Oggi mi piacerebbe andare
in osteria. Ma non una di quelle di ora, che della trattoria hanno
solo il nome e dietro il basso livello lessicale della denominazione
nascondono locali d'alto pregio e una cucina di raffinata
presunzione. Vorrei proprio mangiare in una di quelle osterie (una
bettola, mi suggerisce una voce) con i tavoli di legno – un legno
non pregiato e solo lavorato dai morsi del tempo e dalle nevrosi
degli avventori – e con le sedie impagliate, i quadri brutti alle
pareti, che raffigurano zingare e paesaggi di mare. Potrei consumare
qualcosa di semplice a un prezzo onesto (aggettivi da tempo se non
banditi quantomeno sgraditi nei nostri consessi, non solo in quelli
gastronomici), ma soprattutto proverei piacere nel guardare
l'umanità che frequenta il locale. Si tratta la maggior parte delle
facce consuete di gente sconosciuta, venuta da un passato dove
bellezza ed eleganza abitavano altri quartieri, e dove si poteva
passare il tempo, tra un piatto e l'altro, a guardarsi intorno, a
parlare col vicino visto per la prima volta. Vorrei ammirare rapito
il cameriere che ciabatta, dalle movenze buffamente severe nella
giacca bianca un po' consunta, la padrona in evidente sovrappeso che
si lamenta, ma insieme sorride e scherza, come in una recita ben
congegnata.
Non ce ne sono più di
osterie così. Per cercare la loro atmosfera devo tornare alle pagine
di qualche poeta. Saba, ad esempio, che in Scorciatoie e
raccontini afferma che “l'osteria romana nella quale prendo i
miei pasti è uno dei luoghi nei quali amo l'Italia”. In questo
spazio caro “entrano cani festosi, che nessuno sa di chi sono;
bambini nudi con in mano un fiasco impagliato (vengono a comprare
vino per papà)”. “Mangio solo come il Papa – conclude poi il
poeta – non parlo a nessuno e mi diverto come a teatro”.
Di Sbarbaro è nota la
Lettera dall'osteria, che comincia così:
In
istato di grazia, amico Volta,
di
notte da una bettola ti scrivo.
bene, di contemplare
tra la nebbia del vino i paesaggi
di cui rozz’arte ornò all’intorno i muri,
e l’ostessa baffuta o la ridente
ragazzotta che reca la terrina.
Attaccare discorso con chi capita
vicino; a chi sorride
sorridere; voler a tutti bene;
scantonato dal tempo e dallo Spazio,
guardare il mondo come un padreterno.
E uscire dalla bettola leggero
come la mongolfiera che s’invola;
sentir come tappeti di velluto
i lastricati sotto il piede incerto;
e voglia di cantare a squarciagola.
Al
breve elenco, del tutto parziale e incompleto, non può mancare una
poesia di Sandro Penna.
Le
nere scale della mia taverna
tu
discendi tutto intriso di vento.
I
bei capelli caduti tu hai
sugli
occhi vivi in un mio firmamento
remoto.
Nella
fumosa taverna
ora
è l'odore del porto e del vento.
Libero
vento che modella i corpi
e
muove il passo ai bianchi marinai.
Non
ci sono più codeste osterie. O forse non ci sono poeti in osteria.
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