Qualche riflessione
sull'articolo di Alfonso Berardinelli, pubblicato sulla Domenica
del Sole 24 ore del 27 maggio 2012.
A partire dagli anni
Settanta, afferma tra l'altro Berardinelli, i poeti non hanno
avvertito più il bisogno di un'attenta riflessione critica che
agisse insieme alla produzione in versi, intrecciandosi cioè con il
loro percorso creativo. Ciò ha contribuito a far sì che la poesia
si liberasse dalle regole e dalla necessità di “avere qualcosa da
dire”, dando luogo a una pratica che è sembrata ancora di più
aperta al contributo di tutti. Berardinelli sottolinea anche come, a
partire dagli anni Ottanta, nei discorsi sulla poesia sia subentrata
una sorta di “fissazione ontologica e mistica”, facendo di “un
caso limite, come quello di Paul Celan, poeta straordinariamente
oscuro, un nuovo modello canonico a protezione della routine
poetica”. Il risultato è che la poesia “annega in categorie che
sembrano universali e profonde, ma sono solo generiche”.
![]() |
Alfonso Berardinelli |
La mancanza di coscienza
critica, di solidi presupposti teorici, l'assenza insomma di
“qualcosa da dire”, ma anche l'impossibilità (o anche la
mancanza di volontà?) da parte dei critici di operare scelte
precise, indicando “se un testo poetico è eccellente, buono,
mediocre, banale o nullo”, hanno determinato delle condizioni di
vaghezza e presunta inattacabilità, per cui la Poesia (a questo
punto inevitabilmente e pericolosamente con la maiuscola) “può
generare uno stato d'autoipnosi favorevole a un'inconsulta
produttività verbale”.
In effetti Berardinelli
colpisce nel segno. L'immensa produzione poetica degli ultimi decenni
presenta spesso un buon livello tecnico, ma solo se consideriamo
accettabile che essa si manifesti su un territorio nel quale appare
possibile agire e muoversi seguendo modelli e percorsi individuali,
all'apparenza frutto di un'estrema libertà d'azione, in effetti
rischiosamente ripetitivi, dei quali sfugge il pensiero, e dunque
l'urgenza, che li ha generati. Spesso dietro un dettato indefinito ed
elusivo, si nasconde un'intenzione inintelligibile e un'idea fumosa.
Quante volte siamo giunti al termine della lettura di una raccolta
poetica, che all'inizio ci aveva attratti proprio in virtù di una
certa abile e accattivante indeterminatezza della lingua, senza
infine capire cosa l'autore abbia voluto comunicarci? Ci è sembrato
cioè, cito ancora Berardinelli, che le parole fossero arrivate sulla
pagina “da chissà dove, magnetizzate come corpuscoli dal loro
reciproco attrito”.
Se vuole ricominciare ad
essere un linguaggio indirizzato a tutti e dunque ascoltato non solo
dagli altri poeti, ma anche dai lettori, la poesia ha estremamente
bisogno di critici che sappiano e vogliano distinguere e indicare
percorsi, ma anche di poeti che intendano nuovamente mettersi in
gioco, attraverso l'interazione dei versi con seri e ragionati
presupposti teorici. Poeti che insomma abbiano “qualcosa da dire”.