Gli spazi vuoti devono
essere riempiti. I silenzi resi inoffensivi, colmati senza nessuno
sconto da qualche presenza sonora. Quando è cominciato tutto questo?
dieci anni fa? quindici? Da allora al ristorante, una sequenza
musicale ininterrotta accompagna i nostri bocconi, al punto che
risulta impossibile parlare con chi ci sta di fronte senza essere
costretti ad urlare. Persino l'attesa dal dentista è funestata da
un'insulsa musichetta in sottofondo, la stessa che vorrebbe
allietare, ma con una ripetitività ossessiva che conduce presto alla
prostrazione, l'intervallo tra la nostra chiamata telefonica e il
contatto vocale con l'interlocutore con cui abbiamo necessità di
parlare. Durante la partita di basket, nell'intervallo di quella di
calcio, gli altoparlanti sparano a pieno volume i successi del
momento e le pubblicità di sempre. C'è musica dappertutto: non
l'abbiamo voluta, ma siamo costretti ad ascoltarla. Altro che società
dell'immagine: questa è l'età della musichetta.
Gli spazi vuoti si
occupano anche in altri modi. Per esempio, rispetto a trenta o
quaranta anni fa, la velocità con cui parliamo è forse raddoppiata.
Basta riascoltare un'intervista televisiva o radiofonica, o meglio un
giornalista che sciorina le notizie al telegiornale: le parole si
susseguono con spietata rapidità, tanto che risulta impossibile
inserire tra di esse una riflessione, bisogna evitare qualsiasi
commento. I commenti e le riflessioni li fanno altri: i telecronisti
sportivi, che non lasciano nessun attimo dell'evento cui stiamo
assistendo senza l'accompagnamento di parole.
Abbiamo paura delle
pause. Le nostre giornate diventano, in questo modo, una lunga
sequela ininterrotta di frasi e fraseggi, rumori, musiche, canzoni.
Il contrario di questo
brusio di fondo, del ritmo cadenzato e molteplice che accompagna e
sovrasta le nostre azioni quotidiane, non è il silenzio. Quello che
manca è proprio la parola che vuole davvero dirci qualcosa, e la
pausa che le fa seguito. Ci mancano le parole e i silenzi di chi ci
sta accanto mentre prendiamo il caffè, del centralinista che ha
risposto al telefono, del commesso in un negozio.
Quello che manca alle
nostre giornate non è il silenzio, ma la comunicazione spicciola e
serena, il parlare sommesso, a volte lento, a volte più concitato,
reso insomma espressivo dal silenzio.
La poesia, con i suoi a
capo ingiustificati, con gli enjambements improvvisi, con il
ritornare pigro all'inizio del rigo, lotta perché la parole abbiano
lo spazio e il tempo necessari per dirci qualcosa.
Con tutte quelle musiche (o parole) ci si può permettere di ascoltare poco. Possiamo non prestare attenzione a quelle voci esterne ma soprattutto possiamo ascoltare poco la nostra voce, la più intima che abbiamo. Quella vera, che si sente solo nel silenzio. E' impietosa, sì, ma se non scappiamo alle prime note che ci fanno stridere lo stomaco, dopo diventa una musica. O almeno, un po' musica un po' stonature. Così, come siamo noi. Tutti.
RispondiEliminaGrazie Giuseppe per i tuoi scritti :)
E.
E' proprio vero quello che scrivi. La musichetta da segreteria telefonica suona come una metafora della nostra epoca: serve a coprire gli spazi vuoti, ma solo per evitare di ascoltare noi stessi e gli altri. Per il resto, Nel blog cerco di riproporre le domande che di giorno in giorno mi pongo. Sono contento che questo interessi a qualcuno.
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