mosche in bottiglia
blog poesia di Giuseppe Grattacaso
giovedì 7 agosto 2014
mercoledì 30 luglio 2014
I libri che non si leggono
Tullio De Mauro interviene su Repubblica, con una lettera a Corrado Augias, in merito a una discussione sull’uso corrente della lingua italiana. Scrive tra l’altro De Mauro: “Negli ultimi decenni la vita sociale ci ha spinto ad acquistare l’uso parlato della lingua, ma non a leggere. La scuola di base ha svolto e continua a svolgere un grande lavoro, ma non così la scuola media superiore. Questa e poi l’università hanno ignorato e ignorano la pratica estesa della lettura e della scrittura come parti integranti e abituali dello studio. In queste condizioni è inevitabile che l’italiano parlato sia per molti un italiano orecchiato, ma non ben posseduto. Tale resterà finché scuola media superiore e università non cambieranno registro e finché i libri non entreranno nella nostra vita quotidiana”.
L’esperienza di insegnamento dell’italiano nella scuola superiore conferma queste affermazioni. I ragazzi di oggi parlano di solito in maniera sciolta e anche sostanzialmente corretta e precisa, ma scrivono in modo confuso, e comunque con risultati comunicativi al di sotto della loro espressione orale. Inoltre si trovano in difficoltà di fronte a un romanzo appena più complesso, linguisticamente o per costruzione narrativa.
E’ vero, a scuola si legge con estrema parsimonia. Non sono pochi gli studenti che arrivano all’esame di Stato senza conoscere integralmente nessuna delle opere sulle quali pure discorrono di fronte alla commissione. Gli insegnanti di scuola superiore, ormai irretiti dalle pastoie burocratiche e avviliti da riforme che li hanno allontanati dalla sostanza dell’insegnamento, sembrano aver dimenticato che la materia fondante della letteratura non sono le informazioni sulle opere, ma le opere stesse, i libri cioè, che spesso in aula entrano solo nella versione libro di testo.
Nella sua risposta alle “note” di De Mauro, Augias se la prende con la gara suicida tra destra e sinistra, a colpi appunto di riforme scolastiche, che “volendo dare all’istruzione maggiore ‘democrazia’ ha in realtà reso gli studi non più facili ma più faciloni”. Non so se l’affermazione di Augias risponda a verità (la questione andrebbe opportunamente approfondita: la scuola secondaria superiore offre molti più contenuti di qualche decennio fa, a scapito però dell’approfondimento), ma sicuramente non centra l’argomento. Il problema infatti non è se la scuola sia più o meno “facile”, ma se riesca, nello specifico nell’insegnamento della letteratura italiana, a generare curiosità nello studente, e se sia in grado di riportare il libro al centro del processo educativo.
Bisognerebbe che gli insegnanti trasmettessero la loro passione per la lettura (quando c’è) e che dimostrassero, prove alla mano, che il termine letteratura non comporta unicamente uno sguardo sul passato remoto. Due primi passi sono dunque possibili: leggere molto in classe insieme agli alunni e confrontarsi sui testi letti; indirizzare verso autori contemporanei lo stesso impegno destinato alle opere del passato. Che senso ha leggere Giambattista Marino e l’Alfieri, e non aver mai preso tra le mani un libro di Penna o di Caproni, nemmeno sapere che esistono Magrelli e la Cavalli? Come si fa a “possedere” la lingua se non si conoscono le opere di coloro che attualmente la nostra lingua smontano e rimontano?
E’ vero, a scuola si legge con estrema parsimonia. Non sono pochi gli studenti che arrivano all’esame di Stato senza conoscere integralmente nessuna delle opere sulle quali pure discorrono di fronte alla commissione. Gli insegnanti di scuola superiore, ormai irretiti dalle pastoie burocratiche e avviliti da riforme che li hanno allontanati dalla sostanza dell’insegnamento, sembrano aver dimenticato che la materia fondante della letteratura non sono le informazioni sulle opere, ma le opere stesse, i libri cioè, che spesso in aula entrano solo nella versione libro di testo.
