In un'epoca così avara
di maestri, Elio Pecora è un riconosciuto punto di riferimento per
generazioni di poeti. E mentre la conquista della cosiddetta
visibilità è oggi obiettivo che si ottiene a suon di urla e
spintoni, Pecora s'è ritagliato questo suo ruolo attraverso i suoi
modi sempre civili e contenuti, un fare costumato e appartato, segno
di una gentilezza e di una onestà poetica lontana dalle esibizioni
di questi tempi. Anche per questo di fronte all'ultima pubblicazione
di Elio Pecora, Nel tempo della madre, e a cento anni dalla
composizione di un ben noto breve saggio di Umberto Saba, viene da
rispolverare il concetto di “poesia onesta”. Il poemetto in
quattro sezioni, edito per i tipi de La Vita Felice, è introdotto da
un'attenta prefazione di Gabriela Fantato.
Non suoni gratuito il
riferimento a Saba, con il quale Pecora sembra peraltro condividere
l'inclinazione per un percorso fuori da mode e tendenze, che evita
con rigore il ricorso a comode concessioni al gusto corrente. Come
avveniva un tempo per il poeta triestino, anche per Pecora, ne sono
riprova questi versi dedicati alla madre, è possibile parlare di una
inattualità pregna di contenuti, che si manifesta in una dizione
classica, in un procedere dei versi che fa perno su un processo di
conoscenza che si sviluppa a partire dalla propria vicenda biografica
e procede attraverso una versificazione di grande musicalità. Quello
che conta insomma è confrontarsi con la vita e con i quesiti morali
che essa impone.
Il poemetto prende avvio
lì dove la vita della madre sta per volgere al termine, nel giorno
in cui la donna (della quale sulla copertina del volume viene
riprodotta una foto giovanile) compie cento anni e nulla più resta
della bellezza e dell'agile leggerezza di un tempo: “Che ne è di
quella di un tempo? / Dov'è mai stata? ma quando? / A sera chiamava
la luna / chiara, assorta sugli orti. / Che n'è dei piedi leggeri? /
che dei capelli intrecciati?”. Fin dalle prime battute, i versi
diventano teatro di una malinconica riflessione sullo scorrere del
tempo e sulla inevitabile fragilità della vicenda umana, che finisce
per intervenire anche sui rapporti affettivi più profondi, in quanto
anche questi sono mantenuti vivi solo grazie al lavoro della memoria,
che tende comunque a dimostrarsi esile e fallace, a sfilacciarsi. E'
così che la camera della madre si anima di presenze reali e di
fantasmi, del presente e del passato schiacciati l'uno sull'altro. E'
a partire da qui che Elio Pecora cerca di districare il filo, di
scioglierlo per ricostruire la storia della madre, la sua vicenda
esistenziale (che in qualche modo è anche quella del figlio), pur
nella consapevolezza che ogni ricostruzione è di fatto impossibile:
“Chiamiamo memoria lo schermo / su cui compaiono nomi, / camere,
oggetti / (una sedia impagliata, / il collare di un cane, / un abito
a fiori accollato) / facce si sovrappongono, / voci ripetono antiche
/ sperdute promesse”.
Pecora sceglie una
versificazione costruita sulla massiccia presenza di ottonari, che
rendono cantabile la narrazione, costruendo un ordito in cui la
vicenda personale si intreccia con quella pubblica: il racconto
dell'infanzia della madre è anche un atto d'amore nei confronti di
una terra (Pecora, che vive da sempre a Roma, è nato a S. Arsenio,
un piccolo paese del Cilento) che viene descritta in toni
affettuosamente elegiaci (“La casa era il regno sicuro: / le scale,
i cortili, i granai, / le pile di pietra dell'olio, / le logge, gli
armadi, gli odori / delle dispense e dei tini, le stalle, il canile,
i pollai”), poi arrivano gli anni della Grande Guerra, la febbre
spagnola, il fascismo, la seconda guerra e la caduta di Mussolini. In
piena epoca fascista nasce il figlio: “A quel bimbo la madre / si
mostrò uguale e compagna / nell'aspro amato viaggio / che non s'è
ancora compiuto”.
Nell'ossimoro “aspro
amato” è racchiuso il senso dell'attenzione che Pecora rivolge
alla vicenda propria e a quelle degli altri: su tutto si posa uno
sguardo insieme trattenuto e accorato, che dà conto della sofferenza
del mondo, ma la ripercorre con i toni misurati e modernissimi del
poeta classico.
(recensione pubblicata su Giudizio Universale.it)
Ahi, peccato però che Elio Pecora, si presti a operazioni, editoriali, altamente speculative e poco trasparenti.
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