Delfini in una foto del 1939 |
A rileggere le poesie
di Antonio Delfini, a distanza di più di cinquanta anni dalla
pubblicazione di quel suo unico libro di versi, Poesie della fine
del mondo, ora ripubblicato da Einaudi con l'aggiunta delle
liriche mai edite in volume, antecedenti e posteriori al libro, a
rileggerle ora, che sono lontani i tanti ismi e le correnti e
le polemiche che hanno caratterizzato e segnato la cultura di buona
parte del Novecento, si scopre in esse una forza ancora maggiore, una
purezza e un candore inaspettati e in qualche modo fuori della
storia. Pur nella loro irruenza violenta e a tratti sconnessa, che
punta dritto verso le vicende dell'Italia, anzi dell'Italietta, di
quegli anni, malgrado la furia che spesso non si contiene, le poesie
producono nel lettore un cortocircuito di passione e turbamento. Le
liriche insomma, trascorso il tempo che è trascorso, con le doverose
cancellazioni e con le trasformazioni della sensibilità e del senso
estetico che gli anni hanno prodotto, si presentano per quello che
sono: un'esperienza sicuramente unica nel panorama letterario del
secolo scorso, un viaggio melanconico e ostinato, una fuga non si sa
da cosa e verso dove, un arringare scombinato e bizzarro. “E' mio
dovere scrivere la mala poesia” è un verso di Delfini che bene
racchiude il suo avanzare frenetico e scompaginato, che sa comunque
concedersi pause di leggerezza e di straziata e disillusa vaghezza.
Le Poesie della fine
del mondo, del prima e del dopo (che è il titolo della raccolta
curata con amorevole attenzione da Irene Babboni) compongono un
canzoniere acido e stravagante, capace di attraversare o di
rileggere, con affettuosa noncuranza, le avanguardie dei primi
decenni del Novecento (Delfini era nato a Modena nel 1907), ma di
tenerne conto solo di rimbalzo; di anticipare qualche tratto dei
Novissimi (muore nel 1963 e il suo libro di poesie è pubblicato nel
1961), avendo però subito manifestato quasi una sorta di fastidio
dinanzi ai suoi stessi tentativi più sperimentali. In effetti
Delfini guarda anche sempre alla tradizione più vicina nel tempo,
soprattutto francese, per cui si è fatto (ma come non farlo?) il
nome di Baudelaire, a cui però vanno aggiunti almeno quelli di
Corbière e Apollinaire. Ma anche in questo caso, l'atteggiamento del
poeta è ambiguo e sfuggente, tende a respingere ogni discendenza e
familiarità.
La tradizione non
rappresenta per Delfini una luce certa e un punto di riferimento
perenne, il passato che rassicura e consolida, bensì materia che si
frantuma e si trasforma, come ogni altra esperienza, in un procedere
volutamente acerbo, nella versificazione sghemba e maledicente.
Scrive in Mia prima poesia, una lirica del 1957, “Sia
benedetto il mio brutto poetare / Prego il Signore che il mio poetare
sia ancora più brutto / avendo in mente gli innominabili nomi / di
coloro che ho maledetto e maledico. / Prego.” E la benedizione,
beninteso, fa seguito alla maledizione che va a colpire “colui che
è magistrato”, il più grande amico, tutti gli avvocati “figliati
da lucertole e lombrichi”, i “lustri ministri servitori”, in
una sequela maliziosa e maleaugurante, che non è l'unica del libro e
che ricorda altrettanto feroci elenchi di altri maledetti e
irregolari, primo fra tutti Cecco Angiolieri.
Tra un'invettiva e una
denuncia, un'imprecazione e un'ingiuria, Delfini che vinse, ma solo
dopo la morte, il premio Viareggio con il volume Racconti, sa
essere diretto e icastico, particolarmente nelle poesie brevi, quando
i versi escono dalla taverna per diventare più malinconici, meno
arrabbiati ma forse ancora più tormentati. Un esempio: “Noi
viviamo / di una paura / totale / assoluta / invereconda / senza
remissione”.
Nessun commento:
Posta un commento