Nella sua risposta alle “note” di De Mauro, Augias se la prende con la gara suicida tra destra e sinistra, a colpi appunto di riforme scolastiche, che “volendo dare all’istruzione maggiore ‘democrazia’ ha in realtà reso gli studi non più facili ma più faciloni”. Non so se l’affermazione di Augias risponda a verità (la questione andrebbe opportunamente approfondita: la scuola secondaria superiore offre molti più contenuti di qualche decennio fa, a scapito però dell’approfondimento), ma sicuramente non centra l’argomento. Il problema infatti non è se la scuola sia più o meno “facile”, ma se riesca, nello specifico nell’insegnamento della letteratura italiana, a generare curiosità nello studente, e se sia in grado di riportare il libro al centro del processo educativo.
Bisognerebbe che gli insegnanti trasmettessero la loro passione per la lettura (quando c’è) e che dimostrassero, prove alla mano, che il termine letteratura non comporta unicamente uno sguardo sul passato remoto. Due primi passi sono dunque possibili: leggere molto in classe insieme agli alunni e confrontarsi sui testi letti; indirizzare verso autori contemporanei lo stesso impegno destinato alle opere del passato. Che senso ha leggere Giambattista Marino e l’Alfieri, e non aver mai preso tra le mani un libro di Penna o di Caproni, nemmeno sapere che esistono Magrelli e la Cavalli? Come si fa a “possedere” la lingua se non si conoscono le opere di coloro che attualmente la nostra lingua smontano e rimontano?
lunedì 21 luglio 2014
LE POESIE di Roberto Mussapi (Ponte alle Grazie)
Gli
esordi di Roberto Mussapi risalgono alla metà degli anni Settanta
con la partecipazione alla rivista Niebo e successivamente con
la pubblicazione nel 1979 delle poesie de I dodici mesi nei
Quaderni della Fenice di Guanda, poi confluite in La gravità del
cielo del 1984. A distanza di trenta anni da qual primo libro di
versi, l'editore Ponte alle Grazie dedica ad una delle voci poetiche
più significative e più originali degli ultimi decenni il volume Le
poesie, che include tutti i versi fino a L'incoronazione degli
uccelli nel giardino e a Il capitano del mio mare, i due
poemetti di più recente pubblicazione destinati al pubblico dei
ragazzi. La raccolta di oltre 500 pagine è introdotta dagli scritti
di Wole Soyinka e di Yves Bonnefoy e si avvale di un ampio e
circostanziato contributo critico di Francesco Napoli, fondamentale
per sviluppare una riflessione generale sull'opera di Mussapi.
Mentre
la voce dei poeti contemporanei spesso si muove all'interno di un
paesaggio essenzialmente esistenziale, e a volte ripiega su un io
claustrofobico, la poesia di Mussapi, anche quando si sviluppa a
partire da un dato legato all'esperienza, trasforma presto l'evento
in una conoscenza che trascende la sfera individuale. Il lettore è
chiamato a partecipare alla ricostruzione di una sorta di memoria
comune, di un archetipico sentimento del mondo e della vita, che va
in qualche modo dissotterrato, liberato dalle incurie e dalla
superficialità in cui l'ha costretto il nostro vivere quotidiano. La
poesia in Mussapi è azione di scavo: riporta in luce qualcosa che ci
appartiene nel profondo, le nostre comuni verità nascoste, come
appunto in ogni tempo avviene nella poesia di carattere epico. La
poesia libera gli oggetti e gli eventi dalle incrostazioni che li
appesantiscono e li opprimono, e questi, una volta affrancati, non
solo appaiono più leggeri, ma diventano altro da quello che erano,
propongono una nuova storia, mirano a una verità che non ci
aspettavamo.
La
lingua di Mussapi accenna alla prosa ma sempre se ne distingue, è
racconto epico che propende incessantemente verso una sponda lirica.
La tensione narrativa assume spesso la forma del racconto del mito,
nella duplice direzione del mito antico che si fonde e si confonde
con la nostra vita abituale, offrendole senso ed arricchendo i gesti
di un valore metafisico, ma può anche proporre volti e vicende del
quotidiano, che assurgono alla potenza del mito. Ordinario e
visionario si uniscono per dare vita a un dettato molto equilibrato,
ma capace di produrre quelli che Soyinka definisce “shock
improvvisi”. La lingua della concretezza e del racconto procede di
pari passo con quella della rarefazione e della rivelazione. In
questo senso i punti di riferimento vanno ricercati solo
marginalmente nella tradizione italiana (in particolare in Foscolo),
maggiormente in esempi derivanti dalla letteratura di matrice
anglosassone, come i più volte dalla critica citati Coleridge e
Dylan Thomas, Yeats e i romantici inglesi.
