Il 19 ottobre 1913
nasceva a Firenze Vasco Pratolini. In occasione del centenario i
critici letterari approfondiranno gli aspetti più significativi
della sua opera. Si rispolvererà certamente la polemica che fece
seguito alla pubblicazione nel 1955 di Metello, il romanzo che
mise l'uno contro l'altro Carlo Salinari e Carlo Muscetta, a fare le
pulci al più o meno edulcorato realismo della narrazione. Verrà
ricordato il giudizio, che spesso gravò sull'opera dello scrittore
fiorentino, di una narrativa dai toni elegiaci, che contribuì a
rendere difficile il rapporto con il partito comunista, rapporto
peraltro definitivamente messo in crisi dai fatti di Budapest del
1956, quando Pratolini senza alcuna incertezza si schierò dalla
parte degli insorti. Del resto per Pratolini il comunismo doveva
essere sempre coniugato all'aggettivo “popolare”: popolare doveva
essere la rivoluzione, così come comprensibile al popolo dovevano
essere i sentimenti e le azioni raccontate nelle sue opere.
A me, che critico non
sono e non ho da scrivere su nessun importante quotidiano, viene
piuttosto da pensare che il giorno dopo le celebrazioni del
centenario si giocherà a Firenze la partita di calcio tra la
Fiorentina e la Juventus.
Ho conosciuto Vasco
Pratolini agli inizi degli anni Ottanta. Lo scrittore frequentava un
gruppo di amici salernitani di Alfonso Gatto, morto qualche anno prima,
che si ritrovavano alla galleria Il Catalogo di Lelio Schiavone.
Insieme a Lelio, di tanto in tanto, ci recavamo a Roma a incontrare
l'autore di Cronache di poveri amanti e di Le ragazze di
Sanfrediano, in una sorta di
devoto e amichevole scambio di visite. Una bella domenica di
dicembre, dopo che avevamo mangiato in non ricordo più quale
ristorante abruzzese, e dopo che la mattinata era trascorsa con
Pratolini che mi mostrava le strade dove aveva visto passare i carri
armati tedeschi che lasciavano la città, lo scrittore volle fare
rapido ritorno a casa. Appena il tempo di chiudersi alle spalle la
porta dell'elegante e piuttosto anonimo appartamento che abitava nei pressi di viale Libia e subito Pratolini andò a sedersi, lui reso ancora più
piccolo dagli anni, dietro l'enorme scrivania del suo studio. Ci
chiese di fare silenzio e mise in funzione la radio. Non ci fu più
modo di scambiare parola, se non per commentare qualche gesto
calcistico, dopo che una nota marca di brandy ci ebbe augurato buon
pomeriggio, comunque andassero le cose per la nostra squadra del
cuore, e dopo che la voce di Ameri ci ebbe introdotto all'interno dello
stadio di Firenze. Quel giorno la Fiorentina giocava con la Juventus.
Qualche anno prima
Pratolini aveva scritte queste parole sul calcio: “E’
un vizio? Indubbiamente è un richiamo molto forte, irresistibile,
ovunque mi trovi, quale che sia il valore delle squadre, il tempo,
gli impegni che mi consiglierebbero di rinunciarci. Nelle mie
domeniche salta la domenica, mai la partita. Ed onestamente parlando,
oggi come oggi, non so cosa possa accadere di più importante nel
resto del mondo, in quelle ore della domenica, di quanto non accada
negli stadi, e che meriti di essere veduto, e vissuto. E’ il gusto
dello spettacolo, con tutti i suoi deliri anche, che un grande
spettacolo comporta. poiché di un grande spettacolo si tratta, il
più autentico della nostra epoca, lo spettacolo collettivo, 'per
tutti', che il teatro moderno non ha saputo darci”.
C'è
tanto della poetica di Pratolini in queste frasi, del suo senso della vita, della ricerca dell'autenticità dello stare insieme, dell'emozione e dell'affettività che animano le imprese collettive e che si ritrovano, sia pure con altro spessore, nella sua opera.
Un'opera che si era interrotta nel 1966 con la pubblicazione del suo
ultimo romanzo Allegoria
e derisione.
Da allora Pratolini aveva pubblicato solo il libro di poesie Il
mannello di Natascia,
nel 1980, inizialmente proprio a Salerno per le edizioni de Il
Catalogo di Schiavone.
Quando
insomma l'ho conosciuto, Vasco Pratolini non pubblicava narrativa da
quindici anni e non amava parlare dei suoi libri. Di fronte alle
richieste ammirate degli amici si chiudeva in un silenzio anche un
po' astioso. Ogni tanto ne parlava con me, prendendomi sottobraccio e
avendo cura che gli altri non ascoltassero. Ma con me preferiva
comunque chiacchierare di calcio: sapeva di poter discutere di tattiche
e gesti tecnici, senza paura di non venir compreso.
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