiare, pensò di spedirne la prima copia ad Umberto
Saba, che si trovava allora in una clinica romana per curarsi. Lo
racconta lo stesso Giudici nel prezioso e ormai introvabile Andare
in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, spiegando anche il perché
di tanta sollecitudine: “Già da diversi anni egli era il poeta che
più amavo e leggevo e, forse, il primo fra i contemporanei del quale
avessi letto qualche poesia”, che è un modo anche per mettere in
evidenza una filiazione, per mostrare un grado di parentela. Saba,
per la cronaca, rispose al giovane allievo, dando così inizio ad una
frequentazione che sarebbe durata negli anni successivi, i pochi anni
che separavano il vecchio poeta triestino dalla morte.

Come
Saba ebbe a contrastare i bagliori delle avanguardie e la presenza
fagocitante dell'ermetismo attraverso una propria particolare
declinazione della lingua della poesia e del valore che essa viene ad
assumere nel rapporto con il lettore, anche Giudici, che si trovò
inizialmente stretto tra le propaggini del neorealismo e l'invadenza
sperimentale del Gruppo 63, seppe costruire un proprio peculiare
percorso, alimentato del rapporto con la tradizione, che viene
recuperata in forme sempre originali. Si percepisce in Giudici la
necessità di nutrirsi del passato della letteratura, di
attraversarlo con tenacia e regolarità, ma insieme l'attenzione
costante ad abbassare i toni che dalla tradizione provengono,
ribadendo in tal senso in maniera singolare ed efficace l'esempio
gozzaniano. Del resto nell'opera del poeta di La vita in versi,
Autobiologia, Il male dei creditori, per citare alcuni
dei titoli più noti, la lingua della poesia, sorprendentemente tesa
a prelevare da vari registri e da diversi territori linguistici è
sempre comunque disposta a fare i conti con il linguaggio della
comunicazione ordinaria. Giudici crede fortemente nella forza
evocativa della parola, ma sa anche che essa non può prescindere
dalla necessità di un confronto serrato con il presente. Del resto
la poesia è avvertita come dispositivo per liberare e nello stesso
tempo controllare l'energia della parola. Scrive Giudici in una delle
brevi prose contenute nel volume a cui prima si faceva riferimento:
“Fare i conti con la lingua sarà in primis prendere
coscienza del ricco e polivalente strumento di cui disponiamo. Fare
poesia: utilizzare un materiale di esperienze fisiche e sentimentali
per fabbricare oggetti linguistici multi-uso. Dominare la lingua è
dominare, nei limiti della nostra finitezza, il reale. Lingua è il
reale che entra in noi, si trasmette e si propaga”. Ed è questa
un'affermazione che bene può accompagnare la lettura dei versi del
poeta nato a Le Grazie, una frazione di Portovenere, sul mare di
Liguria, e poi vissuto lungamente a Milano.
L'Oscar
da poco pubblicato dà conto di un percorso poetico vario e
polifonico, ma sempre indirizzato a cercare di ottenere il massimo
effetto comunicativo facendo interagire i valori prosodici e sonori
del verso (l'uso per esempio di rime e assonanze, il continuo ricorso
ad un sistema di strofe, la scelta nella seconda parte della
produzione di far iniziare ogni verso con la maiuscola, a segnalarne
la compiutezza fonetica e di senso) con il naturale svolgimento,
vicino alla prosa, dei registri linguistici. Ne nasce una lingua
varia e complessa, una mobilità espressiva che si realizza, come
scrive Cucchi, attraverso “una continua oscillazione di tono e
nell'uso di materiali linguistici e stilistici eterogenei”.
La
poesia di Giudici oscilla anche costantemente, denunciando ancora una
volta il legame con l'antecedente sabiano, tra la tendenza alla
narrazione e la forte tensione lirica, in qualche modo placata però
quest'ultima dal ricorso all'ironia e all'autoironia e dall'allusione
a un paesaggio ordinario e quotidiano, a volte anche dimesso e
popolato di piccole cose.
Scrivere
poesia è sempre comunque una promessa d'amore nei confronti della
parola, un'umile ma faticosa e studiatissima prova di abilità
artigiana, ma anche, e in questo risiede in parte il valore etico
dell'atto, capacità di ascoltare l'energia, le interne armonie, i
doni, che le parole portano con sé. In questo senso il poeta è
insieme “alunno e fabbro”, come è detto nella lirica Un
poeta, contenuta nella raccolta Quanto spera di campare
Giovanni del 1993: “Uomo, sì, grazioso / Come si dice di colui
che pure / Non grato all'apparenza si fa amare / Per le miti maniere
in braccio alle sventure / O minima intenzione a fior di labbro: / Di
ciò nel fare cose di parole / Alunno e fabbro”.
(pubblicato su succedeoggi.it)
Nessun commento:
Posta un commento