In
Mussapi il mito è naturalmente strumento di conoscenza del mondo, ma
anche rito iniziatico: si può conoscere insomma diventando altro da
quello che si è (il bambino che diventa adulto: non è un caso che
in Le poesie, con una scelta
molto felice, non si distingua tra poesia rivolta agli adulti
e “per l'infanzia”), assumendo altre forme, facendosi
personaggio. Diventare un altro
è premessa alla visionarietà, così come ad uno sviluppo drammatico
della parola poetica, che costringe l'io lirico a presentarsi di
frequente nelle vesti di un io monologante.
Tutto
ciò è la premessa perché la poesia di Roberto Mussapi sia
compassionevole e pietosa, e che dunque miri, come scrive Bonnefoy, a
“levare gli occhi dagli accidenti della propria specifica
condizione per abbracciare con lo sguardo l'intero orizzonte umano”.
Del resto anche la percezione del tempo non è esperienza individuale
in Mussapi e dunque guardare al passato significa aggiungere elementi
di coscienza e consapevolezza collettiva alla durata privata della
percezione temporale. Leggiamo in La canoa,
tratta da La stoffa dell'ombra e delle cose:
“Ricordi il buio, la grotta, la paura, / la paura che ci mutò in
specie, specie abbracciata, / e il fuoco, e oltre il fuoco i primi
confini? // Ricordi come piangevamo vedendo un cavallo, / sentendo
nella sua corsa la forza del dio? / E come volevamo correre in lui, /
e superare la vita, non morire?”.
La
poesia ha anche questo compito: indicare la strada del ritorno, come
scrive acutamente Napoli, che ci permetta di rifiutare e sconfiggere
l'idea del nulla da cui siamo assediati. La poesia di Mussapi,
suggerisce ancora Bonnefoy, possiede quel “genere di verità che
perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più
invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma
incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l'amore, il
semplice amore tra persone, si rivela all'ultimo momento come la sola
verità”. Così l'anima del tuffatore di Paestum, protagonista del
celebre dipinto funerario del V secolo a. C. può concludere in
questo modo il discorso rivolto al figlio: “Ma ora che dormi come
quando in una culla / sembravi cercare i segreti del mondo, / ora che
hai spalle più larghe e più radi i capelli, / ascolta le parole
della mia anima: / non so molto di lei – di me stessa - / (è
presto, figlio, non conosco abbastanza, / ho appena iniziato, sto
nuotando), / non pensare al mio corpo (è tardi, / perle, quelli che
furono i miei occhi, e le mie labbra contratte in corallo), / ma ho
conoscenza del loro matrimonio, / di quando vivevano all'unisono nel
mondo / e io, anima di tuo padre, il tuffatore / ti consegno solo
questa esperita certezza / (dal fondo dell'abisso, nel brivido del
tuffo): / che anche l'uomo può amare eternamente”.
(pubblicato su succedeoggi.it)
giovedì 17 luglio 2014
La Capria e le anatre
Ho
sempre apprezzato di Raffaele La Capria la fluidità dello stile. Di
fronte a una sua opera letteraria di maggiore spessore, su tutte il
romanzo Ferito a morte, come a uno degli articoli, con i quali
puntualmente sembra sorridere del mondo offrendo una lettura
apparentemente a margine, e invece così inequivocabilmente
necessaria, di eventi già di per sé apparentemente marginali, sono
attratto dal procedere quasi distratto, eppure così preciso e
nitido, dalla capacità di mostrare la complessità in modo lieve,
rappresentandola però senza mezze misure e scorciatoie. Siamo forse
in un guazzabuglio, ma procediamo diritti e sicuri. Insomma, per
usare un'espressione cara allo scrittore napoletano, la sua scrittura
è come una Bella Giornata, una tersa mattinata di sole che fa
più bello il paesaggio e sembra rendere facile adattarsi alle
asprezze del mondo. La Bella Giornata è “anche un'idea di
scrittura – ha scritto recentemente La Capria in un articolo
pubblicato dal Corriere della Sera -, quella della semplicità che
arriva dopo la complessità”.
