Gozzano ritratto durante il viaggio in India |
Nel maggio del 1912, esattamente cento anni fa, Guido Gozzano era sulla via del ritorno dal suo viaggio in India. Era partito in febbraio, con l'amico Garrone, dietro consiglio dei medici, che ritenevano che il clima di qui luoghi potesse essere favorevole ai suoi polmoni malati. I suoi scritti di viaggio, pubblicati inizialmente dal quotidiano La Stampa, vennero poi ampiamente rivisti e raccolti nel volume Verso la cuna del mondo. Negli ultimi giorni del suo soggiorno in Oriente, Gozzano scrive: “I signori dell'India non sono gl'Indiani. E non sono nemmeno gl'Inglesi. I signori dell'India sono gli animali. I corvi, anzi tutto”. Iniziano così le pagine de Il vivajo del buon Dio, l'ultima prosa del volume. “Se gli avvoltoi sono i necrofori – continua Gozzano -, i corvi sono gli spazzaturai del vastissimo Impero. E ne sono anche i ladri, ladri fatti tracotanti dalla tolleranza millenaria, contro i quali non vi difende nessun policeman volenteroso”.
La presenza invadente dei
volatili è un'impressione visiva ed uditiva che colpisce subito il
visitatore sbarcato in una delle grandi capitali: Bombay o Calcutta,
Madras o Rangoon. Nei pomeriggi assolati, quando la città è immersa
nel silenzio e nessuno passeggia per le vie, e “in ogni stanza
dell'albergo un europeo sogna la Patria lontana, resupino sotto il
refrigerio dell'immenso ventilatore”, si sente il gracidio dei
corvi. Esso è così monotono da non rompere il silenzio, ma da
sottolinearlo. E' un “inno alla putredine”, scrive il poeta,
“dove prorompe la gamma di tutte le r, dove l'orecchio
sembra discernere tutte le parole non liete: Ricordati! Ricordati!
Morire! Morte! Morirai!”.
“Tutti gli animali
hanno in India una straordinaria familiarità con l'uomo. I passeri,
le tortore, gli scoiattoli striati invadono i cortili e i giardini,
scendono a prendere le bricie quasi dalle vostre mani, pieni di una
francescana fiducia; ma nei corvi e nelle scimmie la familiarità è
fatta di tracotanza insolente, di calcolo ingordo; certo pensano che
Bombay e Calcutta siano state edificate per loro e che l'uomo sia un
bipede intruso da tollerarsi con palese rancore”.
Con altrettanto palese
insofferenza, Gozzano passa ad elencare le imprese delle scimmie, che
invadono i tetti delle case nelle periferie, delle lucertole gibbose,
del cobra dagli occhiali, dei coccodrilli, ma mostra tutta la propria
partecipe meraviglia di fronte agli elefanti. “La loro intelligenza
è inaudita, imbarazzante: nell'occhio microscopico, quasi perduto
nella mole della testa, s'alterna un bagliore indefinibile di
scaltrezza derisoria e di bontà indulgente. Sono certo che
comprendono ciò che dico, che intuiscono ciò che penso”.
Infine di fronte
all'ospedale degli animali di Bombay, dove l'occidentale
arretra alla vista di “ronzini di piazza, bufali, zebù
ischeletriti o idropici, sciancati, anchilosati, coperti d'ulceri e
di piaghe, scimmie, cani, gatti ciechi, monchi, senza pelo”, il
poeta della Signorina Felicita, chiede che senso abbia tutto questo,
“perché non si dà a quelle povere bestie il colpo di grazia”.
Il guardiano risponde che quegli animali devono vivere per soffrire e
dunque spegnere, nella ruota delle molteplici incarnazioni, il
desiderio di esistere, il peccato cioè che ci condanna a ritornare
in vita, ad essere di nuovo materia.
“E se fosse vero? - si
domanda Gozzano – Se veramente noi non fossimo il re dell'universo
come la nostra religione ci promette? Se veramente il verme, il cane,
l'uomo non fossero che gradazioni varie dello spirito, della stessa
forza immanente che palpita ovunque, esitando incerta verso una mèta
che ignoriamo?”.
Poco meno di un anno dopo
il suo ritorno in Italia, Gozzano annunciò di aver consegnato
all'editore il manoscritto di Farfalle,
una sorta di composito poema che rimarrà in larga parte incompiuto.
Chissà se nelle Vanesse e nei Bruchi non abbia visto una qualche
fase di passaggio verso “la pace dell'Increato”.
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