Tempo fa mi fu chiesto un intervento per un libro sulla poesia di Roberto Amato. Quel libro non è stato poi pubblicato. Questo è il mio scritto.
In luoghi confinati,
insieme familiari e misteriosi, si muove la poesia di Roberto Amato.
La geografia di Le cucine celesti si sviluppa a partire da
interni segnati dal trascorrere del tempo, da stanze ingombre, da
cucine dove le donne si muovono con armoniosa e circospetta solerzia,
da giardini immediatamente a ridosso delle case. Sono le terre
conosciute e quotidiane, ma allo stesso tempo mitiche e dunque
leggendarie, sulle quali agiscono personaggi dai nomi e di volti
familiari, non si sa se veramente presenti o se vivi solo nella
memoria.
Le cose, attestate in
luoghi prossimi e consueti, e ancora di più i corpi degli uomini e
degli animali, e le loro appendici, non sembrano però soddisfatti
della loro posizione, o forse non sono del tutto consapevoli della
condizione che loro attiene. Ci restituiscono infatti, come in un
evocativo e incantato gioco di specchi, l'immagine di altre forme, di
spazi lontani e sconosciuti, di sconfinate praterie siderali e di
costellazioni. Il figlio Lapo, uno dei tanti personaggi di quel
lessico familiare che si propone costantemente al lettore, si accorge
“fin dal primo vagito” che il padre ha le mani fatte d'aria e che
“nel vestito / non c'era quasi niente”, tranne la voce che è
chiusa “nella bambagia della barba finta / e lunga / e sfusa / come
i pappi dell'Orsa / e le lattigini / delle folte comete”.
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Roberto Amato |
Sembra insomma che
uomini e oggetti non riescano a stare al loro posto, e che, situati
davanti agli occhi del poeta, facciano di tutto per confondere la
visione, per scivolare in territori a cui non appartengono, per
evaporare verso l'alto, in cerca di un luogo diverso, del punto
d'approdo a cui credono di essere destinati. Succede perciò che
ancora la barba “è un cavolfiore così morbido / si svolge per
tutto il firmamento // (per il dolce e fatale / Principio della
Levitazione Universale)”.
Il Principio della
Levitazione Naturale è, a ben guardare, il contrario della legge di
gravità: per esso insomma le cose tenderebbero ad andare verso
l'alto, a ritrovare una loro identità e un loro posto accanto alle
nuvole, a contatto con uccelli e astri celesti. Il mondo terreno
aspira a una leggerezza che si intravede nella difficoltà di uomini,
animali e cose ad accettare la loro condizione e il loro posto. Tutto
questo permette anche un fitto dialogo tra gli elementi, non importa
di quale regno fisico essi facciano parte.
Nella poesia di Amato le
presenze della natura lontana e quelle del mondo familiare, le figure
varie, animate e non, che compongono la realtà di ogni giorno, si
scompongono e si sovrappongono. Così in una drogheria la vegetazione
nelle sue varie forme, ma anche gli animali e soprattutto gli
uccelli, possono fare capolino tra alici sfilettate, prosciutti e
capocolli. L'incanto non è solo nella mente di chi vede e poi
restituisce gli elementi e la narrazione della visione, ma
ingrediente stesso del mondo, che si presenta a noi confuso e
disordinato, imperfetto o forse fornito di una perfezione che non
abbiamo gli strumenti per intendere ed afferrare. Accade così che il
droghiere che dovrebbe “dividere il creato negli scaffali”,
finisce per fare confusione, per mescolare prodotti e cose
provenienti da settori e da mondi diversi.
In effetti, quelle che a
prima vista possono apparire immagini metaforiche, termini di
paragone utili a comporre una figura retorica, nella lingua poetica
di Amato entrano a far parte della realtà a pieno diritto, si
sistemano con forza e convinzione accanto agli oggetti che per più
antica consuetudine appaiono collocati nel posto che gli spetta. E'
così che drogheria e cucine (che sono appunto, non dimentichiamolo,
celesti, mettendo insieme l'alchimia quotidiana e tanto
concreta della lavorazione del cibo con la spirituale evanescenza
delle presenze immateriali e incorporee) diventano gli spazi dove si
manifesta una speciale mitologia poetica, i luoghi protetti dove si
mescolano ingredienti diversi e inusuali, per dare luogo a qualcosa
di inaspettato, a volte di meraviglioso. Gli oggetti non sono nemmeno
i correlativi di una nostra condizione esistenziale o i segnali di un
sentimento comune universale, sono ancora se stessi,
provocatoriamente e assurdamente se stessi, ma scivolati o appunto
levitati verso un mondo altro, sorprendente e vago, o forse
finalmente restituiti ad esso.