Per
meglio spiegare in cosa consista questa idea di scrittura, La Capria
torna su un paragone già utilizzato, mettendo a fuoco quello che lui
chiama “lo stile dell'anatra”: “l'anatra che fila liscia sulla
superficie dell'acqua e sembra spinta da una forza astratta, non
fisica, e invece è data dal lavoro delle zampette palmate sotto il
livello dell'acqua, un continuo lavorio delle zampette che però non
si vede, non si deve vedere, come non si deve mai vedere lo sforzo
nello stile di uno scrittore”.
E'
un'idea di scrittura che trovo molto affascinante: esprimere con
semplicità la complessità del mondo, operazione difficilissima e
che richiede costante applicazione e grande fatica, e fare in modo
che il lavoro dello scrittore non risulti visibile, che la scrittura
sembri quasi spinta da una forza astratta. La teoria potrebbe
classificare, senza con questo esprimere giudizi di valore, le
esperienze letterarie degli ultimi decenni.
Se
penso alla poesia italiana della seconda parte del Novecento mi
sembrano dotate dello stile dell'anatra le poesie di Penna e di
Caproni, per fare un esempio tra i più facili, sicuramente quelle di
Cattafi e Valeri, meno il Pasolini poeta, molto più anatra nel
romanzo Ragazzi di vita.
mercoledì 2 luglio 2014
Docenti, indocenti, indecenti
Avevo
anticipato che sarei tornato sull'articolo di Alessandro D'Avenia,
pubblicato il 25 maggio scorso sull'inserto domenicale del Corriere
della Sera. Lo faccio con piacere, e con un po' di apprensione,
perché l'autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue,
riferendosi alla sua esperienza di insegnante, ma forse, vista la sua
giovane età, ricordando anche gli anni vissuti da studente, riflette sugli atteggiamenti e sulla pratica didattica di chi insegna, distinguendo tre categorie.
I
docenti in atto sono quelli che “pongono le condizioni
dell'imparare, non lo pretendono”, ma soprattutto “svincolano il
sapere dalla pur necessaria prestazione e lo orientano a diventare
vita”. Sono gli insegnanti che sanno che la cultura deve essere uno
strumento per leggere la realtà e sono anche quelli che “non
smettono di studiare, prestano libri, offrono un caffè ad uno
studente in crisi, fanno lezione fuori dal programma, dedicano tempo
fuori dalla lezione...”. D'Avenia conclude che “la loro classe è
convivio, hanno l'autorità di chi assapora la vita e la porge”.
Ci
sono poi gli indocenti, che per vari motivi (tra i più
diffusi certamente la stanchezza, l'insoddisfazione e l'inadeguatezza
dello stipendio) hanno competenza, ma non riescono a trasmettere il
proprio sapere. L'indocente
“non insegna perché non impara dai ragazzi, la sua classe si
appiattisce sulla prestazione”. In questo caso, il programma e
l'esame sono “l'orizzonte di autorità”. Aggiungerei che le loro
indubbie conoscenze sono l'unica luce che illumina il percorso
didattico, ma è una luce che a volte abbaglia, deforma le figure e
porta fuori strada. L'errore più grande, in questo caso, è far
credere che sia approdo quello che è solo una tappa (il compito, l'interrogazione) per
verificare se si sta procedendo correttamente in un viaggio anche piuttosto
lungo e complesso. I ragazzi in questo
caso credono di aver raggiunto il proprio scopo ottenendo un voto che
li soddisfi, si sentono inadeguati se questo non avviene. Non è
così.
Infine
ci sono gli indecenti, che “non conoscono ciò che insegnano e
trasformano la classe, presto connivente, in chiacchierificio e
poltiglia educativa”.
