Cattafi fotografato da Walter Mori nel 1972 |
A proposito ancora del
mestiere di poeta, credo sia giusto rileggere uno scritto
autobiografico di Bartolo Cattafi, che risale ai primi anni Settanta.
Cattafi entra a pieno diritto in questo blog, che ospita spesso
parole di poeti dimenticati: del poeta nato a Barcellona Pozzo di
Gotto, che quest'anno compirebbe novant'anni non fosse stato portato
via da un male incurabile già nel 1979, c'è poca traccia nella
memoria dei nostri smemorati tempi e nelle antologie, scolastiche e
non, che tratteggiano un indice e propongono un compendio della
storia poetica del secolo scorso. Suonano perciò infauste, oltre che
veritiere e ancora attuali, le considerazioni di Carlo Bo,
pronunciate in occasione di un convegno all'indomani della morte del
poeta: “Quando
si tireranno le somme del libro della poesia del Novecento, a Cattafi
spetterà un posto privilegiato e, ciò che più conta, ottenuto
esclusivamente con le sue forze. Si vedrà che a volte vale assai di
più una parola tesa all'assoluto che una fondata sul calcolo e su
un'avvilente speculazione delle opportunità. Un caso unico, lo
ripetiamo, e sarebbe giusto che tutti ormai lo riconoscessero”.
Il
riconoscimento insomma tarda ad arrivare. Arriva per ora la notizia
felice della prossima ripubblicazione del libro delle Poesie
1943 -1979,
edito nel 1990 nella collana dello Specchio di Mondadori a cura di
Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni.
Tornando
alla sua pagina autobiografica, Cattafi scrive, a proposito delle sue
prime prove poetiche avvenute nel mezzo della guerra: “Le mille
cose che quella snervante primavera mi proponeva erano magicamente
gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni.
Come in una seconda infanzia cominciai a enumerare le cose amate, a
compitare in versi un ingenuo inventario del mondo”.
Nell'immagine
dell'ingenuo
inventario del mondo,
nella capacità di posare lo sguardo su oggetti minuti e situazioni
marginali apparentemente insignificanti, e ricavarne, con lucida e
temeraria chiarezza, necessità assolute, è la forza e la
caratteristica forse prevalente della sua poesia.
“La
storia dei miei versi – scrive ancora Cattafi - non può che
coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le
fredde determinazioni dell'intelligenza, le esercitazioni (sia pure
civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente
tentano l'impossibile colpo di dadi”.
Si
tratta di una trasparente dichiarazione di poetica, sostenuta con
coraggiosa consapevolezza in anni di sperimentalismo e di astruserie
verbali.
“Non
mi riesce di capire il mestiere
di poeta, i ferri, il laboratorio di questo mestiere.
Quella del poeta è secondo me una pura e semplice condizione umana,
la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e
sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere
uomini. Di là dagli schemi mentali, dalle velleità, dalle frigide
volizioni e dalle sapienti masturbazioni, la poesia nasce sotto il
segno apparente dell'imprevisto (vi sono misteriose maturazioni,
catalizzatori non sempre identificabili, forze e forme insospettate
che si liberano rompendo lo stato di quiete,
che scattano e si scatenano secondo le linee d'un disegno naturale a
cui bisogna con coraggio arrendersi, individuandolo e potenziandolo,
per quanto consentito, con accorta vigilanza in mezzo alla selva
allettante degli inganni, dei miraggi, delle false rappresentazioni).
Poesia è dunque per me avventura, viaggio, scoperta, vitale
reperimento degli idoli della tribù, tentata decifrazione del mondo,
cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in
cui si è uomini, cruento atto esistenziale”.
Da
scrivere sui muri. Da far copiare e mandare a memoria ai molti poeti
e ai pochi lettori di oggi. Da raccontare ai ragazzi.
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