C'è qualcosa di
limitato nella nostra condizione di uomini, se ci sforziamo con tanta
determinazione perché la realtà non ci confonda con la sua
insensatezza, se cerchiamo in ogni modo di essere concilianti con la
visione parziale e circoscritta di quanto ci accade intorno, se della
vita evitiamo con cura le vertigini, gli spostamenti di senso, i
deragliamenti, gli sbandamenti, così provvidi e normali dice la
poesia di Amato, dall'una all'altra condizione naturale: “... ma
questo tempo incomprensibile / per noi che non abbiamo le ali / e che
stupidamente / non dormiamo sugli alberi...”.
Naturalmente tra gli
uomini c'è chi si mostra inadatto a comprendere, e sono i più,
coloro che vanno sicuri delle loro certezze, della stabile e ordinata
composizione della realtà: “Ho contemplato una balena / e mi
pareva l'orsa / con un cesto di pesci e di comete // ho chiesto a un
vecchio prete cosa fosse / quel carico di stelle // lui rimbambito /
(si contava i bottoni della veste) / disse che non aveva visto
niente”.
L'età dorata dove è
possibile che la confusione dei ruoli e dei mondi diventi sistema ed
anzi si manifesti, come se fosse norma, nella sua ovvietà e nella
pienezza della significazione, è naturalmente l'infanzia. E' quello
il periodo in cui possiamo crederci uccelli, fare prove di volo
dimenando le braccia, correre e saltare fingendo di essere animali.
Ed è l'età verso la quale la poesia di Le cucine celesti
sempre fa ritorno, non per farne pascolianamente l'eden
irricostruibile degli affetti, o anche lo strumento privilegiato
della conoscenza: per Amato l'infanzia è la sola età in cui
veramente si vive, in cui i mondi si rappresentano in un
disequilibrio che non può essere messo in discussione, in cui il
tempo non è un susseguirsi ordinato e irreversibile, ma compresenza
di passato e presente. “... e cammina cammina / io in qualche posto
andavo / e seminavo da per tutto / i fazzoletti / i piccoli bottoni /
dal fischio dei calzoni / corti // (ora / saremo certamente tutti
morti / ecco perché si sogna / tutto il giorno) // ma qualche volta
torno / seguo la scia dei moccichini”.
Se è vero che anche il
tempo mescola le carte e il poeta vive in un presente in cui
continuamente avanzano figure provenienti da altre età, allora la
famiglia diventa inevitabilmente un organismo allargato. Nonne e
nonni, zie e zii, cugini, genitori e figli si cercano, si incontrano
e si parlano, non importa se siano vivi o morti, abitano stanze e
cucine che non si sa se appartengono alle case di oggi o sono solo
luoghi della memoria. Roberto Amato racconta la sua famiglia come un
cantastorie le vicende di paladini, con intrecci complicati e
scompigliati, improvvise interruzioni e salti nello spazio e nel
tempo, interventi magici che intralciano i progetti o lasciano
intravedere uno scioglimento. La poesia si anima di personaggi che
sembrano appartenere appunto a vicende eroiche e leggendarie: il
nonno Efisio, Giardiniere di Boboli, la Zita, la lunghissima Ofelia,
la Titina, la sorella Alina (“quella bambina sordomuta / che andavo
coltivando insieme ai fiori delle zucche”, che ha gli occhi che
volano “sopra le foglie nere / delle cicorie altissime”); e poi
Lapo, l'Orca, la Clara, l'Alfira, Ezechiele, le Fate, ed Efisio il
facchino che “non mi ricordo che abbia / proferito verbo, tranne
quel suo cantare / da mezzosobrio / o alticcio / soltanto per lodare
stoccafissi / o totani cuciti con un ripieno di frattaglie/ d'oche”.
Al disordine del mondo,
al guazzabuglio ostinato dell'esistenza, la poesia di Amato non cerca
di fornire un assetto più stabile e ordinato. Il compito del poeta è
anzi quello di accettare lo stupore che la visione implica, di
restituire al lettore il senso della meraviglia. Questo non significa
che la poesia si conceda all'improvvisazione e alla spontaneità. Al
contrario il verso è sempre misurato e controllato, e dimostra una
lunga e ragionata consuetudine con i grandi autori del secolo scorso.
Non conosco
personalmente Roberto Amato, ma so da uno scritto di Manlio Cancogni,
tra i primi a leggere i suoi versi, che “pare uscito da un racconto
nordico di maghi e stregonerie”. Io me lo figuro che “alto, magro
allampanato” cammini spesso senza avere una meta precisa, anzi, se
mai l'avesse, dimenticandola, ritrovandosi poi chissà dove, ma
lontano, senz'altro lontano dal luogo dove sarebbe dovuto arrivare.
Immagino che , se fosse a camminare per qualche sentiero di montagna,
non andrebbe in cerca di funghi ma di fossili di conchiglie, delle
tracce del passaggio di qualche pesce, sicuramente avvenuto in
un'epoca remota, che lui crede ancora attuale; o alzerebbe gli occhi
al cielo, avendo percepito il verso di un uccello marino in crisi di
orientamento. Su una spiaggia invece non sarebbe attratto da stelle
marine e ossi di seppia, ma da rami levigati e contorti, residui di
un luogo lontano, testimonianza di una dimenticata foresta.