Se
si dà per vera la conclusione di D'Avenia che di docenti “ce n'è
almeno uno nella nostra vita e gli dovremmo, se non il doppio dello
stipendio, almeno un grazie” (e come non pensare che “almeno uno”
nella vita è un po' poco) se ne deduce che la categoria senz'altro
più numerosa è quella intermedia. Tra gli indocenti
mi sembra particolarmente nutrita, o almeno in grande crescita, la
sottocategoria che potremmo definire dei docenti burocrati,
che ritiene che l'insegnamento possa essere risolto nella precisione
con cui si aderisce alle norme e al fantomatico programma. Sono gli
insegnanti, per intenderci, che credono che le prove somministrate
(termine recentemente entrato prepotentemente nel gergo ministeriale;
da notare che finora abbiamo creduto possibile somministrare una
medicina, i sacramenti...) siano il cuore pulsante del proprio
lavoro, non lo scambio quotidiano con gli alunni, che ogni uscita
dall'aula, anche per il più nobile fine, sia una “perdita di
tempo”, e che sia necessario attenersi rigidamente alla media dei
voti ottenuti (“Fantozzi, non sei sufficiente, hai solo la media
del 5,75”). Quasi sempre amati dai dirigenti, sono costantemente
impauriti da possibili ricorsi e dall'atteggiamento di genitori
ritenuti quasi sempre incompetenti, pronti, a loro dire, a difendere
acriticamente e anche disonestamente i propri figli.
Ma
cosa fare? Bisognerebbe che gli indocenti diventassero docenti.
Invece la scuola premia chi si guarda dal promuovere curiosità e
motivazione, se questo significa rivedere almeno in parte il ruolo di
chi insegna e la propria posizione nella relazione all'interno della
classe. Eppure basterebbe, per tornare alle affermazioni di D'Avenia,
che la materia nelle ore di lezione venisse considerata “terreno
comune di ricerca, non trincea”.
martedì 24 giugno 2014
TUTTE LE POESIE di Giovanni Giudici (Oscar Mondadori)
Nel
1953, appena pubblicata la sua prima raccolta di versi, Giovanni
Giudici, che all'epoca abitava nella periferia di Roma, aveva quasi
trenta anni e nell'operazione aveva impegnato 25mila lire dell'esiguo
bilancio familiare, pensò di spedirne la prima copia ad Umberto
Saba, che si trovava allora in una clinica romana per curarsi. Lo
racconta lo stesso Giudici nel prezioso e ormai introvabile Andare
in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, spiegando anche il perché
di tanta sollecitudine: “Già da diversi anni egli era il poeta che
più amavo e leggevo e, forse, il primo fra i contemporanei del quale
avessi letto qualche poesia”, che è un modo anche per mettere in
evidenza una filiazione, per mostrare un grado di parentela. Saba,
per la cronaca, rispose al giovane allievo, dando così inizio ad una
frequentazione che sarebbe durata negli anni successivi, i pochi anni
che separavano il vecchio poeta triestino dalla morte.
L'episodio
è riaffiorato alla memoria, mentre sfogliavo il ponderoso Oscar
Mondadori dedicato all'intera opera poetica di Giovanni Giudici:
oltre 1200 pagine di versi, a cui vanno aggiunte le cinquanta
dell'introduzione firmata da Maurizio Cucchi, l'apparato
bio-bibliografico e le circa quaranta pagine di indice. Tutte le
poesie, che va ad
affiancarsi al Meridiano pubblicato dalla stessa casa editrice nel
2000, si propone come uno strumento importante per avvicinarsi o per
rileggere l'opera di uno dei poeti che maggiormente hanno segnato con
la propria continua ricerca linguistica e con la forte connotazione
etica, il panorama poetico italiano della seconda metà del
Novecento.
Come
Saba ebbe a contrastare i bagliori delle avanguardie e la presenza
fagocitante dell'ermetismo attraverso una propria particolare
declinazione della lingua della poesia e del valore che essa viene ad
assumere nel rapporto con il lettore, anche Giudici, che si trovò
inizialmente stretto tra le propaggini del neorealismo e l'invadenza
sperimentale del Gruppo 63, seppe costruire un proprio peculiare
percorso, alimentato del rapporto con la tradizione, che viene
recuperata in forme sempre originali. Si percepisce in Giudici la
necessità di nutrirsi del passato della letteratura, di
attraversarlo con tenacia e regolarità, ma insieme l'attenzione
costante ad abbassare i toni che dalla tradizione provengono,
ribadendo in tal senso in maniera singolare ed efficace l'esempio
gozzaniano. Del resto nell'opera del poeta di La vita in versi,
Autobiologia, Il male dei creditori, per citare alcuni
dei titoli più noti, la lingua della poesia, sorprendentemente tesa
a prelevare da vari registri e da diversi territori linguistici è
sempre comunque disposta a fare i conti con il linguaggio della
comunicazione ordinaria. Giudici crede fortemente nella forza
evocativa della parola, ma sa anche che essa non può prescindere
dalla necessità di un confronto serrato con il presente. Del resto
la poesia è avvertita come dispositivo per liberare e nello stesso
tempo controllare l'energia della parola. Scrive Giudici in una delle
brevi prose contenute nel volume a cui prima si faceva riferimento:
“Fare i conti con la lingua sarà in primis prendere
coscienza del ricco e polivalente strumento di cui disponiamo. Fare
poesia: utilizzare un materiale di esperienze fisiche e sentimentali
per fabbricare oggetti linguistici multi-uso. Dominare la lingua è
dominare, nei limiti della nostra finitezza, il reale. Lingua è il
reale che entra in noi, si trasmette e si propaga”. Ed è questa
un'affermazione che bene può accompagnare la lettura dei versi del
poeta nato a Le Grazie, una frazione di Portovenere, sul mare di
Liguria, e poi vissuto lungamente a Milano.
