Roberto Veracini ha un
posto privilegiato dal quale guardare il mondo. E' la sua Volterra,
che ogni volta riemerge nelle sue poesie e che si propone come il
luogo dove sempre fare ritorno. Questa insistente presenza, che è
spirituale ancora prima che geografica, abbraccio rassicurante che
implica insieme apertura e inquietudine, è evidente anche
nell'ultima raccolta, emblematicamente intitolata Da un altro
mondo.
Il
libro si presenta con un'architettura complessa, che si compone di
due Parti (Segnare
il tempo
e Altrove)
suddivise in varie sezioni. Nella prima parte Veracini propende per
gli argomenti della poesia civile, ma utilizzando un tono sempre
volutamente lirico, che imprime patos e tensione alle vicende
evocate. Non a caso una delle prime liriche è dedicata a Pasolini:
del poeta de Le
ceneri di Gramsci
viene messo in risalto proprio quell'impasto di impegno civile e di
forte partecipazione emotiva ed esistenziale che caratterizza tanta
parte della sua opera. La lirica La
croce di Pasolini
si conclude con questi versi: “La bestemmia del mondo / non l'hai
perdonata, / con gli occhi fissi, incredulo / l'hai vissuta fino in
fondo, / nudo in mezzo / a quel macello, pregando”.
Il mondo è in fondo “un posto orrendo”, dove la comunicazione
diventa quasi impossibile, vittima com'è di continue divagazioni e
distorsioni, e dove il posto che spetta a ognuno si manifesta in modo
sempre meno chiaro, i ruoli si sovrappongono e si confondono: “E'
orrendo questo posto / e le facce, l'odore della pelle, / la muta dei
cani sempre pronta / all'osso, le servili cosce tivù / sorridenti,
la barba finta / degli esperti, la solitudine / dei morti, l'aria /
che si respira e l'assenza / quest'assenza che non ci dà / pace...”.
Questo posto è insomma orrendo perché finisce per mescolare
l'orrore e la bellezza, il dolore e la superficialità.
Volterra |
Il
nostro mondo, “dove si vedono le immagini perfette” e dove le
telecamere sono pronte “ a cogliere l'atto, la guerra / nel suo
svolgersi, puntuale, ineluttabile”, ma dove “non si sente più
niente”, è impotente di fronte ai segni della frammentazione e del
disordine, che diventa ammasso e pasticcio. Il compito del poeta non
può dunque essere solo quello di guardare la realtà e denunciare il
male: chi scrive deve invece anche provare a restituire una
percezione ordinata degli eventi, ritrovare e indicare una possibile
unità, un senso che spieghi la nostra presenza e ne dimostri
l'utilità dinanzi al dispiegarsi confuso delle immagini e degli
avvenimenti. Veracini insomma sente ancora la poesia come adesione
allo stato di sofferenza degli altri. Il poeta non può appartarsi,
ma deve partecipare alle vicende del mondo, deve provare ad indicare
una strada. La possibile soluzione, suggeriscono le liriche di Un
altro mondo,
passa attraverso l'uso della memoria come strumento privilegiato per
la comprensione dei fatti contingenti e, più in generale, della
nostra condizione di uomini, e si costruisce a partire dalla capacità
di essere attenti agli altri, siano essi vicini o lontani nel tempo,
di porre attenzione ai piccoli eventi della quotidianità, che
possono dimostrarsi così ricchi di significato. Infine la strada
maestra che rende possibile la riconciliazione e la ricomposizione
risiede nel ritrovare un rapporto rasserenato con l'ambiente.
Tutto
questo per Veracini significa tornare a Volterra, in quell'Altrove
dal quale peraltro non si è mai partiti, significa tornare alle
proprie pietre, al padre e agli affetti, alla visione del mare, che
appare sempre come un obiettivo lontano, un'apertura e una meta che
riemerge dalla nebbia e dall'inverno.
Per tutta la vita c'inseguono
ostinati luoghi dell'anima
e verità supreme e minime
che non osiamo credere
ma sono lì a dirci che esistono
memorie ineludibili, infanzie
rilevate, sogni inattaccabili,
poesia della vita che non ha
versi ma fedi e si nutre
di alberi e mari, sirene
e odori inconfondibili
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