Paolo Ruffilli ha
costruito le sue ultime raccolte di versi (tra le quali vale la pena
ricordare il notevole esito di La gioia e il lutto) intorno ad
un'idea forte centrale, un tema dal quale sviluppare le singole
riflessioni. Accade lo stesso anche con Affari di cuore, il
volume recentemente pubblicato per i tipi di Einaudi.
Attingendo alla lunga
tradizione del canzoniere d'amore, con lo sguardo particolarmente
puntato alle origini cortesi, stilnoviste e petrarchesche, Ruffilli
manifesta fin dai primi versi una propria idea dell'atto amoroso,
rivolto non verso una singola figura di donna, semmai idealizzata, ma
considerato quale sentimento puro e durevole pur nelle sue molteplici
manifestazioni e nei vorticosi e spesso contraddittori accadimenti.
L'amore insomma se è tale non può essere circoscritto dentro esiti
prevedibili e codificati, ma è scoperta continua, combinazione
imprevedibile di bene e male, dialogo disarmonico e dissacrante tra
spinta spirituale e vertigine erotica. L'amore riesce a fornire una
ragione alle nostre esistenze, attraverso la presenza della persona
amata, che diventa obiettivo e fine delle nostre azioni, ma anche
minaccia, trasalimento, composizione impossibile di felicità e
disperazione. Nel cammino verso la persona desiderata cerchiamo la
possibilità di riconoscerci nell'altro, di pervenire all'impossibile
conciliazione degli opposti: “E non volere / più niente d'altro, /
se non essere te / dentro di te / nel cuore del tuo cuore, /
diventato parte / del tuo stesso odore”.
L'amore sottrae dalla
vita e dunque difende l'amante dai violenti assalti della
quotidianità. Sembra che nulla possa davvero far male, tranne
l'amore stesso, ma in effetti il mondo aspetta fuori dalla porta
“benevolo e indulgente / con le nostre vite”, ma alla fine il
gioco è smascherato, perché “il mondo vince sempre / tutte le
partite”.
Gli esiti più felici
della raccolta vanno trovati proprio in questa dialettica continua
tra il rassicurante circolo chiuso in cui vive la coppia e
l'inevitabile presenza del mondo, tra il bisogno di infinito che
nell'amore sembra realizzarsi e la finitezza che ogni atto della vita
porta inevitabilmente con sé (“l'idea di un infinito / perfino
quotidiano, / lasciato in sorte / al corpo dell'amore”), tra la
straniata condizione dell'innamoramento che ci fa prigionieri e il
piacere di sentirci incatenati ed alienati.
Nella poesia La
traccia ad esempio, ripercorrere i tratti amati del corpo della
donna sembra offrire una possibile via di scampo, una soluzione alla
nostra fragilità. Ma si tratta di una traccia destinata a svanire:
“Solo il dettaglio / nel farsi oggetto / e luogo circoscritto / ai
nostri sensi, / rende presente / e non più astratto / né più
evanescente / o spento e vano / l'istinto a opporre / al tempo
un'immanenza / fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che la
traccia / slitti via / cadendo a fondo”.
Ruffilli privilegia un
tono popolare, che sa comunque guardare alla tradizione letteraria
della canzone e che introduce nella sequenza cantilenante del
linguaggio quotidiano una serie di metafore che vengono assorbite
nell'evento e prontamente smascherate.
(pubblicato sul sito Giudizio Universale)
Nessun commento:
Posta un commento