L'Oscar
da poco pubblicato dà conto di un percorso poetico vario e
polifonico, ma sempre indirizzato a cercare di ottenere il massimo
effetto comunicativo facendo interagire i valori prosodici e sonori
del verso (l'uso per esempio di rime e assonanze, il continuo ricorso
ad un sistema di strofe, la scelta nella seconda parte della
produzione di far iniziare ogni verso con la maiuscola, a segnalarne
la compiutezza fonetica e di senso) con il naturale svolgimento,
vicino alla prosa, dei registri linguistici. Ne nasce una lingua
varia e complessa, una mobilità espressiva che si realizza, come
scrive Cucchi, attraverso “una continua oscillazione di tono e
nell'uso di materiali linguistici e stilistici eterogenei”.
La
poesia di Giudici oscilla anche costantemente, denunciando ancora una
volta il legame con l'antecedente sabiano, tra la tendenza alla
narrazione e la forte tensione lirica, in qualche modo placata però
quest'ultima dal ricorso all'ironia e all'autoironia e dall'allusione
a un paesaggio ordinario e quotidiano, a volte anche dimesso e
popolato di piccole cose.
Scrivere
poesia è sempre comunque una promessa d'amore nei confronti della
parola, un'umile ma faticosa e studiatissima prova di abilità
artigiana, ma anche, e in questo risiede in parte il valore etico
dell'atto, capacità di ascoltare l'energia, le interne armonie, i
doni, che le parole portano con sé. In questo senso il poeta è
insieme “alunno e fabbro”, come è detto nella lirica Un
poeta, contenuta nella raccolta Quanto spera di campare
Giovanni del 1993: “Uomo, sì, grazioso / Come si dice di colui
che pure / Non grato all'apparenza si fa amare / Per le miti maniere
in braccio alle sventure / O minima intenzione a fior di labbro: / Di
ciò nel fare cose di parole / Alunno e fabbro”.
(pubblicato su succedeoggi.it)
lunedì 16 giugno 2014
MANCANZE di Alessandro Fo (Einaudi)
La
poesia di Alessandro Fo si muove con rapida e stupefatta delicatezza
tra le vicende del mondo, che tenta sempre inizialmente di risolvere
nella linearità del racconto. Ma, come avviene nella lirica di
Sereni, non appena il filo narrativo sembra cominciare a dipanarsi, e
ad assolvere alla sua funzione ordinatrice, subito qualcosa (un
pensiero laterale, un gesto inaspettato, lo sguardo che si posa su un
oggetto apparentemente senza importanza) lo porta in altra direzione,
lo spinge verso prode impreviste. Ne derivano preziose quanto
pericolose sovrapposizioni di senso, che fanno sì che il lettore si
trovi dinanzi una realtà pencolante, in fondo poco rassicurante
anche se presentata con i toni della leggerezza e della sobrietà,
dentro cui muoversi con l'occhio sorpreso di chi scopre dietro
l'ordinarietà degli eventi l'incanto e la magia.
Ne
troviamo conferma nella raccolta Mancanze, da poco edita da
Einaudi. Il titolo traduce per approssimazione l'originario Reliqua
desiderantur, l'appunto con cui si indicava, a margine dei testi
antichi, la mancanza di qualcosa: il resto manca insomma, ma in
quanto tale rimane appunto sotto forma di desiderio. Per esigenze
editoriali (il latino non attrae e poi sarebbe stata troppo forte la
rassomiglianza con il fortiniano Composita solvantur), Fo ha
dovuto abbandonare l'idea iniziale, lasciando all'immaginazione del
lettore l'anelito di quell'evanescente riferimento al desiderio che
pure avrebbe già detto qualcosa sul contenuto del libro.
