In un articolo dedicato
alla poesia di Giorgio Caproni, pubblicato sul primo numero de
L'Indice nell'ottobre del 1984 (e che rileggo ora, in
occasione del centenario della nascita del poeta livornese), Gian
Luigi Beccaria scrive: “non c'è alcun dubbio che la poesia è
traffico con l'inconscio, e che la poesia non è lucidità
raziocinante, esposizione, prosa”. E prosegue affermando che “se
le sensazioni oscure sono per il poeta le più interessanti, è a
condizione che le renda chiare: 'se
percorre la notte – scriveva Proust – lo
faccia come l'Angelo delle tenebre, portandovi la luce'”.
Tutto questo nella poesia di Caproni si traduce nell'uso di una
lingua “fraterna”, che non si lascia irretire “nei labirinti
del manierismo, nella esasperazione della tecnica”. Beccaria
conclude: “il lettore medio difatti non si è forse arreso talvolta
alla poesia contemporanea come di fronte ad un gioco di parole che
non lo informano più? Caproni invece coinvolge tutti, l'addetto e il
lettore meno provvisto di sapienza critica”.
Non c'è dubbio che
Caproni abbia attraversato il Novecento con la sua lingua limpida e
immediata, con una disponibilità a farsi leggere da tutti, che pure
sembra abbia attratto su di lui qualche imbarazzo critico, e qualche
conseguente incertezza nella collocazione della sua opera.
E' proprio il riferimento
alla lingua “fraterna” a colpire più nel segno. In effetti,
Caproni parla al lettore con una lingua conciliante, quotidiana, mai
artefatta, sorretta sempre da una musicalità sottile, un tono da
filastrocca popolare, riscritta attraverso l'orecchio sapiente del
musicista colto. La poesia di Caproni attraversa davvero il buio –
della solitudine dell'uomo di fronte a Dio, per esempio, o della
ricerca di un confine che dia conto della nostra fragilità – ma lo
segna e lo illumina con la chiarezza del proprio codice espressivo.
Che è naturalmente un codice complesso, ricco di interazioni
letterarie, controllatissimo, eppure agevole, mai respingente per il
lettore. Pasolini in Passione e ideologia, a proposito di
Caproni, parla del “cristallo apparentemente semplice della sua
poesia, così complesso invece se posto in controluce critico”.
La “fraternità”
consiste allora soprattutto nel trasferire in questa lingua dalla
pronuncia facile e apparentemente spontanea contenuti per nulla
rassicuranti, né consolatorii. Come avviene in Leopardi, il tratto
lineare, lo sguardo che riporta i tranquilli accadimenti del
quotidiano, non nascondono e non semplificano, ma tendono a
denunciare la corruttibile transitorietà della condizione umana, le
nostre limitate risorse. Come si fa con i fratelli, con coloro che
reputiamo fratelli, la lingua deve essere chiara, e la chiarezza non
può servire a comunicare contenuti banali.
Ti parlo come a un
fratello, appunto si dice. Cioè senza nascondere la parola, e il
dramma che essa trasmette, dietro labirinti artificiosi.
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