giovedì 18 ottobre 2012

Josip Osti, poeta di Sarajevo


Una delle pagine più tristi della storia europea degli ultimi decenni è stata ricordata con la solita distratta e frettolosa modalità che nel nostro paese, e forse nella nostra civiltà, si riserva agli avvenimenti che disturbano le nostre coscienze e che contrastano con il desiderio di vivere comunque in superficie. La guerra in Bosnia ed Erzegovina cominciò nell'aprile di venti anni fa. L'assedio della città di Sarajevo divenne il cupo simbolo di un conflitto atroce e per tanti versi inspiegabile. A poche centinaia di chilometri dalle nostre coste venivano cancellati decenni di convivenza pacifica di fedi ed etnie diverse, che nella città bosniaca avevano avuto modo di confrontarsi e di dare vita a una cultura ricca ed originale.
Osti a Pistoia nel 2006 (foto Andrea Pecchioli)
Uno dei grandi interpreti di quel dramma è stato senza dubbio il poeta Josip Osti, nato a Sarajevo nel 1945, e che allo scoppio della guerra si trovava in Slovenia, dove tuttora vive tra Lubiana e il piccolo paese di Tomaj, a poche decine di chilometri dal confine italiano. Osti, durante il conflitto, pubblicò due libri di versi: Il libro di Sarajevo dei morti, pubblicato in Italia da Theoria nel 1997, e Il timbro di Salomone, nel nostro paese poi raccolto insieme ad altre liriche all'interno del volume L'albero che cammina, edito da Multimedia nel 2004. Entrambi i libri vennero inizialmente pubblicati nella doppia versione in serbo-croato, la lingua d'origine di Osti, e in sloveno.
Josip Osti è uno dei massimi esponenti del ricco panorama letterario dei paesi che sono nati dalla dissoluzione della Jugoslavia. Il suo mondo poetico si nutre di immagini e di situazioni semplici, tratte da vicende della vita quotidiana, spesso sviluppate attraverso un una modulazione di carattere narrativo. Il tono, apparentemente dimesso e senza dubbio di sobria inflessione, si produce improvvisamente in un lirismo di grande potenza evocativa, che nasce sempre dalle piccole cose, dai minimi accadimenti di ogni giorno, lasciando emergere da essi significati profondi e inaspettati.
E' il caso, ad esempio, della poesia che riporto di seguito, tratta da Il timbro di Salomone. La traduzione è di Jolka Milic.



Non c'è più la tabaccheria all'angolo

Non c'è più la tabaccheria all'angolo. La tabaccheria
intorno alla quale ronzavo per giornate intere cercando
di vincere l'indomabile pudore giovanile, fino a quando non mi
feci coraggio e andai a comprare il mio primo preservativo.
Non c'è la vecchia tabaccaia che dalla mia mano sudata e
tremante prese la banconota e me lo diede con lo stesso gesto
lento con il quale mi consegnava anche le sigarette, comprate a
pezzo, per mia madre. Non c'è più la profonda voce vellutata
con la quale mi chiamò, come chiamava tutti quelli che
dimenticavano di ritirare il resto. Non c'è più il suo viso bonario
che pareva non cambiasse mai. Era uguale anche quando, dopo
parecchi anni, con l'eletta del mio cuore acquistai da lei qualche
dozzina di preservativi, pretendendo perfino quelli più grandi e
colorati che dopo, ridendo e scherzando, avevamo gonfiato
ornando con essi la stanzuccia dove festeggiavamo il capodanno.
Non c'è più la tabaccheria all'angolo, come non c'è più la metà
degli edifici del rione dove una volta abitavo.


(da L'albero che cammina, Multimedia edizioni)

martedì 9 ottobre 2012

FINIO DE ZOGAR di Andrea Longega (Il Ponte del sale)