Perché
in fondo la poesia di Fo, che si proponga sotto forma di preghiera,
come nella prima sezione della raccolta, o che penetri con grazia
all'interno del miracolo della musica di Chopin, come accade nella
sezione che ha titolo Il tono blu (Variazioni Chopin), è
sempre alla ricerca di quel particolare che manca alla realtà per
definirla, quella zona celata ed ambita che sappiamo esistere in
qualche luogo e in qualche forma, perché fa parte indiscutibilmente
delle nostre esistenze, e da cui però ci sentiamo irrimediabilmente
separati. La parola ha dunque il compito di svelare e di riportare in
vita, di consolare e di mettere in evidenza le parti che mancano, di
dare concretezza a ciò che è impalpabile. E' quanto avviene nella
preghiera. Solo che quella declinata da Alessandro Fo è orazione
tutta impregnata di una religiosità laica e mondana, sia pure
composta in una pietà sincera e devota: “E
non è cosa meno incredibile il pensiero, / a pensarlo davvero, /
questo nulla che si fa verbo e moto, / il corso di parole / che
esercita il diritto / di pronunciarsi muto / e sfocia qui trascritto,
// l’immateriale / dentro il materiale / – o forse nel suo vuoto
// – come la Grazia, / nel suo corpo mortale”.
Nei
versi di Mancanze vita
e morte dialogano incessantemente, così come si rincorrono i
volti delle persone care con le presenze di angeli (a
loro è dedicata un'altra sezione del libro), che possono anche
essere figure intraviste, apparizioni destinate a svanire, delle
quali poi si potrà sentire appunto solo il peso dell'assenza. Gli
angeli delle poesie di Fo, che denunciano uno stretto grado di
parentela con le fanciulle e i ragazzacci di Saba, sono creature
terrene nelle quali bene si rappresenta l'evanescenza della realtà,
il senso del miracolo, la consapevolezza di qualcosa che abbiamo
perduto e di cui sentiremo per sempre la nostalgia (“Né
lei, probabilmente, / saprà mai quanto
deve / alla sua veste il minimo bagliore / che ne riflette forse
questa via / d’inchiostro e carta in metrica: // ispira diffidenza
la poesia, / non convince la delicatezza, / poca gente è all’altezza
dell’affetto, / quasi niente è il rispetto dell’amore..”).
Così
il poeta, riducendo in sintesi il rilievo attuale della propria
esistenza, scrive: “Una minima scia / che già si spegne / resta,
se resta, lontana in qualche mente / su cui mi sporgo ancora come
aneddoto / legato a una passata professura / o come inesplicabile
fessura / di nostalgia per un compagno assente. / Ma lentamente la
figura che una volta / parlando in me si dava nome 'io' / collimerà
in rima piena con oblio”.
Fo,
che insegna Letteratura Latina all'Università di Siena e ha
recentemente curato e tradotto l'Eneide sempre per i tipi di Einaudi,
predilige un linguaggio semplice e un tono leggero, velatamente
ironico, senza che questo però significhi rinunciare alla
complessità, ma anzi lasciandola emergere con più forza proprio
dove l'ordinarietà sembra prevalere. A questo proposito, i versi
dedicati a Chopin possono diventare una sorta di dichiarazione di
poetica: “Il
valzer in do diesis / minore (opera 64, 2)
/ sembra in contraddizione. / Appassionata, eloquente confessione /
molto espressiva, come per raccontare… // … e poi prende la pena,
/ la volge in leggerezza” o ancora “… come possono valzer cosí
tristi / giungere a donare tanta gioia?”
Pubblicato su succedeoggi.it
giovedì 12 giugno 2014
L'anima si incupisce
L'anima si incupisce se gli oggetti
di nessun conto, le lampade i
bicchieri,
ci abbandonano, il corpo si protende
senza di loro sul ciglio dell'abisso,
il gesto si frantuma in reticenze.
