Natalia Ginzburg parla
della vecchiaia in una prosa di Mai devi domandarmi, libro del
1970 composto di brevi saggi di argomento diverso, che ancora oggi
risultano di grande interesse e di piacevole lettura. “La vecchiaia
– scrive – vorrà dire in noi, essenzialmente, la fine dello
stupore. Perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli
altri. Noi non ci meraviglieremo più di niente, avendo passato la
nostra vita a meravigliarci di tutto; e gli altri non si
meraviglieranno di noi, sia perché ci hanno già visto fare e dire
stranezze, sia perché non guarderanno più dalla nostra parte”.
Secondo la Ginzburg,
questa incapacità di stupirci ci farà penetrare nel “regno della
noia”. La vecchiaia infatti “s'annoia ed è noiosa”. Tuttavia
questo processo per cui “a poco a poco veniamo cadendo
nell'immobilità della pietra” è molto lento. Insomma, pur dentro
a una stagione che è già vecchiaia, conserviamo l'abitudine a
“crederci i giovani del nostro tempo”.
Coloro che invecchiano
sono lentissimi nel “cambiare faccia e abitudini”, mentre il
mondo invece vortica e muta con estrema velocità: con rapidità “si
trasformano luoghi e crescono giovani e bambini”. Avviene così che
il mondo che abbiamo davanti agli occhi “ci sfugge e ci appare
indecifrabile”, e noi riusciamo a decifrare soltanto “le poche e
pallide tracce di quanto è stato”.
Natalia Ginzburg |
“Il mondo che abbiamo
davanti e che ci appare inabitabile – scrive ancora la Ginzburg –
, sarà tuttavia abitato e forse amato da alcune creature che
amiamo”. Ma il fatto che esso sia destinato ai nostri figli e ai
figli dei nostri figli “non ci aiuta a capirlo di più, ma anzi
aumenta la nostra confusione”. Così “misuriamo le immense
distanze che ci separano dal presente” e ci stupiamo, noi che più
di nulla ci meravigliamo, di come i nostri figli “riescano ad
abitare e a decifrare il presente mentre noi restiamo “assorti a
sillabare ancora limpide e chiare le parole che incantavano la nostra
gioventù”.
Le pagine della Ginzburg
mi hanno molto colpito. Innanzitutto perché hanno il dono di
penetrare con rara forza di analisi nell'argomento, attraverso una
prosa limpida e precisa, ma forse anche perché il tema affrontato mi
riguarda da vicino. Mi chiedo quando cominci la vecchiaia, se il suo
limite, come affermano da qualche anno esperti e giornalisti, si sia
veramente protratto nel tempo, se sia vero cioè che si diventa
vecchi più tardi. Il fatto che mi ponga questa domanda sulla
vecchiaia è probabilmente già un indizio che ci sono dentro, o che
mi sto muovendo molto vicino al confine.
Natalia Ginzburg scrisse
la prosa La vecchiaia nel dicembre del 1968, all'età di
cinquantadue anni, qualche anno in meno dei miei attuali. Non c'è
dubbio che la scrittrice stia parlando dell'argomento in generale, ma
anche della sua propria vecchiaia, di un sentimento, e forse di un
avvilimento, che sente crescere in sé. Ce lo dicono la prima persona
plurale che caratterizza tutto il testo e il passaggio dal futuro al
presente, quando dall'analisi di quello che sarà la vecchiaia si
passa alle domande e alle riflessioni proprie di un'età che si
avverte appunto di passaggio, quando il confine, così labile e
evanescente, potrebbe essere stato già superato.
E' fuori di dubbio che
oggi i corpi invecchiano più lentamente, almeno a guardare
l'immagine che siamo in grado di fornire di noi stessi. Ho davanti
agli occhi una foto di mio nonno, che risale alla meta degli anni
Cinquanta. Sembrava già un vecchio (più o meno come me lo conserva
la memoria, che fa riferimento però a un po' di anni avanti) ed
aveva più o meno l'età della Ginzburg quando scrive il suo testo.
Bisogna riconoscere che
il mondo agisce con fretta sempre più irrefrenabile e che le cose
mutano così velocemente che niente è come venti o trenta anni fa,
tanto che i nostri figli non conoscono gli oggetti che hanno animato
la nostra giovinezza, e dunque non possono produrre pensieri che
riguardano quegli oggetti, con i quali comprendere atteggiamenti e
modi di vivere, quelli che hanno caratterizzato la nostra esistenza,
avvertiti come lontani, anzi da loro di fatto inavvertiti.
Tutto questo forse vorrà
dire che il nostro scollamento con il presente è già iniziato e con
esso anche la nostra vecchiaia, ma che non ce ne accorgiamo perché
siamo preda di un corpo che è costretto a sentirsi ancora giovane.
Noi insomma restiamo “a sillabare limpide e chiare le parole che
incantavano la nostra giovinezza”, come scrive Natalia Ginzburg,
come se fossero le parole dell'oggi, ma esse appaiono vuote di senso.
Non le capiscono i nostri figli, che in genere sono più giovani dei
figli dei nostri nonni e dei nostri padri, ma in parte non le capiamo
più nemmeno noi, impegnati come siamo a tenere testa ad un corpo che
agisce ancora da giovane.
Il mondo procede con
troppa fretta e dunque “le scialbe tracce del tempo di prima”, a
cui si rivolge ancora la nostra attenzione e che alimentano i nostri
errori, sono in effetti segni che si stanno dissolvendo o sono già
spariti. Anche per questo la nostra vecchiaia, anche se più tardiva,
sarà sicuramente più faticosa, perché siamo costretti a non
apparire vecchi, a guardare con occhi interessati i cambiamenti
vorticosi che il mondo produce, mentre vorremmo solamente
accompagnare con paziente indolenza l'avanzata del tempo, guardare
con serena incomprensione il mutare delle cose.
Insomma succede che il
nostro passato appaia sempre più lontano e dunque, più giovani
nell'immagine che offriamo di noi, siamo però costretti a constatare
la nostra lontananza dal presente, segno incontrovertibile di una
vecchiaia che appare improvvisamente vicina, senza che ne sia data
notizia sui giornali.
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