Andrea Longega pubblica il suo quarto libro, anche questo in dialetto veneziano, nelle raffinate edizioni de Il ponte del sale. Finìo de zogàr è una raccolta intensa, di rara forza espressiva, che nasce, si direbbe, dal basso, dal tono sommesso che l'autore predilige e da uno sguardo ravvicinato su oggetti e uomini. Ma se è vero come scriveva Karl Kraus che “quanto più da vicino si osserva una parola, tanto più lontano essa rimanda lo sguardo”, allora la parola di Longega, che ostinatamente si muove nei luoghi più prossimi, diventa specchio e paradigma di una vasta, universale vicenda di gioia e di dolore. Allo stesso modo il dialetto utilizzato che, come scrive lo stesso autore, “accoglie semplificazioni e italianizzazioni, tuttavia conserva ancora memoria del passato, di molti termini e modi di dire assimilati da genitori e nonni”, è dunque lingua degli affetti e della vicenda familiare, attraverso cui si può parlare di sentimenti e di un mondo circoscritto, così ricco però di qualità e moralità, che la lingua italiana tenderebbe a sminuire, producendo un effetto di eccessivo slittamento sentimentale.
Attraverso l'uso del dialetto “semplificato”, non lingua della comunicazione ma della memoria e degli affetti, Longega può far scivolare le parole sui piccoli eventi del quotidiano, sugli insignificanti equivoci che puntellano la storia personale, può ricostruire eventi familiari che a prima vista apparirebbero marginali, fare leva su quelle emozioni che non trovano più diritto di cittadinanza sulla pagina letteraria. Può cioè ancora stupirsi, commuoversi, turbarsi, provare pietà, intenerirsi, senza che questo risulti imbarazzante per chi legge o per chi scrive, ma anzi ottenendo un effetto di trasparente innocenza e di grande incisività. La vita si anima così di un dialogo minimo e straziante, anche di fronte alla malattia e alla morte della madre, a cui sono dedicate numerose liriche, dove oggetti d'uso quotidiano e domande universali sono messi in relazione e si contaminano attraverso il tono pacato e cantilenante dei versi: “Merli che ve sento / prima che fassa matina / parléme co la vostra / vose prima, come fusse / la nòte de Nadal. / Conteme del mondo / (savé de la Elvira? De la so tuta / de cinilia?) / e de quelo che ne l'aria / e in mèzo ai rami / se tramanda”.
Longega è capace di affrontare, come ricorda Vivian Lamarque nella partecipe introduzione al volume (“le mie poesie – scrive in apertura – amano molto le poesie di Andrea Longega”), i grandi temi della vita e della morte, sempre con una grazia che riesce a restituirci tutta la sofferenza e tutta la bellezza di cui sono intrise le nostre esistenze e che sembra vogliamo dimenticare: “Xe cussì semplice / nasser e morir / che tutto el resto me par / inutilmente complicà”.



(pubblicato sul sito Giudizio Universale)

giovedì 4 ottobre 2012

Lo spettro di Manzoni


Cosa faccio leggere ai miei alunni? La domanda si ripropone ad ogni inizio d'anno scolastico. Ogni volta, non so fornire una risposta che risulti pienamente soddisfacente. Vorrei qualcosa di nuovo, che sappia far capire ai giovani lettori, senza immiserirli, che la letteratura non è solo roba di secoli fa, che parla anche a loro, ad ognuno di loro. Mi sforzo, credetemi, penso e ripenso, chiedo consiglio. Ci metto tutto l'impegno. Ma sulla scelta presto incombe lo spettro di Alessandro Manzoni. Il suo romanzo l'abbiamo letto tutti tra i banchi di scuola, nei cui programmi entra di prepotenza addirittura già negli anni Ottanta dell'Ottocento. Le ragioni del successo scolastico sono chiare: I promessi sposi è opera utile per affinare lessico e sintassi e risulta un insieme pedagogico di rara potenza: patriottismo, storia, valori religiosi e morali, considerazioni sui rapporti di forza nella società, personaggi buoni e cattivi su cui proporre sermoni edificanti, ecc. Insomma già alla fine del XIX secolo il romanzo del lombardo irrompe sulle caute mattinate scolastiche (insieme a Cuore di De Amicis, adatto ai più piccoli e che resiste però solo fino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso) per non più abbandonarle.
Deve essere per questo che Manzoni popola i miei incubi di insegnante. Appena penso a un romanzo da far leggere al biennio delle superiori (che so, per non allontanarmi troppo dal repertorio storico, potre provare con La Storia di Elsa Morante o Metello di Pratolini, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, o addirittura Sostiene Pereira di Tabucchi) ecco presentarsi lo spettro, accompagnato da una schiera inquieta di anime di insegnanti a spiegarmi che senza quella lettura (“tagli pure qualcosa, la capisco” mi rassicura il padre del romanzo italiano) contribuirò a formare alunni disadattati e insolenti, che non sono cresciuti animati da buoni propositi perché non si sono emozionati per le lacrime di Lucia o per la conversione dell'Innominato, non hanno avuto modo di considerare quanto sia grande la misericordia di Dio, né hanno gioito, sia pure con qualche esitazione, mentre don Rodrigo sul letto di morte cerca inutilmente di richiamare al capezzale i suoi servitori. E che dire di don Abbondio? Come fa un ragazzino di quindici anni a non riflettere almeno una volta sul paragone del vaso di terracotta che viaggia in compagnia di molti vasi di ferro?
Lo spettro arringa con toni severi. Le anime degli insegnanti (del purgatorio? ma mi sembra di riconoscere qualche professoressa ancora in vita) mi squadrano con sguardi truci. Una prof bassina, pallida quanto basta alle circostanze, mi aggredisce: “E chi è poi questo Tabucchi? Avesse almeno detto D'Annunzio!”. Io cerco di difendermi: solo per quest'anno, dico a testa bassa, per provare, poi tanto lo so che dovrò fare marcia indietro, assalito dai sensi di colpa e dalla collera dei colleghi. Loro mi guardano sgomenti. Manzoni scuote il testone: non approva.
Io la mattina dopo entro in classe e dico subito ai ragazzi, così mi tolgo il peso, di portare per la prossima lezione una copia de I promessi sposi. “Ma ci aveva detto – azzarda la biondina al primo banco – che avremmo letto altro”. “I promessi sposi bisogna conoscerli” dico io convinto. “Ma non sono nell'elenco dei libri di testo” si sente sussurrare dai banchi di fondo”. “Non importa – concludo – a casa vostra o dei vostri nonni ce ne sarà sicuramente una copia”.