Lo
scrittore Andrea Bajani svolge spesso attività a contatto con gli
studenti delle superiori, frequenta il mondo della scuola, dialoga
con alunni e insegnanti. In un recente volume, pubblicato da
Repubblica e dall'editore Laterza, dal titolo inequivocabile di La
scuola non serve a niente, si legge che, trasferitosi per qualche
tempo in Germania, Bajani ha ha potuto constatare che in quel paese
la lezione “è sempre dialettica”, cioè “l'insegnante fa
lezione insieme ai ragazzi”. Invece che pretendere che gli
alunni ascoltino in maniera più o meno passiva, l'insegnante “li
interpella, li invita a contraddire e a criticare, a spiegare”. In
questo modo, assicura Bajani, “è un continuo alzarsi di mani, un
incalzare di precisazioni, esemplificazioni, richieste di
chiarimenti”; del resto “quell'intervenire continuo contribuisce
concretamente al voto finale”. L'atmosfera che si respira nelle
aule tedesche è senza dubbio estremamente diversa da quella che
caratterizza i nostri licei. “Nessuna interrogazione, nessun
tribunale. Solo una dialettica continua, un parlare guardandosi in
faccia, studenti con studenti, studenti con professori”.
Nella
scuola italiana una lezione di questo genere è oggi impossibile.
Innanzitutto perché nel nostro paese non siamo più capaci di
confrontare le idee, nemmeno in un luogo a questo deputato come la scuola:
ognuno di noi parte troppo spesso dal presupposto che parlare debba
solo servire a convincere l'interlocutore a darci ragione.
In
secondo luogo una lezione “sempre dialettica” farebbe venir meno
il presupposto, in questi ultimi anni sempre più diffuso, che i
professori non sono al loro posto per trasmettere l'amore per la
disciplina che insegnano, quanto per giudicare se chi è davanti a
loro ha a disposizione una certa quota di conoscenze, se si è
comportato correttamente, se ha capito cosa gli è stato spiegato.
Infine
per parlare con i propri alunni, mettiamo di un romanzo, di un
avvenimento storico o di un'opera d'arte, gli insegnanti dovrebbero
dire invece che spiegare, cioè mettere in campo le
proprie idee e le proprie convinzioni, altrimenti ogni
contraddittorio risulterebbe impossibile. Ma in nome di una presunta
necessaria estraneità dell'istituzione scolastica e dei suoi
rappresentanti ad ogni coinvolgimento ideologico (“a scuola non si
fa politica” abbiamo sentito spesso ripetere) si finisce per
evitare di manifestare le proprie convinzioni. Anche di fronte a un
racconto o a una poesia bisogna essere oggettivi, cioè asettici. In
questo modo l'interlocutore, cioè lo studente, è portato a ritenere
che può intervenire solo per dare risposte che servono ad essere
valutato, risposte che vanno tradotte in voto.
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