Solo la mano cerca nella tasca
la moneta, la chiave, il punto fermo
che ci faccia sentire dentro casa
con la speranza che tazzine e brocche
non abbiano lasciato la credenza,
che siano al posto loro le ramine,
i
calici in attesa delle bocche.
(da La vita dei bicchieri e delle stelle, Campanotto Editore)
mercoledì 4 giugno 2014
Alessandro D'Avenia, la scuola in diretta
Quando
si parla di scuola affermando che la qualità dell'insegnamento non
può prescindere da tre elementi indispensabili, “amore per ciò
che si insegna, amore per il chi a cui si insegna, amore per
il come si insegna”, e che lo studente deve essere
riconosciuto come “soggetto di un 'inedito stare al mondo' e non
come oggetto da cui ottenere prestazioni”, o si insegue
l'interlocutore affrontandolo con argomenti simili, di solito si
viene guardati dagli addetti ai lavori con l'accondiscendenza che si
riserva a chi dice una cosa plausibile ma del tutto irrealizzabile, a
chi propone una soluzione romantica per affrontare un problema,
quello appunto dell'insegnamento, che ha bisogno innanzitutto di
scelte tecniche. Ma dove vive questo, dicono gli occhi di chi insegna
e vive ogni giorno la frustrazione alimentata da scarse soddisfazioni
e da un'ancora più scarsa retribuzione, soprattutto se a pronunciare
l'affermazione a favore dello scambio relazionale è un altro
insegnante.
Deve
aver subito occhiate del genere lo scrittore Alessandro D'Avenia,
insegnante in un liceo milanese, quando ha pubblicato, un paio di
settimane fa, un intervento nell'ambito del dibattito sulla scuola
ospitato dall'inserto domenicale La Lettura del Corriere della
Sera. Dice D'Avenia che istruzione ed educazione non sono separabili
e che “non ci può essere educazione (né insegnamento) in
differita, perché la relazione
coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo,
spirituale)”. Insomma “solo la vita integrale educa” e si
insegna con tutto, “sguardo, tono di voce, movenze del corpo,
disposizione dei banchi, brillare degli occhi, segni su un compito,
cellulare spento... e parole”. Aggiungerei che fondamentali sono
anche le caratteristiche del luogo che ci ospita, ma a questo ho
dedicato un altro intervento a cui rimando: http://moscheinbottiglia.blogspot.it/2014/04/un-inospitale-paesaggio-scolastico.html.
Sulla
seconda parte dello scritto di Alessandro D'Avenia mi soffermerò in
un prossimo post, intanto sottolineo alcune affermazioni che mi
sembrano convincenti.
Innanzitutto
mi piace che si parli di nuovo di educazione.
Si può insegnare (o almeno si può insegnare ottenendo qualche buon
risultato) solo se si è disposti ad accettare un assunto: senza
mettere in atto un processo educativo non è possibile nemmeno
l'insegnamento. Sta di fatto che oggi la parola educazione
fa paura. Forse perché rimanda
a un sistema di valori, che non riusciamo più a mettere a fuoco, o
forse perché richiede un diverso atteggiamento di chi è parte
attiva nella pratica quotidiana della relazione scolastica,
professori studenti genitori: bisogna mettersi in gioco.
Altra
questione: la qualità della proposta scolastica non si misura sul
numero di prestazioni che sono richieste allo studente né sulla
difficoltà che prova nel corrispondere alle richieste, ma
nell'interesse che chi insegna riesce a determinare in colui che
dovrebbe imparare, nella passione che scatena, nella curiosità che
genera. Uno studente annoiato e impaurito è di solito il risultato
non di un insegnamento serio e severo, ma di una scuola che ha
rinunciato alla relazione attiva tra le sue componenti principali,
diventando invece il luogo della burocrazia e della rigida
ripetizione di formule.
Infine,
lo studente è il soggetto
dell'atto educativo, in quanto è colui che deve imparare a conoscere
il mondo. In questo senso non può essere il punto d'approdo delle
richieste di chi insegna, il destinatario senza diritto di parola di
un ammaestramento a senso unico, ma è invece colui che deve
pretendere di sapere. Perciò deve essere messo nella condizione di
chiedere. Deve prima di ogni cosa saper formulare domande sui
contenuti che gli vengono proposti. Una scuola che genera attenzione
e fornisce motivazioni valide è quella che insegna a fare domande.
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